Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte seconda)

Conoscete persone che sanno essere inopportune pure se non presenti fisicamente? Purché abbiano un telefono tra le mani e il gioco è fatto.

Io ne conoscevo bene uno: Tullio.

E in questo primeggiava.

Chiamava, per lo più, mentre pranzavo o cenavo.

Questo era sempre l’inizio della telefonata:

«Disturbo?»

«Ciao…sto pranzando», rispondevo con la bocca piena, accentuando la masticazione.

Anche a me è capitato di interrompere il pasto di qualcuno con una telefonata ma, quale persona non fastidiosa e di buona creanza, immediatamente ho salutato.

Tullio no.

Poiché lui aveva già mangiato, la conversazione poteva proseguire.

E proseguiva così:

«Novitàaa?»

Ed io, secco:

«No!»

Dopodiché spesso mi trovavo così in mezzo alle obituaries liriche, cioè i necrologi di artisti lirici, che Tullio leggeva puntigliosamente dai mensili esteri, e ai sordi borborigmi del mio stomaco.

Avrei potuto dirgli: «Senti cocco, perché non ci risentiamo tra un’ora»?

Evidentemente sì, avrei potuto farlo.

Ma non l’ho mai fatto.

Passavano i minuti e la minestra si raffreddava:

«Altre novità?», continuava lui con grande cretineria.

E replicavo:

«No»

E allora Tullio rispondeva sempre così:

«Benissimo». Nuovamente con grande cretineria.

Cretineria che m’irritava.

C’avevo perfino più gusto nel telefonare alla Corinna.

Se mi fosse andato bene con lei avrei ascoltato i consueti panegirici sull’arte direttoriale di Herbert von Karajan.

Attaccava la cornetta innanzi al giradischi per dimostrarmi quanto lei intendeva dire. Parlare diventava inutile, tanto non mi avrebbe sentito.

«Senti qua…senti le curve di Karajan».

Già le curve di Karajan.

Quali curve?

«Ma come, non le senti?»

Per capire le sue sensazioni musicali dovevo andare a tentoni. Che volesse intendendere il particolare legato che il direttore ricavava dall’orchestra?

Certo, anche con la Corinna era necessario armarsi di santa pazienza.

Durante le conversazioni, dovevo ripetere più e più volte quanto le avevo detto. Non era sorda. Non sentiva perché si distraeva continuamente.

Non ascoltava.

Mentre parlava con me, avendo la televisione sempre accesa, guardava e commentava tutte le possibili trasmissioni, cartoni animati, soap opera, telefilm a puntate. Anche la pubblicità.

Il tubo catodico era logoro, poveretto, perché quella che era stata grande sostenitrice del centralismo democratico, del teatro epico di Brecht e Piscator guardava qualsiasi onda elettromagnetica che l’antenna sul tetto riusciva ad assorbire.

La conversazione telefonica, si arricchiva pure degli interventi della madre cosicché la Corinna si sdoppiava, parlando contemporaneamente con me e con la madre.

Insomma, telefonate senza capo né coda. Un teatrino dell’assurdo.

Ma la Corinna, almeno, a differenza di Tullio, rispettava gli orari santificati dei pranzi e delle cene.

In quel piovoso sabato di presentazioni Tullio, uscito di casa mia dopo il primo incontro con Rufo e Gabriele, non fece passare nemmeno una mezz’ora che mi telefonò.

Mentre stavo cenando. Ovviamente.

«Vorrei fare un poco di ‘Radio Serva’. Come ti sono parsi i ragazzi?»

«I ragazzi? Perché mai li chiama così? È per caso loro zio? Quant’è cretino», pensai.

«Beh, simpatici» dissi. «Mi pare che Rufo comandi a bacchetta il povero Gabriele». Tagliai corto perché avevo fame, visto che della colomba pasquale erano rimaste solo briciole e qualche mandorla attaccata alla carta.

Tullio riprese a farmi la consueta solfa sul tenorissimo Rufo.

E biribim e biribam e biribim.

Finalmente m’arrivò alle orecchie qualcosa che distolse l’attenzione dalla fame:

«E poi…sai…è anche pronipote di Divina Pieranti», mi fece con un leggero sussiego, come se avesse nominato chissà quale celebrità.

«E da dove viene fuori questa?», chiesi.

«Speravo che la conoscessi, piacendoti i cantanti antichi…Insomma, Rufo mi ha raccontato che la sua prozia cantava al Teatro di Montevideo. Non hai mai sentito parlare di Divina Pieranti?»

«No, sai…leggo solo sporadicamente i necrologi sui giornali di Montevideo, ahaha», e subito chiesi:

«E ‘sta Pieranti come arrivò in Uruguay?»

