Il fattore K. I giovani dimenticati e l’inizio del declino (Parte seconda)

Già, i giovani. C’erano anche i giovani. Ci sono sempre stati ma, dopo il ’68, i giovani parevano di più e più rompiscatole dei predecessori.

Non penso che l’esser giovane debba essere considerato necessariamente un valore, ma i giovani non sono nemmeno dei sassolini da evitare lungo la strada. All’interno del PCI non mi sono mai sentito giovane. Qui a Bologna durante il ’77 si vide in maniera palese che il PCI non sapeva né capire né attirare a sé i giovani. Segretario della FGCI era Massimo d’Alema, il nuovo che si era avanti. Avanti, o popolo alla riscossa…

Per quanto mi riguarda, nel 1975 mi iscrissi alla SUC, la Sezione Universitaria Comunista. La mia facoltà pareva una mosca bianca nell’Ateneo bolognese: era un’isola senza particolari terremoti ideologici sotto il controllo del PCI. Gli studenti che simpatizzavano per l’Autonomia operaia si contavano, invece, sulle dita di una mano. Ogni tanto mi recavo alle loro sporadiche assemblee e in certe occasioni i partecipanti arrivavano al numero giusto per una partita a tressette. Un gruppo nutrito di studenti proveniva dalla Romagna, tra Rimini e Cesena, ciellini con chitarre, canti e orazioni ma, all’occorrenza, litigiosi, polemici, pronti ad alzar le mani. Avevano quale portavoce il figlio di un segretario di un partito politico di centro nonché parlamentare – padre e figlio assomigliavano come due gocce d’acqua, soprattutto per le sopracciglia cespugliose.

Dei professori, assistenti e tecnici, pur non manifestandosi apertamente, era noto l’indirizzo politico con certezza. Capitava che gli studenti comunisti, la mattina, andassero a lezione dai professori comunisti, svolgessero esercitazioni con assistenti comunisti e lavorassero con i tecnici comunisti. Capitava pure che la sera studenti, professori, assistenti e tecnici si incontrassero nella sezione comunista, una specie di Sancta Sanctorum dell’ortodossia come la Scuola delle Frattocchie. E capitava che il giorno dopo ci fossero gli esami. Verità.

Io c’ero.

La passione politica veniva sfruttata da alcuni compagni di corso, sotto gli occhi di tutti, sfacciatamente, per fare carriera nell’ambito universitario. Per carità, alcuni di quegli studenti miei colleghi erano bravissimi e la bella strada che hanno percorso è stata assolutamente meritata. Trovarono, però, nella politica una singolare facilitazione che si estese ad altri studenti con minori capacità ma con la medesima tessera nel portafoglio. Non solo: gli studenti comunisti migliori e più lungimirante lisciarono per bene i baroni democristiani. I professori invece, tutti insieme, avrebbero voluto lisciare il figlio del segretario di un partito che valeva in Parlamento un tre per cento. Purtroppo per loro, le lodi sul libretto fioccavano non per merito loro ma erano il necessario riconoscimento della bravura del maxi sopraccigliato rampollo.

Venne il ’77. Mi deluse la linea politica del PCI quindi diradai il mio modesto contributo di attivista politico e dal 1979 non rinnovai più la tessera. Da quell’anno non ho più avuto alcuna tessera, né politica né sindacale.

Apparve, nel firmamento politico, l’astro del machiavellico Craxi. Accentuò il declino del PCI, che diventò obsoleto. Lo isolò.

Mettete dei fiori nei vostri cannoni, cantavano I Giganti nel 1967. Dopo meno di un decennio il nuovo segretario socialista prese alla lettera i versi della canzone e caricò con mazzi di garofani rossi i propri cannoni politici e li sparò contro le bandiere rosse.

L’Italia che contava diventò tutta socialista, forse affascinata da un nuovo Napoleone. Certamente per comodo. Craxi non teorizzò il futuro, lo costruì, nel bene e nel male. I problemi odierni risalgono a lui.

E il Fattore K parve svanire come un fantasma sotto i raggi del sole nascente.

Io non lo sopportavo e mai lo avrei votato però, con il senno del poi, riconosco che, indubbiamente, fu un grande politico.

Il lavoro di scombinamento della sinistra iniziato da Craxi fu terminato, stranamente, da un mercante di anime, ammesso che i politici ne abbiano una. Cioè dall’ex Cavaliere Silvio Berlusconi.

