Come dice Celletti

Per merito di mio padre, sono stato un ascoltatore di musica lirica molto precoce. A dieci anni possedevo una discoteca di dodici opere che conoscevo a menadito: La traviata, Rigoletto, Aida, Otello, Il Trovatore, Nabucco, Norma, Carmen, Andrea Chenier, Cavalleria Rusticana, La boheme, La forza del destino.
Poi mio padre se ne andò. Per i successivi tre anni delle scuole medie ebbi allora un rigetto dell’opera ed ascoltai per lo più musica leggera, con un blando interesse per la musica sinfonica che si sviluppò durante gli anni del liceo. L’opera lirica, invece, riprese con calma il posto di privilegio da cui era stata spodestata.

Il mio gusto musicale era stato impostato da mio padre, sia per il repertorio che per gli interpreti; amavo l’opera italiana e i cantanti di vecchia scuola. Il repertorio ben presto si ampliò grazie alla mia istintiva curiosità ed anche alla buona paghetta settimanale di mia madre, che mi permetteva di acquistare i biglietti per il teatro, una bella quantità di nuovi dischi, libri e riviste musicali. E poi fu importantissima, in questo, la radio che in quegli anni trasmetteva ben tre opere alla settimana, insieme alla filodiffusione.
Per quanto riguarda gli interpreti vocali, pur avendo ben educato da bambino l’orecchio sulle voci di Aureliano Pertile, Beniamino Gigli, Renata Tebaldi, Maria Callas, Gina Cigna, Maria Caniglia, Mario del Monaco, sentii il bisogno di sapere cosa ne pensavano gli ‘altri’, quelli che ne sapevano più di me, cioè i critici musicali. In questo senso mi furono tanto utili ancora le trasmissioni radiofoniche, prima fra tutte – durante le mattina delle vacanze scolastiche – era Antologia operistica, in cui venivano presentati i brani d’opera talvolta con il commento dei cantanti lirici.
Seguivo fedelmente, ogni martedì sera, verso le venti, Il melodramma in discoteca di Giuseppe Pugliese che offriva un ascolto comparato, per ogni opera, delle migliori edizioni discografiche e, soprattutto, spiegandone il perché. Queste erano trasmissioni bellissime, dal taglio quasi scientifico, dei veri saggi radiofonici.
Circolavano per la radio anche l’autorevole Angelo Sguerzi, nostalgico testimone di epoche teatrali passate, e Giorgio Gualerzi, infallibile memoria del teatro in musica.
A me piaceva tanto, il sabato pomeriggio alle sedici e trenta, ascoltare anche Di tanti palpiti con l’originale presentazione di Franca Valeri.
E poi si concludeva la settimana, alle ore venti della domenica, con le rubriche di Franco Soprano dedicate alla musica lirica, quasi dei rotocalchi lirici che nel tempo ebbero titoli differenti: Il mondo dell’opera, Opera 77, Opera 78, Il pescatore di perle. Ascoltavo queste trasmissioni senza passione, forse perché Soprano mi appariva troppo affabile e cordiale. Le sue presentazioni o recensioni apparivano prudenti, dando un colpo al cerchio e un colpo alla botte.
Di ben altra pasta era il critico romano Rodolfo Celletti: le sue recensioni all’occorrenza erano delle cannonate rivolte contro direttori d’orchestra e cantanti. Scoprii la polemica, corrosiva, vivace penna di Celletti sulle pagine del mensile Discoteca Alta Fedeltà su cui recensiva i dischi delle opere italiane e francesi – le altre opere venivano presentate dagli ottimi Rubens Tedeschi e Giuseppe Pugliese.
Celletti si schierava contro quello che, a suo avviso, in quegli anni costituiva il declino dell’opera: il mal canto verista e il suo stile. Il critico romano sognava un canto dallo stile puro, stilizzato, interamente vissuto all’interno della musica, con il preciso rispetto dei segni espressivi dei musicisti, senza eccessi o volgarità, un canto filtrato dalla filologia sia nella esecuzione musicale che in quella interpretativa. Un canto allucinato, come diceva lui. E si schierava decisamente contro chi non perseguiva il ripristino dell’Aetas Aurea del Belcanto così come lui prefigurava.
Creò così un bel registro con i buoni e i cattivi; tra i cattivi c’erano dentro cantanti di gran nome che calcavano i più grandi palcoscenici, che incidevano per le più importanti case discografici.
Quale unica deroga a questa regola, ammetteva solamente l’enfasi espressiva di Magda Olivero perché amava follemente questa grande artista.
Il ritorno filologico alle antiche prassi esecutive, perdute con il verismo -prassi mediate dalla trattatisca sette-ottocentesca o da certe pagine dedicate al canto da grandi scrittori- fu dapprima intravvisto da Celletti principalmente nel canto delle voci femminili. Le sue cantanti erano Maria Callas, in quanto diede la stura a questo processo di rinnovamento, ovvero di ritorno all’antico, e poi Joan Sutherland, Leyla Gencer, Beverly Sills, Marilyn Horne, nonché Montserrat Caballé dei tempi migliori. E su troni a parte, solo per via dei repertori, collocava Renata Tebaldi insieme a Magda Olivero. Le voci maschili gli parevano più riottose ed approvava a quell’epoca pochi tenori in carriera: Carlo Bergonzi senza riserve e, nonostante l’algidità, Alfredo Kraus.
