Il Tempo e le Anime (A mio padre e mia madre) – Parte dodicesima

Gli accadimenti sfavorevoli, la malattia nervosa del padre, il ricovero della madre e la morte di Giuseppe, il ragazzo di cui s’era innamorata, avevano cambiato Bruna. Avvertiva che quella vita com’era diventata non le apparteneva. E  non aveva neppure diciannove anni. Voleva ritornare alla sua leggerezza, quella di quando, scesa dal treno, al ritorno dalla fabbrica, Caterina avvertiva provenire dalla stazione, che distava duecento metri, il vociare e le spensierate risate di Bruna, luminose, squillanti, che volavano per l’aria, diventando il segnale che era giunto il momento di mettere sul fuoco l’acqua per la cottura della pasta.
Pur continuamente circondata da un nuvolo di filarini, ed era la più bella del paese, non aveva alcun moroso. Caterina, immaginando le malignità paesane, le faceva delle interminabili paternali, che Bruna non ascoltava: lei era libera dai giudizi della gente e si ribellava a ogni limitazione. Di fronte alle chiacchiere, tirava dritto per la propria strada perché riteneva di non fare alcunché di male. Una sera d’estate, dietro a una persiana, Bruna restò a spiare un codazzo di otto spasimanti a cui aveva dato appuntamento alla stessa ora, con la complicità della sorella Maria e della cugina Paola, davanti al passaggio che conduceva in fiume. Più male parole e urla giungevano dalla strada, quegli otto stettero per mettersi le mani addosso, e più Bruna rideva di loro insieme alle due che le avevano tenuto bordone. Svanirono, in questo modo, un ben di dio di pretendenti che ogni altra madre avrebbe desiderato per la figlia da accasare. Scuotendo il capo, Caterina le diceva:
«Così non ti sposerai mai… Li farai scappare tutti. Sei troppo selvatica.» Terminava con una premonizione puntando l’indice:
«Ma avverrà, prima o poi, che qualcuno ti domerà!»
I polmoni di Caterina si ammalarono e sua dimora diventò il sanatorio Pizzardi sulla bella collina ventosa tra Bologna e San Lazzaro di Savena: la miseria sulla montagna, gli stenti durante guerra e le ristrettezze prolungate dopo di essa, indebolirono la donna nonostante che fosse una robusta quercia montanara. Prima di partire Bruna ebbe le consegne dalla madre per la conduzione della casa, da eseguire con precisione.
La ragazza prese a viaggiare da sola per recarsi a visitare la madre, così si rese conto della distanza tra la sua vita in un paese di montagna e quella delle eleganti vie nel centro della città. A Bruna sarebbe piaciuto vestire sempre bene, seguendo la moda ma l’abitare tra le montagne e l’avere poco denaro deprimevano ogni possibilità di non apparire come una che veniva giù con la piena, come dicevano i cittadini.
La ragazza non si perdeva d’animo. Si recava da una vicina di casa, la Gelsomina, che aveva un negozio di indumenti usati, la Strazzamérica. Bruna metteva sottosopra gli scatoloni, si provava gli abiti specchiandosi davanti al vetro dell’entrata, immaginando le cuciture necessarie, riprese, orli, asole, perché diventassero come quelli indossati dalle ragazze di Bolero Film o di Sogno. Correva quindi dalla zia sarta per aggiustarli. E Bruna aveva gusto nell’abbinare i colori, nello scegliere le fogge; indossava quella roba da poche lire con portamento signorile, ritta come un fuso, e con il passo franco di una modella.
Un sabato sera Bruna si recò al cinema. Al termine dello spettacolo, alzandosi per andare verso l’uscita con la cugina Paola e la sorella, Bruna attirò l’attenzione di alcuni uomini vicino a loro, che dissero a voce alta:
«C’è la Ferrero!»
«Guardate la Bruna, la figlia di Aristide! »
«Sì, sembra proprio Anna Maria Ferrero!»
E allora la cugina:
«Parlano di te, sai?»
«Ma va là», facendo spallucce.
Una donna si avvicinò e la prese per il braccio:
«Ma come sei bella oggi! Sai che oggi assomigli a un’attrice?»
Arrivata a casa, vide allo specchio che quella gente aveva detto il giusto.
Sulla scia di questa somiglianza cinematografica, Bruna decise di farsi fotografare in pose da attrice. Terminati i lavori di casa, si rassettava, si ravviava i capelli, dipingeva le gote e le belle labbra turgide. Con un fazzoletto di seta per coprire gli abiti casalinghi, correva dal ritrattista del paese per giocare davanti all’obiettivo del fotografo.
A Bruna, in quei momenti, pareva d’udire il fruscio di un bell’abito da sera, la stola di visone sulle spalle e il contatto sulla pelle di una parure preziosa. E sognava di tenere tra le braccia un mazzo di rose rosse profumate con Arpège che lanciava a folle di ammiratori adoranti. Voleva scrollarsi di dosso la miseria.

