Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte seconda)

Conoscete persone che sanno essere inopportune pure se non presenti fisicamente? Purché abbiano un telefono tra le mani e il gioco è fatto.

Io ne conoscevo bene uno: Tullio.

E in questo primeggiava.

Chiamava, per lo più, mentre pranzavo o cenavo.

Questo era sempre l’inizio della telefonata:

«Disturbo?»

«Ciao…sto pranzando», rispondevo con la bocca piena, accentuando la masticazione.

Anche a me è capitato di interrompere il pasto di qualcuno con una telefonata ma, quale persona non fastidiosa e di buona creanza, immediatamente ho salutato.

Tullio no.

Poiché lui aveva già mangiato, la conversazione poteva proseguire.

E proseguiva così:

«Novitàaa?»

Ed io, secco:

«No!»

Dopodiché spesso mi trovavo così in mezzo alle obituaries liriche, cioè i necrologi di artisti lirici, che Tullio leggeva puntigliosamente dai mensili esteri, e ai sordi borborigmi del mio stomaco.

Avrei potuto dirgli: «Senti cocco, perché non ci risentiamo tra un’ora»?

Evidentemente sì, avrei potuto farlo.

Ma non l’ho mai fatto.

Passavano i minuti e la minestra si raffreddava:

«Altre novità?», continuava lui con grande cretineria.

E replicavo:

«No»

E allora Tullio rispondeva sempre così:

«Benissimo». Nuovamente con grande cretineria.

Cretineria che m’irritava.

C’avevo perfino più gusto nel telefonare alla Corinna.

Se mi fosse andato bene con lei avrei ascoltato i consueti panegirici sull’arte direttoriale di Herbert von Karajan.

Attaccava la cornetta innanzi al giradischi per dimostrarmi quanto lei intendeva dire. Parlare diventava inutile, tanto non mi avrebbe sentito.

«Senti qua…senti le curve di Karajan».

Già le curve di Karajan.

Quali curve?

«Ma come, non le senti?»

Per capire le sue sensazioni musicali dovevo andare a tentoni. Che volesse intendendere il particolare legato che il direttore ricavava dall’orchestra?

Certo, anche con la Corinna era necessario armarsi di santa pazienza.

Durante le conversazioni, dovevo ripetere più e più volte quanto le avevo detto. Non era sorda. Non sentiva perché si distraeva continuamente.

Non ascoltava.

Mentre parlava con me, avendo la televisione sempre accesa, guardava e commentava tutte le possibili trasmissioni, cartoni animati, soap opera, telefilm a puntate. Anche la pubblicità.

Il tubo catodico era logoro, poveretto, perché quella che era stata grande sostenitrice del centralismo democratico, del teatro epico di Brecht e Piscator guardava qualsiasi onda elettromagnetica che l’antenna sul tetto riusciva ad assorbire.

La conversazione telefonica, si arricchiva pure degli interventi della madre cosicché la Corinna si sdoppiava, parlando contemporaneamente con me e con la madre.

Insomma, telefonate senza capo né coda. Un teatrino dell’assurdo.

Ma la Corinna, almeno, a differenza di Tullio, rispettava gli orari santificati dei pranzi e delle cene.

In quel piovoso sabato di presentazioni Tullio, uscito di casa mia dopo il primo incontro con Rufo e Gabriele, non fece passare nemmeno una mezz’ora che mi telefonò.

Mentre stavo cenando. Ovviamente.

«Vorrei fare un poco di ‘Radio Serva’. Come ti sono parsi i ragazzi?»

«I ragazzi? Perché mai li chiama così? È per caso loro zio? Quant’è cretino», pensai.

«Beh, simpatici» dissi. «Mi pare che Rufo comandi a bacchetta il povero Gabriele». Tagliai corto perché avevo fame, visto che della colomba pasquale erano rimaste solo briciole e qualche mandorla attaccata alla carta.