Queste idee, sempre felicemente esposte, piacquero assai ai noi giovani melomani. Celletti fu il maître-à-penser della nuova generazione di spettatori del teatro d’opera. E così diventammo tutti antiveristi e seguaci del Belcanto.
E massacravamo i cantanti al di fuori da questi canoni.
Al Festival della Valle d’Itria si materializzarono gli ideali estetici e vocali di Celletti in quanto ne fu direttore artistico per ben tredici anni.
All’inizio degli anni ’80 i tempi ormai erano maturi per la Rossini Renaissance con la nuova stirpe di cantanti rossiniani. E Celletti sembrò esserne profeta e mentore.
Raccolse le sue recensioni in un libro, Il teatro d’opera in disco, che divenne una specie di Bibbia. Per conoscere quello che dovevamo pensare noi, giovani melomani, andavamo a leggere questo libro e ci adeguavamo in conseguenza.
I miei giudizi spesso iniziavano con le parole «Come dice Celletti…»
A mio avviso, il miglior Celletti lo troviamo prima che prendesse vita compiutamente l’estetica cellettiana, cioè nelle sezioni da lui curate per un libro del 1964, Le grandi Voci.
Possiamo dire, fino a questo punto, che Celletti fece un’opera meritoria: crebbe una nuova generazione di ascoltatori impostandone il gusto in termini rigorosi. Eravamo i cellettini.
Però…
Ci sono stati due però.
Primo però. Se Celletti ogni tanto nelle sue recensioni ricordava che l’opera in disco è un mondo a parte rispetto a quello dell’opera in teatro -e ci mancherebbe altro!- viceversa i suoi giovani seguaci non sempre parevano ricordarsene, facendo d’ogni erba un fascio. Il canto in disco è artificiale; nell’esecuzione in studio si possono fare dei begli effetti che dal vivo, in teatro, sono difficoltosi da realizzare. In disco si può creare un qualcosa che nella realtà non è mai esistito così come l’ascoltiamo nel suo risultato finale. Le recensioni di Celletti crebbero uno stuolo di piccoli cellettini massimalisti che, in teatro, pretendevano sempre e comunque la perfezione dello studio di registrazione, giudicando in conseguenza.
Secondo però. Le recensioni di Celletti sempre entravano a capofitto nel merito della tecnica del canto. Parlava non solo a cellettini profani -non a cantanti- di suono in maschera, di suono affondato, di suono avanti, di suono indietro, dei vari tipi respirazione, di appoggio, di suoni di testa, di suoni di petto e così via. Questi concetti Celletti li apprese con la frequentazione di Giacomo Lauri Volpi, cantante per il quale aveva una sconfinata ammirazione sia dal punto di vista tecnico-vocale che dal punto di vista interpretativo.
Il risultato fu che noi cellettini iniziammo a pontificare sulla tecnica vocale. Già i cantanti spesso capiscono poco di tecnica vocale, figuriamoci quello che potevamo capire noi, cellettini, dalla mera lettura di recensioni di opere registrate in studio! Appare ovvio che spesso si affermassero delle belle minchiate in allegria e senza vergogna…tanto ce l’aveva detto Celletti.
Per quanto mi riguarda, nel 1980, pensai di prendere delle lezioni di canto e appresi quanto fosse difficile incamminarsi per la strada maestra. Dopo sei mesi piantai tutto perché il canto non era cosa per me. I casi della vita mi diedero però l’opportunità di conoscere diversi maestri di canto, alcuni illustrissimi, e mi resi conto che nel canto ci sono diverse strade percorribili, ognuna delle quali conduce in luoghi differenti ovvero che esistono molteplici tecniche di canto in grado di produrre vari, ed assai differenti, tipi di suono. Quanto predicava Celletti sulla tecnica di canto -spesso descriveva nei suoi articoli la sua tecnica di canto, condivisa e attuata da alcuni insegnanti- produceva cantanti dalle voci che proprio non gradivo: magari bravi o nel fare le agilità, o nel legato oppure nell’eseguire i segni di espressione dell’autore ma, per contro, avevano voci spesso sfocate, belanti, scarse di volume e modeste di timbro. In taluni casi erano stati istruiti a cantare secondo uno stile di esecuzione che avrebbe dovuto, presumibilmente, riprodurre quello dei cantanti della prima metà dell’Ottocento. Alcuni risultati mi parvero risibili, né più né meno.
Sono passati più di quarant’anni da quei bei momenti di giovanile entusiasmo.
Ora ascolto con le mie orecchie e giudico in maniera totalmente autonoma. E, rileggendo quelle lontane recensioni, in diversi casi non mi trovo più d’accordo con Celletti.
Le recensioni dei critici in generale ora non mi interessano più.
Non mi interessa nemmeno più scambiare opinioni a teatro dopo le rappresentazioni perché, esprimendo semplicemente il mio pensiero, senza Celletti di mezzo, qualche tempo fa, ho perso un amico.

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