Tre millantatori all’Opera – Gnocco fritto e vecchi merletti

«Dov’è andato mai a rifinire? E pure era qui…non so, non so micca. Quando si cerca, la roba non salta mai fuori!»

Mantovani borbottava stizzito mentre scartabellava con affanno in una pila di spartiti messa sul pianoforte.

Rimestando le arie da opera, ribaltava le bamboline come se fossero birilli e, a mano a mano, rimetteva in piedi le sue ‘bambine’ nella loro immutabile posizione come i pezzi sulla scacchiera, con affettuosa acribia maniacale.

Trovato il foglio di musica in mezzo ad un altro, potei infine cantare La Fleur que tu m’avais jetée dalla Carmen di Georges Bizet, una delle più belle romanze per tenore. Scelsi quest’aria senza un motivo particolare, non perché avessi pensato di figurare meglio. Forse per l’amore sconfinato che ho per quest’opera. La metterei tra i sei capolavori da salvare in previsione del Diluvio Universale.

Non essendo pianista, Mantovani con l’indice destro faceva il tastino, cioè suonava la melodia che stavo cantando per controllare l’intonazione, mentre con l’indice sinistro mi dirigeva, dandomi gli attacchi, il legato e l’espressione.

Tutto questo inutilmente.

Seguivo me stesso.

Terminai la romanza e Mantovani si rivolse a Rufo:

«Sì…C’è da lavorare un po’, ma il materiale vocale non manca…» confermò, sembrando riferirsi a un discorso iniziato con Rufo prima del mio arrivo. E quindi mi guardò in faccia:

«Mi raccomando, quando canti fa’ attenzione…ci vogliono le ‘erre’. Specialmente all’inizio ed alla fine delle delle parole devono suonare per bene. Quarantamila ‘erre’…la ‘erre’ mette avanti il suono».

Intendeva che nel canto la ‘erre’ deve uscire sempre ben arrotata essendo una consonante che induce ad emettere la voce correttamente. Arrotando la ‘erre’, il suono apparirà più presente e meglio proiettato verso chi ascolta, sarà particolarmente grato all’orecchio e, talora, anche più espressivo. Nelle parole tronche la ‘erre’ deve prolungare il suono come un’eco mentre le ‘erre’ poste all’inizio anticipano il suono cantato sulla vocale. Tutti i grandi cantanti seguono questa regola.

Le mie ‘erre’, invece, stanno ben rintanate in un mondo astruso, fantastico, insieme all’ippogrifo, la manticora e il liocorno: insomma, non riesco a pronunciare questa consonante nemmeno se qualcuno mi pagasse profumatamente. Sono completamente bleso. La mia povera lingua non riesce a vibrare contro i denti, rimanendo ferma, inerte, rigida come un insipido pezzo di bollito senza salsa verde. Sostituisco questa bellissima consonante con una sorta di masticazione del vuoto. Il risultato? Un suono liquido, sfuggente. Sordo.

Quali difficoltà incontro nel pronunciare, per esempio, ‘carro armato’!

Nè il francese giova ai blesi totali come me.

E nei versi della Romanza del fiore appena cantati, messi in bocca a Don José da Henri Meilhac e Ludovic Halévy, le ‘erre’ abbondano!

A ben pensare, ora mi rendo conto quale retrogusto da profetico sillogismo avessero le parole di Mantovani. Esprimevano che avrei dovuto raggiungere una meta per me irraggiungibile, possedendo un difetto di pronunzia senza cura. Non sarei mai potuto diventare, insomma, un buon cantante.

A parte le ‘erre’, eseguii dunque l’Aria del fiore senza troppi traballoni. Voglio dire: né meglio né peggio del solito. Tullio avrebbe senz’altro espresso, con tono fermo, ben altro parere, cioè che ero stato inascoltabile.

Mantovani non delineò, invece, alcuna catastrofe. Se, da un lato, non mostrò entusiasmo per l’esecuzione della romanza, dall’altro, nemmeno la disapprovò apertamente. La mia voce forse non lo aveva colpito, forse non gli aveva suscitato tante sorprese essendo stata preceduta dall’accurata presentazione e dalle premurose raccomandazioni di Rufo affinché Mantovani mi prendesse a lezione. Mi aveva considerato suo allievo di canto prima di ascoltarmi, prima che suonassi alla porta? Fu un’audizione pro forma?