«Nacque a Firenze ed emigrò per una tournée alla fine dell’Ottocento con il fratello violinista al seguito di una compagnia lirica. Terminato il giro, il fratello prese il piroscafo e ritornò indietro. Era il nonno di Rufo. Divina Pieranti rimase là e diventò il primo soprano al Teatro di Montevideo»

Ero dubbioso, incredulo, pensavo che Tullio desse credito ad un’altra panzana.

«Non l’ho mai sentita nominare. Dunque Rufo è pronipote d’arte? Sei sicuro?».

«È quanto lui mi ha raccontato. Sul pianoforte ci sono tre fotografie di scena autografate», mi rispose il raffreddatore delle mie pietanze.

Mi dissi:

«Hanno lo stesso cognome, ci sono i genitori di Rufo e le fotografie… Questa storia non dovrebbe essere una millanteria».

Passò Pasqua con tanta pioggia ed umidità.

Il pranzo del Lunedì dell’Angelo si svolse in allegria.

Mangiammo abbondantemente.

Se io ero una buona forchetta, Rufo si strafogò. Bissò, per lo meno, ogni cosa, anche il prosciutto in crosta portato da Tullio, fatto con ingredienti scaduti.

Non avevo mai visto mangiare così tanto.

Dopo il caffè, facemmo qualche giro al Gioco dei Nomi, adattato alla nostra passione lirica: dovevamo scrivere i nomi dei soprani, tenori, mezzosoprani, baritoni, bassi, dei direttori d’orchestra e i titoli delle opere.

La sfida si svolse soprattutto tra me, Tullio, Rufo e Gabriele.

Cantanti noti e di minor fortuna, gregari e comprimari, opere celebri e dimenticate, grandi bacchette e battisolfa.

Gli altri amici arrancavano per riempire le colonne.

Teresa conosceva l’opera attraverso i suoi amori adolescenziali per i tenori. Corinna scriveva i nomi sulla base delle opere acquistate nel Sottopassaggio dalla signora Salizzoni, mentre Edmondo, analogamente, quel che gli sovveniva dai cataloghi dei collezionisti di nastri dal vivo. Evelina, infine, l’unico nome che scrisse senza sbirciare il foglio di Edmondo fu, ovviamente, quello di Anna Moffo.

Nessuno ebbe da dire fino a che giunse la volta dei soprani che iniziavano con la lettera «P»:

Pobbe, Price, Patti, Pagliughi, Pampanini, Ponselle, Parazzini, Pons, Panni, Pinto, Parutto, Pasta, Pacetti, Pieranti, Petrella, Pizzo, Pedrini.

«Pieranti? Non l’ho mai sentita dire», fece la Corinna, mezza stralunata, con una cantilena dodecafonica, cioè con un tono di voce differente per ciascuna sillaba.

Rufo, placido e indifferente, spiegò:

«Era mia nonna, cantava agli inizi del secolo. Ho una sua fotografia autografata in Tosca», come se avesse già risposto a quella domanda più e più volte.

«Confermo», disse Tullio con autorità notarile.

Piantammo il gioco prima di esaurire le lettere dell’alfabeto.

Per Teresa si era fatto tardi. Prese il cappotto a tre quarti dal color velenoso delle pervinche, violetto come quello della gonna, uguale a quello del foulard, del cappellino, dell’ombretto sulle palpebre. Salutò seraficamente con la mano, mandando baci a tutti.

«Ed ora che si fa?» chiese la Corinna, stravaccata sul tavolo dal gomito in su, torturandosi la frangia. Il lambrusco e lo zibibbo le ravvivano i guanciotti e gli occhi sporgevano più che mai dalle borse a fisarmonica.

Sua madre, se l’avesse vista, avrebbe cessato di esserne orgogliosa.

«Potremmo fare una scantarellata!», propose Tullio prontamente.

E la Corinna con la sua dissonante cantilena dodecatonica:

«Oh, sì sì, che bello! Cantate, cantate!»

E la ruspante Evelina, sempre seduta sulle ginocchia indifferenti di Edmondo:

«Io ora certamente non canto, sono gonfia come una pallone. Dai, Pieranti, attacca un po’ te. Oh, sta’ ben attento a non fare arie mentre canti, eh!»

Tullio prontamente intervenne:

«Sempre cara mi fu quest’Evelina. Noi non facciamo arie, ma cantiamo delle arie, hihihi…dai, canto io per primo».

Attaccò la Calunnia dal Barbiere di Siviglia.

La calunnia è un venticello

Un’auretta assai gentile

Che insensibile, sottile,

Leggermente, dolcemente,

Incomincia, incomincia a sussurrar.