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte undicesima

Aristide si era arruolato nei Carabinieri prima del secondo conflitto per un salario sicuro e stare lontano dalla ruvida Caterina. E fu risucchiato dalla Guerra del Duce. Le notizie di lui diventarono via via più rade fino ad annullarsi che quasi lo dimenticarono perché dovevano pensare alla loro povertà. La Guerra era terminata da due anni quando, inaspettatamente, la famiglia si ricompose allorché il disperso Aristide comparve alla porta. Indossava una camicia bianca impolverata e pantaloni in cui vi ballava per la magrezza; quel poco altro con sé stava in una valigetta. Non era più Carabiniere perché, provato dalla guerra e dalle difficoltà, era caduto in un severo esaurimento nervoso: questo mitigò la contentezza della moglie per il ritorno di Aristide perché ora l’uomo non aveva più una paga da portare a casa.
Dalla montagna la famiglia di Bruna scese a fondovalle. Sette persone abitavano in una casa a piano terreno costruita dagli americani, fatta con mattoni e sassi di fiume e dipinta con il colore dei ciclamini, nei pressi del fiume e della ferrovia circondata da un orto con una stia, sul retro, per il ricovero di qualche animale da cortile. Avevano tre camere da letto, una sala per desinare, una piccola cucina dove troneggiava un bella cucina economica, unica fonte di calore durante l’inverno, che bruciava zocchi di legno. Il bagno in casa aveva una vasca di pietra fredda come ghiaccio e, accanto, il vater. L’acqua in casa faceva sentire di avere tutte le comodità, i montanari si sentivano come i cittadini. E Bruna dovette andare a lavorare in fabbrica per avere uno stipendio che veniva amministrato dall’oculata madre.
Con il disagio psicologico Aristide divenne particolarmente taciturno: contemplava il vuoto con lo sguardo stralunato e piangeva per nulla.
«E smettila con quella lagna!» gli diceva la moglie irritata, con scarsa comprensione.
Trovò lavoro come muratore ma, tanto era prostrato, dovette abbandonarlo. Aristide divenne un costo che la modesta famiglia non poteva permettersi, e per Caterina avere marito incominciò a parere perfino un lusso.
Un mugolio sordo, Uuuuuuuu, preannunciavano le lacrime sul volto dell’uomo, e Caterina sbottava:
«Sei proprio un buono a nulla! Ti compatisco.» Aristide, umiliato, rispondeva con stizza:
«E tu va’ mo a fare delle pippe
I montanari non sapevano nulla della psiche e dei malesseri dell’animo che venivano spiegati come manifestazioni del Demonio oppure con il malocchio da gente invidiosa e perfino dai parenti. Tutto finiva tra novene e benedizioni, panacee per tutto. Oppure c’erano i guaritori.
«Ci sarà il diavolo in questa casa o c’avranno fatto una stregoneria», disse Caterina alla suocera.
Le due donne decisero, allora, di raddrizzare Aristide chiedendo aiuto al prete parrocchia. Don Giorgio avrebbe potuto aiutarle solo se Aristide si fosse confessato e si fosse sottoposto all’esorcismo di San Benedetto, ma era cosa impossibile, perché l’uomo era un comunista mangiapreti. Il prete decise di non congedare le donne con le mani vuote prospettando una via senza certezza di esito: ovvero l’esorcismo poteva essere tentato in sua vece dalla madre Margherita, donna profondamente credente, che nascose una medaglia donata da Don Giorgio con la Croce del Santo dentro il materasso di Aristide, aspergendo il letto con acqua benedetta per scacciare il Maligno.
