Racconti intorno alla mia casa natale

La casa dove sono nato e dove ho abitato per più di trent’anni si trova in Via Galliera.
Dal portico sulla strada si entrava per un alto portone cigolante, nero come fuliggine, con batacchi in bronzo, teste di leoni antropomorfi dallo sguardo allucinato come quello dei mostri di Bomarzo, che dava in un androne buio ornato con due coppie di lesene. Pochi gradini sotto un ampio arco conducevano in un secondo androne. In fondo, la porta scura di cantine catacombali, solidi rifugi antiaerei durante la Guerra, da cui proveniva un tanfo tiepido e muffo. Accanto stava l’alto accesso da cui iniziava una faticosa salita di ottantotto gradini interrotta da ampi pianerottoli – il primo cupo e spettrale, l’altro rasserenato dal chiarore esterno. L’ultima rampa di scale si troncava ripida contro ad una porta scorrevole con vetri: casa mia. Arrivata in cima, la gente esclamava con il fiatone:
«Sembra di arrivare in paradiso!»
Giuseppe Guidicini, grande bolognese vissuto tra il Settecento e l’Ottocento, nell’imponente sua opera «Cose notabili della città di Bologna», dedica alla mia vecchia casa poche righe togliendola dall’anonimato dei secoli.
Ed apro ora una parentesi su Guidicini.
Le «Cose notabili» nacquero da pazienti ricerche negli archivi notarili e paiono fondamentali per chi intenda interessarsi alla storia, alle famiglie, all’urbanistica di Bologna fino ai primi anni del secolo diciannovesimo: opera originalissima poiché in essa, per quasi ogni fabbricato della città ottocentesca, vengono narrate le loro storie attraverso i rogiti e i nomi dei proprietari.
Chi fu Giuseppe Guidicini? Per saperlo si deve leggere l’introduzione biografica alle «Cose notabili» scritta dal figlio Ferdinando per la prima edizione del 1868. La maggior parte delle notizie che riguardano Giuseppe Guididicini scrittore provengono proprio da qui. Ferdinando narra che «Giuseppe di Gio. Batt. Guidicini sortì i natali in Bologna li 29 agosto 1763, e sino dall’ infanzia diè a divedere una inclinazione profonda per gli studi. Si diè quindi con amore alla coltura delle scienze matematiche nel Patrio Ateneo, ed in breve vi sostenne con lode gli esami dottorali. Alli 29 aprile 1791, fu approvato pubblico Ingegnere ed Architetto, ed alli 29 aprile I793 pubblico Ingegnere Agricoltore ed Agrimensore. Iniziò la sua camera col prestare i propri servigi alle nobili famiglie Boschi e Malvasia».
Partecipò attivamente alla costituzione della Repubblica Cispadana ed all’assemblea di Reggio Emilia che decretò la nascita del Tricolore italiano.
Scrive Ferdinando Guidicini: «In seguito all’ avvenuta invasione austriaca, partì da Milano il 17 aprile 1799, e passò in Francia assieme al Conte Ferdinando Marescalchi… Nell’agosto del 1800 fece ritorno in Italia, e per affari governativi affidatigli dal suddetto Conte Ferdinando Marescalchi, allora Ministro, s’intrattenne a Milano, da dove ripatriò verso la fine del successivo settembre». Ebbe importanti incarichi dapprima nella Repubblica Cisalpina, poi nel nuovo Regno d’Italia creato da Napoleone e poi ancora fu chiamato a Parigi dallo stesso Imperatore dei francesi. Qui Guidicini sposò una donna assai più giovane e nacque appunto Ferdinando, unico figlio.
Giuseppe Guidicini ritornò a Bologna solamente dopo Waterloo ma – da irriducibile bonapartista qual era – e uomo con la schiena dritta – rifiutò ogni incombenza offerta dal nuovo governo cittadino. Ritiratosi dalla vita attiva, indossò, quindi, gli abiti dell’erudito dedicandosi allo studio di cose bolognesi. Prolifico scrittore, non curò mai la pubblicazione di alcun manoscritto. A questo pensò il figlio.
Giuseppe Guidicini morì a Bologna il 25 gennaio 1837.
Sulla mia vecchia casa, ora situata al N. 37 di Via Galliera e al N. 497 della Strada di Galliera secondo la numerazione in uso fino all’anno 1878, Guidicini annota che, il 9 marzo 1540, un tal Cesare Zani la affittò a «Giovanni Antonio Sangiorgi anche a nome del cav. Aldrovandino e fratelli, figli di Giovanni Malvezzi, per annui scudi 56 d’oro. Rogito Gio. Battista Canonici. Confina la strada, e Giulio Guidotti di sopra». All’epoca la casa aveva anche una stalla.
A metà del secolo sedicesimo secolo la costruzione già esisteva e, probabilmente, nemmeno in quell’epoca lontana doveva essere recente. La facciata, d’altra parte – semplice, scarna – suggerisce una più lontana origine medioevale.
Cesare Zani, notaio di professione, concluse dunque il contratto di locazione con Giovanni Antonio Sangiorgi per cinquantasei scudi all’anno, equivalenti a circa duecento grammi di oro.
Gli Zani, ricchi mercanti di lana, provenivano da Firenze. A Bologna fecero parte della magistratura e degli Anziani Consoli per il governo della città.
Pure la famiglia Sangiorgi aveva antiche origini: probabilmente proveniva da Castello di San Giorgio, l’attuale San Giorgio di Piano, da cui il cognome. Tra i Sangiorgi s’ebbero sia Gonfalonieri che Senatori.
Insomma, due famiglie benestanti.
Il contratto di locazione fu concluso anche a nome del cavaliere Aldrovandino Malvezzi e dei suoi fratelli, figli di Giovanni.