Aveva dei raspini. Come sempre.

Mentre cantava, la Corinna gli offrì perfino una caramella Valda.

Terminò l’aria e, senza che qualcuno potesse dire né «a» né «ba», chiese:

«Chi è il prossimo? Gabriele, dai, fatti avanti tu».

Questi parve assai felice:

«Oggi avrei voglia di cantare Cielo e mar».

La Corinna prese a starnazzare:

«Oh, sì sì, che bello, adoro quest’aria cantata da Bergonzi…»

Ma Rufo prese in mano la situazione, deludendo le aspettative della Corinna e reprimendo le velleità di Gabriele di fare il tenore lirico spinto:

«No, Cielo e mar no».

Ci mancava che oscillasse l’indice e battesse un giornale piegato per educare quella povera creatura.

«E’ meglio Una furtiva lagrima», comandò Rufo.

Gabriele, il succube, non disse beo. Quindi cantò Una furtiva lagrima.

La Corinna lo dirigeva ad occhi chiusi. Così come von Karajan dirigeva le curve dei Berliner Philarmoniker.

«Il tuo timbro ha una lucentezza madreperlacea dai riflessi rotondi grigiazzurri…», e cantilenò altre scemenze. «Dovrai venire a cantare per mia madre. In premio ti farà le tigelle con il pesto di lardo, rosmarino e parmigiano».

Gabriele si illuminò, accennando dei piccoli inchini da maggiordomo.

I cantanti accettano qualsiasi tipo di complimento o si accontentano di qualcosa che sembri tale.

E gli era arrivato perfino un ingaggio retribuito in natura!

(Continua)

La vendetta della Meneghini. Quasi una parabola

Si sa che le tifoserie liriche sottostanno alle medesime regole di quelle ideologiche: entrambe concepiscono dispute, talvolta artificiose, contro un nemico designato.

Le blandizie verso ciò che piace sono banali. Sequenze di peana elogiativi, ovvero pensieri privi di interesse, ovvero dolciastri luoghi comuni.

La presenza di un nemico, invece, costituisce un’azione vivificatrice per l’ingegno. L’intelligenza, se c’è, dà il meglio di sé quando cerca parole acuminate.

I nemici, quindi, sono più utili degli amici perché danno un senso alla vita. Fanno stare bene.

Quindi, se non si ha un nemico è meglio crearselo.

Il nemico può essere di due generi.

Il primo è quello del nemico consapevole di essere “il nemico”. Uno attacca, l’altro si difende e viceversa. L’inimicizia tra i due contendenti è chiara e riconosciuta da entrambi. Pensiamo ad una guerra per il petrolio, ad una guerra di liberazione o per avere il dominio del mondo. Si pensi, pure, a quanto avviene in un duello per vendicare un torto subito o, situazioni più rassicuranti, alla maggior parte dei giochi che si basano sulla presenza di un nemico – da guardia e ladri fino alla canasta dove le due parti si sfidano segnando i punti sul blocchetto di carta indicando “noi” e “loro”.

Nel mondo delle tifoserie, da quelle ideologiche fino alle calcistiche – quelle che si formano da una passione – si annida un secondo tipo di nemico.

In questo caso, il nemico è inconsapevole e senza colpe, una guerra unilaterale senza combattimenti. Il nemico non sa di essere nemico perché magari è già morto. Si verifica, poi, una sorta di guerra all’inverso: chi viene individuato come nemico è, in realtà, colui che subisce le ostilità.

Ovunque ci sono nemici del secondo tipo: cattolici contro protestanti, settentrionali contro “marocchini” o “terroni”, guelfi contro ghibellini, bolognesi contro ferraresi, modenesi contro bolognesi, juventini contro interisti, bigotti di chiesa contro comunisti mangiapreti, Berlusconi contro comunisti, Renzi contro D’Alema e viceversa.

Anche nell’opera lirica ci sono i nemici del secondo tipo: wagneriani contro verdiani, callasiani contro tebaldiani, genceriani contro callasiani. E perfino genceriani contro tutti!

Proprio come in ogni tifoseria, i fans del grande soprano Leyla Gencer progettano artatamente aspre battaglie contro un nemico designato: Maria Callas.

Lo scopo di questa di disputa? Costoro sostengono che la Callas sia stata un’usurpatrice del trono spettante alla Gencer.

Quindi la fama della Callas? Pubblicità, battage giornalistico.

Il perfetto genceriano sminuirà, minimizzerà, l’arte della Greca e magnificherà quella della Turca.