Mi ricordo che, quando Berlusconi si mise in politica, io pensai che avrebbe fatto un gigantesco buco nell’acqua. «Possono essere, gli italiani. così cretini da votarlo?», pensai. La Bruna, mia madre, vide invece molto più in là di me e, novella Cassandra, preconizzò «Vedrai, vincerà le elezioni e non ce lo toglieremo più di torno. Sarà come Mussolini».

Berlusconi iscrisse nello stesso libro paga i fascisti del Movimento Sociale, i socialisti filocraxiani, una parte dei democristiani, i socialdemocratici, i repubblicani, i liberali. Un capolavoro ributtante di sincretismo politico. L’unico paese al mondo ad avere i socialisti alleati con i fascisti! Ancora non riesco rassegnarmi. Una pastoia immangiabile di stipendiati, tutti uniti nel partito-azienda.

Iniziò la lunga, profonda notte italiana.

(Continua)

Il fattore K questo sconosciuto (Parte prima)

Dare tempo al tempo: un grande proverbio. Significa che occorre sapere attendere, poco o tanto. Attendere perché le cose si sistemino, perché prendano la strada giusta. Oppure affinché si possa capire appieno il senso di quello che abbiamo innanzi, magari per trovare conferme di certe congetture.

Dopo svariati anni – nelle ultime settimane – ho capito che il Partito Democratico non è mai stato un vero partito ma poco più di un accordo elettorale per vincere Berlusconi. O meglio, questa idea mi era balenata più volte senza diventare un pensiero certo. Tramontato, come tutti speriamo, l’astro dell’ex Cavaliere, il PD sta sfaldandosi dapprima lentamente poi, nelle ultime settimane, con una netta impennata.
E’ in agguato il ritorno di una vecchia geografia politica, ben conosciuta durante la cosiddetta Prima Repubblica, con una sinistra divisa in almeno tre, quattro partiti di peso differente e caratterizzate da un caleidoscopio di sfumature ideologiche. Su questa carta geografica, il PCI, il Partito Comunista Italiano, occupava lo spazio maggiore, nell’ambito della sinistra, poi seguiva il PSI, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il Partito Social Democratico Italiano. Si aggiungeva, nell’arco parlamentare, un’area massimalista, si diceva di estrema sinistra, rappresentata, a seconda delle legislature, dal Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP), dal Partito di Unità Proletaria (PdUP), da Democrazia Proletaria (DP), fino alla Rifondazione Comunista (RC).

Io iniziai a interessarmi alla politica durante il terzo anno di Liceo, anno scolastico 1972-1973. Mi iscrissi alla FGCI, la Federazione dei Giovani Comunisti Italiani, ma non ero un integralista forse perché avevo un fondo snob che mi salvava. Il Centralismo Democratico non mi andava giù, e capitava che mi trovassi d’accordo con Lotta Continua.

Alla fine degli anni ’70, il giornalista Alberto Ronchey attribuì al Fattore K lo stantio della politica italiana, l’incapacità di rinnovarsi.

K sta per Kommunizm.

Il problema italiano era, quindi, costituito dal PCI.

Con il Fattore K, Ronchey spiegava la mancanza di reali avvicendamenti politici con la conseguenza che si potevano avere solamente governi a prevalenza democristiana. L’Italia, in quegli anni, aveva una strana anomalia rispetto agli altri paesi: circolavano troppi comunisti. I comunisti costituivano, infatti, il secondo partito, più dei socialisti e dei socialdemocratici messi insieme. Il PCI, troppo vicino all’Unione Sovietica ancora in pieno vigore, non avrebbe mai potuto partecipare ad alcun governo del Paese. Il Fattore K, maledizione o nemesi?

Il Fattore K incominciò a diventare una questione seria allorché la Democrazia Cristiana perse la sua forza elettorale e il Partito Comunista guadagnò terreno. Che fare? Si progettarono nuove geometrie, le convergenze parallele, e nuove convivenze, il compromesso storico. Ed anche la «non sfiducia».

Gli apparatchiki della Botteghe Oscure probabilmente pensarono che tutti i vecchi compagni da Festa dell’Unità esultassero in coro, uniti e compatti come in un congresso del PCUS, per la frantumazione degli ideali di una vita. E, probabilmente, pensarono che le vecchie sezioni del PCI si trovassero, davanti ai loro zerbini, lunghe code di giovani, i figli del ’77, per richiedere la tessera.

(Continua)

You cannot copy content of this page