C’è chi sostiene che questa nobile famiglia avesse lontane origini tedesche ma, più probabilmente, i Malvezzi provenivano da Budrio. Divisi in diversi rami, i Malvezzi furono grandi antagonisti dei Bentivoglio, signori di Bologna. Il 27 novembre 1488, con l’aiuto della famiglia Lambertazzi, i Malvezzi tentarono infatti di cacciare da Bologna Giovanni II Bentivoglio. Il fatto è stato rubricato come la Congiura dei Malvezzi. Per questo motivo i Malvezzi furono esiliati, potendo rientrare solo nel 1506 dopo la la cacciata dei Bentivoglio, allorché Bologna passò sotto il dominio dello Stato Pontificio.
E’ importante per me, quale amante del melodramma, ricordare che in un immobile della famiglia Malvezzi fu allestito tra il 1651 e il 1653 un teatro che in breve divenne famoso non solo in Italia per la bellezza dei suoi spettacoli. Il nobile Teatro Malvezzi prese fuoco nel 1745, in una notte, dopo poco meno un secolo di vita.
Guidicini, a proposito della mia casa natale, termina scrivendo che «Nel 1715 era di Domenico Romani, poscia delle suore cappuccine».
Non ho trovato alcuna notizia su Domenico Romani.
Con piacere constato, infine, che le parole dell’erudito e i racconti di mio padre coincidono: la casa aveva ospitato delle suore, forse addirittura un convento, probabilmente fino al 1796, anno in cui il Governo filonapoleonico della città, per rimpinguare le magre pubbliche finanze messe in ginocchio anche dagli stessi francesi, soppresse ed espropriò tutti i conventi con meno di quindici religiosi, non potendo esservi più di un convento per ogni ordine religioso; il numero di questi edifici fu così più che dimezzato.
Passata la temperie napoleonica, casa mia non ritornò alla Chiesa e rimase una delle tante abitazioni civili del centro di Bologna.
Si arriva così al secolo scorso.
Via Galliera 37 entrò a far parte del consistente patrimonio immobiliare di un avvocato bolognese, Giorgio Alessandri. Mi ricordo che, quando mio padre era in vita, l’avvocato veniva a riscuotere personalmente il non elevato canone della casa, proprio come si faceva una volta. I due conversavano a lungo anche perché mio padre era veramente brillante.
L’avvocato morì lasciando tutti i beni al suo unico figlio Alessandro. Questi aveva conseguito una laurea in ingegneria, ma non esercitò mai la professione: tenere dietro a centoventisette tra case, uffici, negozi e capannoni non doveva essere uno scherzo. Alessandro si trovò perfino ad essere proprietario della sontuosa villa Clara abitata dal vero fantasma di una bambina murata viva, forse per punizione.
Si guarda sempre con invidia chi beneficia di ricche eredità. E invece l’Ingegnere non suscitava questo sentimento perché faceva una vita molto frugale. Viveva con una governante in un’antica abitazione mal tenuta di Via Barberia.
Dimesso negli abiti quanto trascurato nella cura di sé, pareva uno spiantato maleodorante a cui allungare qualche spicciolo. E invece con lui s’estingueva un’antica famiglia.
Provvisto di un bagaglio di belle letture scientifiche, storiche, filosofiche, forse non recentissime, e di una ricca interiorità derivante dall’intensa religiosità – seppur logorroico – conversavo con lui volentieri.
Non riuscì a tenere dietro da solo a tutto quel ben di dio che aveva ereditato dal padre. Sciatto anche con le cose, lasciò che gran parte gli immobili andassero alla malora, compresa Villa Clara. E non vendette mai alcunché delle sue proprietà, mantenendo integra la consistenza di un patrimonio famigliare che cadeva sempre più a pezzi.
Affidò quindi l’amministrazione di quell’ambaradan di mattoni ammalorati ad un certo professore che peggiorò la situazione.
Secondo il muratore di fiducia dell’Ingegnere, si chiamava Tassinari, questo amministratore si metteva in tasca la maggior parte delle entrate derivanti dall’affitto dei fabbricati. Non avendo denaro per le riparazioni – ma forse era anche spilorcio – o l’inquilino pagava di tasca propria, oppure il povero Alessandri provvedeva personalmente, coadiuvato da Tassinari, trasformandosi di volta in volta in muratore, lattoniere, fabbro, idraulico.
Alessandri, uomo assai mite, temeva le sfuriate di mia madre per le perdite di pioggia che provenivano dal tetto plurisecolare. Sfuriate che, con minaccioso indice puntato, così principiavano: «Chèr al mî Inżgnîr…». Non servivano a nulla perché era semisordo. O almeno così sembrava.
L’Ingegnere, sempre a detta del muratore, conciliava il diavolo con l’acqua santa poiché in lui conviveva l’ardore politico di un comunista sfegatato con l’anima di un vero credente. Tassinari sosteneva che dopo di sé avrebbe addirittura devoluto ogni suo avere a favore delle Opere Pie.
Alessandro Alessandri trapassò nel 2004. E ci fu il colpo di scena.
Al momento dell’apertura del testamento, una degli eredi apprese d’essere figlia di Alessandri, nata da un lontano amore non gradito alla sua famiglia. Una storia che sa di letteratura.
L’Ingegnere abbandonò madre e figlia, rimanendo con scrupoli e grandi sensi di colpa per quasi un’intera esistenza.
La vecchia casa medioevale di Via Galliera da diverso tempo è sottoposta ad un consistente restauro per poi essere venduta.
E allora ho chiesto a mia mamma:
«Che ne diresti di ritornare ad abitare in ‘viagallieratrentasette’?»
La risposta è stata questa:
«Non mi passa neanche per l’anticamera del cervello!»
Forse ha ragione lei: la nostalgia è una brutta malattia.