Tullio riprese a farmi la consueta solfa sul tenorissimo Rufo.

E biribim e biribam e biribim.

Finalmente m’arrivò alle orecchie qualcosa che distolse l’attenzione dalla fame:

«E poi…sai…è anche pronipote di Divina Pieranti», mi fece con un leggero sussiego, come se avesse nominato chissà quale celebrità.

«E da dove viene fuori questa?», chiesi.

«Speravo che la conoscessi, piacendoti i cantanti antichi…Insomma, Rufo mi ha raccontato che la sua prozia cantava al Teatro di Montevideo. Non hai mai sentito parlare di Divina Pieranti?»

«No, sai…leggo solo sporadicamente i necrologi sui giornali di Montevideo, ahaha», e subito chiesi:

«E ‘sta Pieranti come arrivò in Uruguay?»

«Nacque a Firenze ed emigrò per una tournée alla fine dell’Ottocento con il fratello violinista al seguito di una compagnia lirica. Terminato il giro, il fratello prese il piroscafo e ritornò indietro. Era il nonno di Rufo. Divina Pieranti rimase là e diventò il primo soprano al Teatro di Montevideo»

Ero dubbioso, incredulo, pensavo che Tullio desse credito ad un’altra panzana.

«Non l’ho mai sentita nominare. Dunque Rufo è pronipote d’arte? Sei sicuro?».

«È quanto lui mi ha raccontato. Sul pianoforte ci sono tre fotografie di scena autografate», mi rispose il raffreddatore delle mie pietanze.

Mi dissi:

«Hanno lo stesso cognome, ci sono i genitori di Rufo e le fotografie… Questa storia non dovrebbe essere una millanteria».

Passò Pasqua con tanta pioggia ed umidità.

Il pranzo del Lunedì dell’Angelo si svolse in allegria.

Mangiammo abbondantemente.

Se io ero una buona forchetta, Rufo si strafogò. Bissò, per lo meno, ogni cosa, anche il prosciutto in crosta portato da Tullio, fatto con ingredienti scaduti.

Non avevo mai visto mangiare così tanto.

Dopo il caffè, facemmo qualche giro al Gioco dei Nomi, adattato alla nostra passione lirica: dovevamo scrivere i nomi dei soprani, tenori, mezzosoprani, baritoni, bassi, dei direttori d’orchestra e i titoli delle opere.

La sfida si svolse soprattutto tra me, Tullio, Rufo e Gabriele.

Cantanti noti e di minor fortuna, gregari e comprimari, opere celebri e dimenticate, grandi bacchette e battisolfa.

Gli altri amici arrancavano per riempire le colonne.

Teresa conosceva l’opera attraverso i suoi amori adolescenziali per i tenori. Corinna scriveva i nomi sulla base delle opere acquistate nel Sottopassaggio dalla signora Salizzoni, mentre Edmondo, analogamente, quel che gli sovveniva dai cataloghi dei collezionisti di nastri dal vivo. Evelina, infine, l’unico nome che scrisse senza sbirciare il foglio di Edmondo fu, ovviamente, quello di Anna Moffo.

Nessuno ebbe da dire fino a che giunse la volta dei soprani che iniziavano con la lettera «P»:

Pobbe, Price, Patti, Pagliughi, Pampanini, Ponselle, Parazzini, Pons, Panni, Pinto, Parutto, Pasta, Pacetti, Pieranti, Petrella, Pizzo, Pedrini.

«Pieranti? Non l’ho mai sentita dire», fece la Corinna, mezza stralunata, con una cantilena dodecafonica, cioè con un tono di voce differente per ciascuna sillaba.

Rufo, placido e indifferente, spiegò:

«Era mia nonna, cantava agli inizi del secolo. Ho una sua fotografia autografata in Tosca», come se avesse già risposto a quella domanda più e più volte.

«Confermo», disse Tullio con autorità notarile.