La preghiera non ebbe effetto anzi, di giorno in giorno, la prostrazione di Aristide diventò sempre più intensa.
«Uuuuuu… Se morissi… Che cosa sto a fare al mondo… Voglio morire… Uuuuuu…» con voce flebile, piangendo.
Caterina allora perse il controllo e, riversandogli la consueta tirata di male parole, gli menò uno schiaffo.
Le lacrime dell’uomo afflitto svaporarono in un istante e scappò di casa per fuggire chissà dove, sacramentando a voce alta.
Bruna corse fuori per calmare e portare in casa il padre, inseguita a sua volta dai fratelli e tutt’insieme convinsero il padre a ritornare. La rabbia svanì e di nuovo gli colarono lacrime davanti alla madre e alla moglie; inginocchiandosi, chiese loro perdono. E abbracciò tutti. E tutti piansero.
Caterina non si diede per vinta perché non poteva più vedere il marito in quello stato.
Verso la città, a una decina di chilometri, abitava una vecchina di nome Teofileta, che recitava orazioni per aiutare i perseguitati dalla sfortuna e dalle malattie. Caterina prese con sé Bruna e un cesto con doni di cibarie. La piccola Teofileta, un poco curva, sdentata, con un velame di baffi grigi, stette ad ascoltare i racconti di Caterina mentre a Bruna si inumidirono gli occhi. Ebbe pena per le due donne. Prese una candela principiata, poi rovistò nella cesta del cucito, contò diciotto spilli che piantò nella candela allineandoli, con un coltellino tracciò nella cera due tacche, in maniera che gli spilli fossero tre volte sei, diciotto in tutto:
«Diciotto è il numero del diavolo», spiegò Teofileta e poi legò un nastro rosso di buon auspicio alla candela trafitta.
Spiegò alle donne che, ogni giorno, recitando il rosario, avrebbero dovuto accendere la candela e consumarne una tacca fino allo spillo. Ognuno di questi, liberato dalla cera, questo avrebbe dovuto essere spezzato gettando del sale sul fuoco, sentirlo scoppiettare, pronunciando una preghiera, che Bruna trascrisse su di un foglio.
Così fecero tutto per filo e per segno, ma Aristide non ebbe alcun sollievo.
E per ultimo venne la volta del medico perché l’uomo accusò dei dolori in mezzo al petto.
Al termine una visita scrupolosa a Aristide e una serie di domande, il dottor Fini sentenziò la diagnosi:
«Aristide è ammalato di nervi. Devo mandarlo in ospedale per una visita.»
Ma che razza di malattia poteva essere quella, pensò Caterina?
«E sarà una cosa lunga» aggiunse il dottore a voce bassa dopo averla presa in disparte per spiegare il disturbo del marito.
«Ma co…come…è ammalato?» Pianse e si pentì per le sgarberie usate contro i piagnistei del marito.
Il medico condotto ricoverò Aristide al manicomio Roncati e lì rimase per più di un anno. Era il 1949. Le cure ridimensionarono lo stato generale di Aristide ma non cessarono le lacrime.

(Continua)

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