Le Lasagne

Dalle mie parti, il nome di questa sontuosa minestra è difettivo del singolare. Solo e semplicemente Äl Laṡagn, le Lasagne. Ma tant’è: se a qualche pseudo bolognese distratto però sfuggisse di dire lasagna si dovrà benevolmente sperare che abbia almeno voluto intendere un singolo strato di sfoglia di cui sono appunto formate le Lasagne.

Nel Meridione la situazione è ben diversa. In Campania esiste infatti la lasagna di Carnevale, un timballo al forno ma secondo una ricetta affatto differente da quella bolognese.
La preparazione delle Lasagne richiede impegno e tempo. Occorre tanta sfoglia verde per colmare una teglia di metallo alta circa sei centimetri perché le Lasagne devono essere un piccolo castello in mezzo alle scodelle dei commensali.

Occorre tanto ragù alla bolognese, ça va sans dire, ed esso è il signore delle Lasagne che abita nell’interno del castello di pasta. La castellana è la besciamella, il parmigiano reggiano  e infine il burro sono paggio e servo del castello di pasta.

Conviene prendersela con calma iniziando la preparazione delle Lasagne alla sera con il ragù. La mattina successiva si farà la sfoglia, si grattugerà il parmigiano e, solo poco prima di unire i vari ingredienti, si cuocerà la besciamella per evitare che, raffreddandosi, diventi un mappazzone difficile da stendere.

Ed ora la ricetta del ragù, in bolognese la cónza o al ragó.

Sciogliete in un tegame, possibilmente di coccio, un etto di burro, a cui  aggiungerete un etto di pancetta macinata, insieme ad una carota, una cipolla e una costa di sedano tritate. Una volta appassiti, unirete, ben macinati, tre etti di polpa di maiale e altrettanto di muscolo di manzo. Le carni devono rosolare ben bene e poi sfumerete con un bicchiere di vino secco. Aggiungerete almeno tre etti di conserva di pomodoro – il ragù deve risultare ben rosso – sale e latte quanto basta. Dopo questo abbassate la fiamma, il ragù dovrà cuocere con un leggero sorriso, e magari mettete una piccola piastra di ghisa per distribuire uniformemente il calore. Coprite il tegame e fate cuocere fino a che il liquido superfluo non sarà consumato e rimarrà un composto quasi cremoso. Passeranno almeno tre ore, ma non preoccupatevi se ce ne vorranno anche il doppio o più. L’occhio, mischiando con un cucchiaio di legno, deciderà quando sarà pronto.