Un episodio croccante su come può agire il genceriano perfetto, puro e duro, lo fornì un tal Aurelio quando, alla fine del 1977,  mi invitò a casa sua con Tullio per fare il confronto tra le registrazioni dal vivo, a quel tempo rare e preziose, dell’Anna Bolena scaligera con la Callas e Simionato con quella che la Gencer registrò nello stesso anno per la Rai, sempre con la Simionato, entrambe dirette da Gianandrea Gavazzeni.

Da fan sfegatato di Leyla Gencer – a quel tempo in chiaro declino vocale – pure Aurelio aveva il bisogno compulsivo di affermarne la superiorità rispetto a Maria Callas, che chiamava «La Meneghini».

Aurelio compariva di quando in quando nel negozio sotterraneo della signora Salizzoni. Era un flemmatico bancario sulla quarantina, tanto azzimato quanto affettato. Possedeva una sola espressione facciale indossata alla mattina insieme al doppiopetto. Muoveva solo i muscoli delle labbra a culo di gallina, lentamente. Aveva vocali strette ed esse sibilanti, un po’ per essere fine e un po’ per camuffare la cadenza meridionale.

Aurelio viveva in una bella casa nei pressi dei Giardini Margherita con la moglie segaligna che ricordava Olivia, quella di Braccio di Ferro. Arrivammo e quella ben presto si assentò per andare a trovare la madre al piano di sotto, felice che altri si cuccassero per qualche ora quella borsa del marito.

Da un armadio, una specie di arredo da sagrestia con l’interno illuminato, rivestito di un lucido damasco color porpora, quasi un tabernacolo contenente grandi calici e piatti dorati, Aurelio prelevò il nastro a bobina dell’Anna Balena con la Callas.

Ascoltammo qualche pezzo cantato dalla Greca maledetta.

«Sentite qua come oscilla La Meneghini!»

«Perché la chiami sempre Meneghini?» ridacchiò Tullio «così sembra una milanese».

«È stata un’opportunista che ha sfruttato il marito per fare carriera. Un’arrivista senza scrupoli. La sua stella è sorta grazie a Meneghini, con Onassis è tramontata, i suoi soldi le hanno strozzato la voce…», rispose Aurelio e continuò:

«Gli acuti sono striduli, stridii di un’aquila»

«E come oscilla! Avranno dovuto puntellare la sala del Piermarini», fece Aurelio tappandosi le orecchie con le mani.

Fermò il registratore e, avviandosi verso l’armadio, disse risolutamente:

«Scusate, non so voi, ma io non ne posso più degli strilli di questa strega»

E concluse:

«Che vociaccia»

Io tacqui perché avevo immediatamente capito che, di fronte a quel fanatico, dire qualcosa a favore della Callas mi avrebbe creato una situazione difficilmente risolvibile. Nemmeno avrei potuto contare su Tullio perché anche lui digeriva poco la Greca e vistosamente assentiva ad ogni minchiata anticallasiana che usciva dalla bocca del nostro ospite.

Ed Aurelio, con un sorrisino compiacente, mancava una strizzatina d’occhio, fece:

«Rifacciamoci ora la bocca, anzi, le orecchie con Leyla…roba per palati sopraffini». Manco ci avesse offerto una bevuta di Veuve Clicquot del 1893.

Con solennità di un officiante, fece per prendere la bobina ma la mano si bloccò. In meno di un batter d’occhio salì in piedi su una poltrona e cominciò a emettere degli urli strazianti e disperati, sembrava impazzito: aveva visto un ragno. Spaventatissimo, tremante, sudato, bianco come un cencio lavato.

La Callas era morta da poco e io pensai che l’apparizione del ragno non fosse stata una coincidenza. Mi immaginai un’affusolata mano greca con le unghie laccate, fragrante di Malabrah, deporre il ragno nell’armadio in quel preciso momento. E comunque, senza interventi soprannaturali, quella situazione al nostro genceriano cadeva come un abito cucito su misura.

«Ben ti sta» pensai «magari una vespa t’avesse anche punto la lingua»

Forse per solidarietà tra anticallasiani, o perché affiorò il suo animo di buon samaritano democristiano, Tullio trovò un giornale e sbloccò la penosa situazione spiaccicando l’odioso animale sul vivace damasco.

L’aracnofobico Aurelio, fino a quel momento fuori controllo, scese dalla poltrona dopo avere avuto da Tullio la rassicurazione che l’insetto era diventato poltiglia. Immediatamente dopo il nostro amico genceriano, non più in preda al terrore, rientrò nella sua inamidatura, e continuò con la triturazione della nemica Callas a favore della celestiale Gencer.

Come se nulla fosse successo.

Ammettendo taumaturgiche capacità vocali della Gencer, quella sera si ebbe la prova che esse non avevano efficacia alcuna nella cura dell’aracnofobia dei suoi fans.

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