Gli domandai quale fosse il suo compenso. Cinquemila lire a lezione. Una richiesta modesta, ragionevole. Adeguata all’aleatorietà che caratterizza la buona riuscita nell’apprendimento del canto. Pur ancora studente, era una spesa che potevo permettermi. Mantovani, allora, prese l’agenda e concordammo il giorno della prima lezione.

Dalla cucina s’udì un’agitata voce femminile, dal timbro altisonante di una semidivinità della tragedia greca. Esibiva un forte accento modenese e questo ne ridimensionava il carattere di personaggio tragico:

«Florianooo, dove vai? Mi fai la puntura prima d’andare a cena?»

Mantovani si imbarazzò per questa intrusione indesiderata e rispose per traverso, sbuffando:

«Mamma, sono le sei e quaranta, dove vuoi che vadi?». Quando gli capitava di parlar forte, Mantovani impostava la voce come se dovesse cantare.

Si rivolse a noi con lieve imbarazzo spiegando quello che già avevamo capito:

«È Donna Fernanda, la mammetta. Devo farci un’iniezione…aspettate un momento».

E continuò pacatamente:

«Mamma, vieni qua che ti presento il mio nuovo allievo»

«C’hai un nuovo pirolino a lezione, Floriano? Non me lo avevi micca detto», osservò la mammetta invisibile, al di là della porta.

E lui, con poca pazienza:

«Ma che ragionate fai, mamma! Come potevo dirtelo se Rufo me lo ha presentato solo poco fa!»

«Aaaaah…Floriano, l’ha portato il scior Rufo?»

«Sì mamma, vieni che te lo presento…è un letterato!», alzando gli occhi al cielo.

Alla fine di questo dialogo a distanza, ci venne incontro Donna Fernanda ciabattando lentamente. Teneva una mano sulla schiena e l’altra contro il muro per non sbandare poiché soffriva di vertigini. Salvo il colore e l’acconciatura delle parrucche, madre e figlio sembravano due pere raccolte dallo stesso albero, solo che una era più matura dell’altra.

Il volto di Donna Fernanda luccicava per la Leocrema, liscio come quello di un bambolotto in celluloide. Non aveva una ruga. Le sopracciglia venivano suggerite da una linea sbiadita di matita marrone, mentre gli occhi erano fissi, capaci di due sole espressioni: spalancati o chiusi. Vegliare o dormire.

«Aaaaah? Ma Floriano, hai fatto gli onori di casa? Ci hai offerto un bicchiere di qualcosa a questi tuoi pirolini

«No grazie, signora Fernanda, è tardi, ora dobbiamo andare», rispose Rufo anche per me, mal frenando il riso.

«Floriano di’ bene che non faccino mica dei complimenti…avete sete, gradite un bicchier d’acqua, un vermutino, un cinzanino? Sa, sior Rufo, che l’acqua da sola a me mi fa male? Mi si blocca nello stomaco. Vero Floriano? Per digerirla devo sporcarla con un mezzo dito di vino rosso!».

Donna Fernanda e il figliolo cantante avevano strani stomaci e strane consuetudini alimentari. Seguivano un regime pernicioso per la maggior parte degli esseri umani. Si vantavano di preparare, ad esempio, un eccellente gnocco fritto, come dicevano essendo modenesi. Anzi il gnocchino.

Una pasta simile a quella del pane, fritta, che accompagna delle belle fette, sottili per esaltarne il profumo, di prosciutto, mortadella, salame, coppa, pancetta, formaggi molli e stagionati. Si mangia tutto con le mani. In allegria. Guai mai le posate!

Il nome bolognese di questa deliziosa pietanza è, invece, ‘crescentine fritte’.

Intorno alla declinazione dello gnocco fritto strologata da Mantovani e dalla sua mammetta si sarebbe potuto perfino girare un film dal titolo ‘Gnocco fritto e vecchi merletti’. Quasi una pozione velenosa, era una roba da mangiare degna di Mitridate, esiziale per i dispeptici e soggetti fegatosi, soprattutto perché, secondo l’uso in casa Mantovani, costituiva il nucleo della cena.

Il gnocchino ovvero le crescentine, dischi di pasta di pane setosa, grandi come un piattino da dessert e distese con il matterello, erano fatte con poco, acqua, farina, un po’ di latte e olio, lievito, un nulla di sale. I due irrobustivano vivacemente l’impasto con qualche cucchiata di strutto. La cottura, fritte in altro abbondante strutto, avveniva in una padella di ferro pulita solamente con la carta gialla. Pareva un oggetto pervenuto da generazioni remote, forse appartenuta a qualche alchimista modenese, tant’ era annerita.