La lavorazione delle sfoglia, in dialetto la spójja, inizierà formando una fontana con cinquecento grammi di farina in mezzo al tagliere. Aggiungete trecentocinquanta grammi di spinaci – o in alternativa la parte verde delle bietole – lessati, ben strizzati e tagliati molto finemente con la lunetta. Infine si uniranno tre uova ed un cucchiaio di olio di oliva.

Mischiate per bene questi ingredienti con le mani ma non troppo, dopodiché l’impasto dovrà riposare per almeno una mezz’ora affinché acquisti elasticità. Trascorso questo tempo dovreste aver deciso se tirare, cioè assottigliare, la sfoglia a mano, con il matterello, oppure con la macchina. «Tirare la sfoglia» è un’arte d’altri tempi, incommensurabile quanto faticosa, che occupava un posto di primo piano nel corredo delle massaie emiliane. Il risultato di questo lavoro faticoso sono dei fogli ellittici di pasta gialla oppure verde cioè la spójja. Le virtuose del matterello sanno ottenere delle sfoglie senza buchi e, all’occorrenza, sottili quasi come pergamene traslucide. Queste sono la base per ottenere le principali minestre di una delle più celebri cucine regionali: quella bolognese.

Se sceglierete la strada più ripida, la sfoglia fatta a mano, da essa ritaglierete delle strisce rettangolari più o meno lunghe quindici centimetri e larghe dieci. Con la macchina c’è il vantaggio, a parte il risparmio di tempo e fatica, che si otterranno strisce della larghezza giusta; inoltre nessuno si accorgerà della lavorazione facilitata se la pasta sarà appiattita con soli tre o quattro giri di macchina. E’ importante che la sfoglia delle Lasagne non risulti comunque troppo sottile.

Dopo aver grattugiato il parmigiano, mentre si porterà all’ebollizione una pentola con abbondante acqua salata per la cottura della pasta, su di un altro fornello preparerete la besciamella, la balsamèla.

Questa ne è la ricetta.

Fate tostare in ottanta grammi di burro, altrettanta farina, quindi aggiungete un litro di latte bollente mescolando energicamente con un cucchiaio di legno per evitare che si formino dei grumi. Salate e fate cuocere per almeno otto minuti, sempre mischiando, affinché la besciamella perda il gusto della farina.

A questo punto si può passare alla composizione delle Lasagne. In questa fase il cuoco è bene che abbia un aiutante.

Cuocete due strisce per volta nell’acqua bollente, raccoglietele con una ramina, sgocciolatele, e deponetele su di un burazzo bianco per asciugarle. Versate sul fondo dello stampo rettangolare qualche cucchiaiata di ragù poi disponetevi sopra le strisce di pasta cotta. Versatevi sopra uniformemente altro ragù. Ed ora è la volta di distribuire, ma con misura, la besciamella e infine una pioggia non torrenziale di parmigiano reggiano, la fåurma. Nel dosare la besciamella e il parmigiano dovete seguire il buon senso, ricordando che i loro sapori non avranno da prevaricare quello del ragù, e che sia al momento del taglio della minestra sia quando la forchetta affonderà nella porzione non vi dovrà essere alcun rilascio di liquido né il formaggio dovrà filare: le Lasagne devono risultare compatte.

Con la spolverata di parmigiano avrete completato il primo strato.

Continuerete la Grande Opera con altrettanti strati seguendo l’ordine delle operazioni che ripetiamo: cuocere la pasta, asciugarla, disporla nella teglia, distribuire il ragù e poi la besciamella, per terminare con il parmigiano.

Terminerete le Lasagne con uno strato di sfoglia, su cui stenderete besciamella e ragù mescolati, una spolverata di parmigiano reggiano e fiocchetti di burro, al butîr.

È bene non colmare per intero lo stampo perché in forno le Lasagne aumenteranno di volume. Coprite con la carta da forno e cuocete a centottanta gradi per venti-trenta minuti. Infine, tolta la copertura, gratinatele fino a che si sarà formata una bella crosta croccante. Una volta cotte, fuori dal forno, prima di fare le porzioni le Lasagne devono riposare per una decina di minuti affinché i diversi strati si leghino per bene.

Si possono distinguere sapori maschili e sapori femminili? Se così fosse, il sapore delle Lasagne non rappresenterebbe né gli uni né gli altri, ma la fusione di entrambi, il vigore virile del ragù e del parmigiano unito alla femminile dolcezza della besciamella. Le Lasagne sono un perfetto ermafrodita che si accompagna al gusto di abbondanti bicchieri di Lambrusco.

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