Piantammo il gioco prima di esaurire le lettere dell’alfabeto.

Per Teresa si era fatto tardi. Prese il cappotto a tre quarti dal color velenoso delle pervinche, violetto come quello della gonna, uguale a quello del foulard, del cappellino, dell’ombretto sulle palpebre. Salutò seraficamente con la mano, mandando baci a tutti.

«Ed ora che si fa?» chiese la Corinna, stravaccata sul tavolo dal gomito in su, torturandosi la frangia. Il lambrusco e lo zibibbo le ravvivano i guanciotti e gli occhi sporgevano più che mai dalle borse a fisarmonica.

Sua madre, se l’avesse vista, avrebbe cessato di esserne orgogliosa.

«Potremmo fare una scantarellata!», propose Tullio prontamente.

E la Corinna con la sua dissonante cantilena dodecatonica:

«Oh, sì sì, che bello! Cantate, cantate!»

E la ruspante Evelina, sempre seduta sulle ginocchia indifferenti di Edmondo:

«Io ora certamente non canto, sono gonfia come una pallone. Dai, Pieranti, attacca un po’ te. Oh, sta’ ben attento a non fare arie mentre canti, eh!»

Tullio prontamente intervenne:

«Sempre cara mi fu quest’Evelina. Noi non facciamo arie, ma cantiamo delle arie, hihihi…dai, canto io per primo».

Attaccò la Calunnia dal Barbiere di Siviglia.

La calunnia è un venticello

Un’auretta assai gentile

Che insensibile, sottile,

Leggermente, dolcemente,

Incomincia, incomincia a sussurrar.

Aveva dei raspini. Come sempre.

Mentre cantava, la Corinna gli offrì perfino una caramella Valda.

Terminò l’aria e, senza che qualcuno potesse dire né «a» né «ba», chiese:

«Chi è il prossimo? Gabriele, dai, fatti avanti tu».

Questi parve assai felice:

«Oggi avrei voglia di cantare Cielo e mar».

La Corinna prese a starnazzare:

«Oh, sì sì, che bello, adoro quest’aria cantata da Bergonzi…»

Ma Rufo prese in mano la situazione, deludendo le aspettative della Corinna e reprimendo le velleità di Gabriele di fare il tenore lirico spinto:

«No, Cielo e mar no».

Ci mancava che oscillasse l’indice e battesse un giornale piegato per educare quella povera creatura.

«E’ meglio Una furtiva lagrima», comandò Rufo.

Gabriele, il succube, non disse beo. Quindi cantò Una furtiva lagrima.

La Corinna lo dirigeva ad occhi chiusi. Così come von Karajan dirigeva le curve dei Berliner Philarmoniker.

«Il tuo timbro ha una lucentezza madreperlacea dai riflessi rotondi grigiazzurri…», e cantilenò altre scemenze. «Dovrai venire a cantare per mia madre. In premio ti farà le tigelle con il pesto di lardo, rosmarino e parmigiano».

Gabriele si illuminò, accennando dei piccoli inchini da maggiordomo.

I cantanti accettano qualsiasi tipo di complimento o si accontentano di qualcosa che sembri tale.

E gli era arrivato perfino un ingaggio retribuito in natura!

(Continua)

Un altro amore per Turandot

La singolarità del negozio ”Dischi Salizzoni“ consisteva nell’avere due entrate opposte, essendo situato dove il Sottopassaggio si sdoppiava in percorsi paralleli. Per il resto era anonimo e poco attraente come tutti i negozi sotterranei.

Vendeva prevalentemente musica  leggera e rock ad una clientela di passaggio, senza troppe pretese. I cultori della musica classica non avrebbero mai trovato  opere rare o  edizioni succulente, quelle che facevano bella mostra alla Casa del disco o da Bongiovanni, negozio sormontato perfino dalle insegne del Toson d’oro e i blasoni dei reali spagnoli, al posto dell’Osteria dei Tre Re. Glorianna, la proprietaria, sopperiva allo scarso assortimento ordinando i dischi classici sistematicamente mancanti, che giungevano però senza fretta. Ai pochi giovani in cerca di musica classica, la negoziante faceva dei consistenti sconti perchè coltivassero più assiduamente la propria passione.