Cotte le crescentine, dorate, apparentemente alleggerite da bolle e rigonfiamenti, i Mantovani passavano a preparare un esiziale e indigeribile companatico. L’ampia varietà di salumi e formaggi delle terre emiliane non soddisfacevano per intero i rustici gusti dei due.

Occorrevano delle uova strapazzate nello strutto avanzato dalla frittura degli gnocchini.

Ma anche questo non pareva sufficiente per placare l’appetito dei due moloch modenesi.

Nella padella di ferro veniva rosolato, con un mezzo dito di strutto, del lardo a striscette sottili. Con questo lordo liquido grasso, vischioso, abbrunato, finale trasmutazione di nobili elementi, veniva condita una terrina di radicchi verdi. Inoffensivi doni della natura, diventavano indigeribili macchine da guerra contro i succhi gastrici.

Affrontare una cena a base di gnocco fritto in casa dei Mantovani, innaffiata abbondantemente con lambrusco, costituiva una vera sfida all’apparato digerente e al buon sonno notturno. Chi arrivava vittorioso alla mattina successiva senza ausilio di canarini e turbe notturne, dava prova di incontestabile efficienza fisica.

Avvenne però che, molti anni prima dei fatti qui narrati, quando né la mammetta né Floriano ancora si abbellivano con parrucche e toupet, entrambi ebbero una severa infiammazione alle mucose della bocca. La lingua si era talmente gonfiata e coperta di tagli e afte che riuscivano a parlare malamente.

Non ci volle una grande anamnesi per trovare il bandolo del mistero: i due confessarono al medico incredulo d’aver cenato per un mese intero, ogni sera, con il gnocchino fritto nella loro mitridatica versione!

Come il volto della signora Fernanda durante il giorno era immutabile anche la voce non pareva da meno: il tono grave, monocorde e olimpico trovava nelle pause tra una frase e l’altra le uniche variazioni d’espressione. Alla fine dava l’impressione di rivolgersi ad un robot parlante con la parrucca bionda.

Donna Fernanda diede un saggio consiglio mentre il solerte tenore l’accompagnava in cucina a braccetto:

«Eeeeeh, sior Rufo sentisse quanti cric crac mi fanno le ossa…Non diventi micca mai vecchio. Sa?».

Come dare torto a Donna Fernanda ?

Io e Rufo avevamo le lacrime agli occhi. Stavamo reprimendo troppe risate.

E Mantovani, ritornato dalla cucina, si rivolse a me:

«Secondo te, quanti anni c’ha la mia mammetta

Solo gli sprovveduti fanno domande sull’età, partendo sempre dalla convinzione che gli anni siano portati egregiamente.

In questi casi, prudentemente, è sempre meglio esprimerne un numero assai minore rispetto a quanto par di vedere.

«Mah…penso che ne abbia un’ottantina!», risposi pensando di stare scarso.

E Mantovani fece un’espressione compiaciuta:

«Ne ha ottantuno! Li porta bene! Vero?», rispose lui con gli occhi pieni d’amore.

«Sì, sì, molto bene», annuimmo io e Rufo all’unisono.

In preda alle convulsioni, scendemmo le scale di corsa per ridere liberamente in strada, senza essere visti dal nostro maestro.

Tre millantatori all’Opera – Lezioni di canto (Parte prima)

Il tempo mi ha elargito obiettività e distacco.

Feci bene ad abbandonare il canto dopo qualche mese di lezione con il tenore Floriano Mantovani. Vedreste di buon occhio un matrimonio celebrato nel pieno di una cotta o dopo la prima notte d’amore?

E poiché alla fine dell’amore c’è sempre sofferenza, il miglior rimedio, per non patire troppe pene, pare fuggire dall’amore.

Così feci io.

Il tempo mi ha forse lasciato rimpianti o nostalgie?

Nulla, né gli uni né le altre.

Tra l’invaghimento per l’opera lirica e cantarla non vi era alcun nesso necessario.

Caro lettore, smisi di cantare perché non mi sentivo e non ero portato per quest’arte effimera. Smisi, però, anche di scantarellare, come si conviene allorché i lievi giochi giovanili lasciano spazio all’ingombro dei giorni maturi.

Mi è rimasto il piacere per la musica, sempre grande amica.

Per qualche settimana, quindi, ogni pomeriggio del sabato, secondo i patti pasquali, Rufo mi spiegò i rudimenti del canto. Quante idee sbagliate avevo in testa sulla tecnica vocale! E tutte apprese proprio con la lettura delle recensioni discografiche e dei libri pubblicati da Rodolfo Celletti. Passaggio di registro, respirazione diaframmatico-costale, suoni avanti, suoni indietro, colpi di glottide, suoni poitrinè, suoni in maschera. Con questi tecnicismi, Celletti ci privò del piacere dell’ascolto. Ci tolse lo stupore del teatro.

Leggevo e ascoltavo. E tentavo di collegare le mute parole sibilline scelte sulla carta ai suoni delle voci ascoltate dai dischi per distinguere il giusto dallo sbagliato, il bravo cantante dallo scalzacane. Per un tipo intraprendente com’ero io, questo poco diventava tanto e pareva bastare per saperne di canto.

Durante le lezioni, Rufo con ferma simpatia mi faceva ripetere i vocalizzo finché i suoni non presentavano la parvenza di un qualche miglioramento.

Mi diceva frequentemente:

«Sì, è meglio ma ora rifacciamo».

Il suono era effettivamente migliorato? Oppure Rufo, con gentilezza, intendeva che avevo emesso un suono uguale al precedente? Che continuavo a sbagliare?

E ripetevo, e ripetevo.

Scale, arpeggi, lenti e veloci, suoni presi piano e rinforzati.

Poi dei vocalizzi sillabici e melismatici:

Mi-e vo-ci mi-o di-i-i-i-ooo .

Ed ancora:

Vièni all’a-a-a-al-baaa.

Quale fu il primo pezzo da studente di canto?

Le mie velleità di tenore lirico spinto e drammatiche furono energicamente bacchettate.

Niente Aida, Forza del destino, Carmen, Otello.

Macché. Mai e poi mai.

Occorreva scrollare di dosso il passato per nascere a nuova vita. E il nuovo doveva essere rappresentato da qualcosa di materiale. Acquistai, così, il Metodo pratico di canto italiano dell’illustre Nicola Vaccaj.

La mia prima aria durante le lezioni con Rufo fu il N.1 del Metodo, un’alternanza di versi senari e quinari, quasi una sciarada presa dalla Pagina della Sfinge

Manca sollecita

Più dell’usato,

Ancorché s’agiti

Con lieve fiato,

Face che palpita

Presso a morir.

E invece Vaccaj prese in prestito quest’arzigogolo non da Bartezzaghi ma da un celebre libretto metastasiano, il Demetrio.

Manca sollecita mi pareva un’arietta insignificante come le prime esercitazioni di tutte le arti e discipline. Era fatta di semplici scale per mettere a fuoco il suono della voce e la cura del legato. I mattoni del canto.

Passare dallo scantarellare le mie operone allo studio del Vaccaj era una retrocessione mica da poco, come giocare dapprima nella serie A per approdare agli allenamenti in qualche squadretta di calcio parrocchiale.

Il N.2 del Vaccaj, un poco più vivace di Manca sollecita , riguardava gli intervalli di terza. Sempre estirpato dal medesimo celebre libretto di Metastasio, io lo avrei intitolato “Dalla padella alla brace”:

Semplicetta tortorella

Che non vede il suo periglio

Per fugir dal crudo artiglio

Vola in grembo al cacciator

Non andai oltre queste due arie del Vaccaj perché Rufo ritenne che fosse venuto il tempo di fare l’audizione con il suo maestro. O forse aveva perso la pazienza e l’interesse perché non riusciva a cavare un ragno da un buco?

Mi misi d’accordo con Rufo per andare da Mantovani al termine di una sua lezione di canto. «Sembra una pera con un parrucchino in cima», mi dissi vedendo il maestro di canto. Rufo era venuto ad aprirmi la porta e l’altro gli stava dietro.

Gli occhietti azzurri del maestro avevano uno sguardo placido, sornione, accentuato dalle palpebre pesanti. Si risvegliavano brillanti e puntuti per battute di spirito, meglio se salaci ma senza manifeste volgarità. Era un uomo di una volta con indosso vesti provinciali innocentemente ipocrite.

Nell’animo di Floriano Mantovani albergavano solo cose semplici.

E con semplicità se ne andò qualche anno dopo.

Il medico gli prescrisse una cura radiante come unica strada per arrestare un male incurabile che colpisce il solo genere maschile. A lui la diagnosi non venne rappresentata nella sua reale severità perché troppo ansioso, troppo attaccato alla sua semplice vita. Se avesse conosciuto la verità, la tempesta di disperazione gli avrebbe nuociuto prima del tumore. Una bugia terapeutica a cui Mantovani credette.

Sopportò la cura con fatica e non sospettò mai che il proprio male fosse qualcosa d’altro.

La corsa di Floriano Mantovani aveva rallentato ma non cambiò meta.

Io e Rufo andammo a trovarlo in ospedale qualche giorno prima della fine.

Era solo.

Dormiva in un letto d’alluminio protetto dalle sponde come un bambino, coperto alla meno peggio con lenzuolo in disordine e gualcito. Indossava un solo camiciotto, non aveva nemmeno il suo parrucchino. A che serviva ormai?

Sul comodino, un bicchiere di plastica bianca con un dito di tè sul fondo e una cannuccia. Per morire non occorrono molte robe.

Dischiuse appena gli occhi, la morfina gli rendeva le palpebre pesanti come dei macigni, sembrava che la luce fosse una dolorosa intrusione.

Disse una sola frase con un filo di voce rauca senza espressione:

«Ragazzi, com’è difficile morire». E riprese il suo sonno drogato.

Solitamente io giungo agli appuntamenti con un po’ di anticipo. E questo accadde anche il giorno in cui conobbi Floriano Mantovani, il mio unico insegnante di canto. Cosicché potei ascoltare Rufo nel finale di Quando le sere al placido e, soprattutto, i consigli del maestro. Questa romanza dalla Luisa Miller di Giuseppe Verdi costituiva il suo cavallo di battaglia, perciò sapeva bene ciò che voleva e come ottenerlo.

In suono angelico,

“T’amo” dicea.

Ah! mi tradia! Ahimè!

Mantovani faceva gli appunti a Rufo con toni sopra le righe, come se stesse recitando, o innaturali, come se volesse far bella figura sapendo di essere osservato da un estraneo. Contemporaneamente mi osservava dal pianoforte con la coda dell’occhio. Anzi, mi sentivo uno sguardo aggiuntivo addosso provenire dalla nuca di Mantovani, perforando lo spesso parrucchino.

Il maestro di canto sedeva davanti al pianoforte verticale, ricoperto da una folla di colorate bamboline da souvenir, pronte a cadere per le vibrazioni degli accordi. Sembravano colpite dagli spari nel tiro a segno di un luna park. E le rimetteva in piedi con scrupolo, interrompendo la lezione.

«Attenzione! Devi arrotondire dalla ‘A’»

E Mantovani cantò a mo’ d’esempio:

«O-o-imo-òoo…O-o-imo-òoo. Avanti. Prova. Arrotondisci».

Rufo capì immediatamente e corresse il colore delle vocali nel finale della romanza, però, a questo punto, il maestro si girò sullo sgabello del pianoforte verso di me.

«Dal fa diesis in poi», e fece una pausa suonando coll’indice la nota, «il tenore deve sempre arrotondire altrimenti il suono in alto si spacca».

Fece un cenno a Rufo affinché ripetesse la chiusa della romanza verdiana.

«Ecco, non devi dire ‘A’ ed ‘E’ siccome parli. Quando sali verso gli acuti è come che tu fasti delle ‘O’ al posto delle ‘A’ e delle ‘E’. M’hai compreso?».

«Più o meno…Ma sa, tra il dire e il fare…», risposi divertito per la serie di strafalcioni che brillavano come perle. Lo guardavo reprimendo il riso. Mantovani era un tipo pittoresco, un personaggio perfetto per il teatro dei burattini.

«Tu vuoi cantare, vero?» mi domandò Mantovani.

«Non so, sì, forse…Mi piace molto l’opera e canto a casa per divertirmi», risposi.

«Che cosa fai? Studi?»

«Sì, studio fisica. Mi manca poco per finire. Ora sto preparando la tesi di laurea».

«Diventerai un dottore della mutua?», domandò il maestro con un sorriso disorientato. Evidentemente non sapeva cosa fosse la Fisica.

Tentai l’ardua impresa di spiegare per sommi capi a Mantovani, persona dagli orizzonti saldi ma semplici, che cos’è la Fisica.

«Allora, visto che te sei un letterato, uno di questi giorni mi spiegherai perché le pietre sono così».

Le mie quattro parole gli fecero capire, almeno, che non sarei diventato medico e che la Fisica mira al fondo delle cose.

E continuò:

«Ho finito di torchiare il tuo amico. Ora sta a te. Alzati e fammi sentire la tua voce. Sei bravo a cantare?»

«Non so. Mi deve giudicare lei», risposi.

(Continua)

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