Piccolina e minuta, la Glorianna aveva degli occhi malinconici alla Edith Piaf. Esprimevano mitezza. Il suo animo, in effetti, si manifestava gentile e paziente con tutti, perfino con una mia compagna di classe, la Corinna Strocchi, in grado di fare perdere la pazienza anche a un santo. Io pensavo che la signora Salizzoni fosse tormentata dalla mia amica. Una vittima, insomma.

Sempre sorvegliata nello spendere il denaro e contando sugli extrasconti per gli studenti, la Corinna acquistava esclusivamente le opere nel sottopassaggio, ma ad ogni cavata di papa e, per questo, ogni compera diventava un avvenimento che subivamo tutti. I dischi dovevano essere assolutamente perfetti. Ma la perfezione non sembrava mai lambire i dischi venduti dalla signora Salizzoni alla Corinna: questa infatti, ogni volta lamentava che le opere producevano fruscii, crepitii, dei pic e dei pac. I rumori comparivano ovviamente a casa della Corinna, e scomparivano allorché la signora Glorianna ascoltava con il proprio giradischi per controllare i difetti. Era il fruscìo fantasma.

La Corinna scaricava, allora, la colpa sull’apparecchio della negoziante:

«Eeeeeh, ma lei c’ha un pick-up troppo pesante. Per forza che non sente i rumori!»

E la Salizzoni di rimando:

«Forse avrà lei una puntina vecchia. Da quanto tempo è che non la cambia? E pulisce i dischi con un panno elettrostatico?»

Con questa manfrina dei fruscii, la Corinna riuscì a farsi cambiare la Carmen diretta da von Karajan per ben tre volte senza essere mandata a ramengo.

La negoziante sudò freddo, rassegnandosi al peggio, allorchè la Corinna fu posseduta dalla passione wagneriana: con L’anello del Nibelungo la perfezione si sarebbe dovuta estendere a ben diciannove dischi! La venditrice esperta affidò la propria sorte alla nota qualità della gialla Deutsche Grammophon.

In una città di sinistra, a quei tempi ancora molto ideologizzata, la signora Glorianna si professava anticomunista. Aveva civile riserbo nell’esprimere le proprie idee controcorrente, essendo temprate dall’opportunismo del commerciante.

Capitava che facesse qualche battuta sulla giunta cittadina, ostaggio dei compagni: vedeva ovunque informatori mandati dal Palazzo Comunale e proprio tra i pensionati incontinenti del sottopassaggio, stanziati a pochi metri dalle latrine pubbliche, si annidavano le spie del signor sindaco.

La signora Glorianna mi prese a benvolere come una zia, dopotutto parevo un nipote perfetto per tutti i tipi di zie, con quella faccia da bravo ragazzo studioso che mi trovavo, sempre vestito in maniera elegante, e con la passione per la musica classica.

Nonostante che il mio cuore battesse politicamente a sinistra, non essendo un indiano metropolitano, né sostenevo gli espropri proletari con sampietrini per svuotare i negozi, la signora Glorianna aveva una considerazione molto indulgente sulle mie idee, pensando che fossi solo influenzato da professori filocomunisti.

Una volta le uscì dalla bocca qualche parola in più:

«Scommetto che lei ha un professore comunista…», disse ammiccando

«Credo di sì. Quello di filosofia penso che sia comunista. Iscritto al PCI», risposi.

«Vede? Ho ragione io allora!» e continuò:

«Passerà, passerà…Certe idee passeranno come passano morbillo e varicella quando i bambini vanno all’asilo o alle elementari. Al liceo, invece, gli adolescenti sono contagiati dalla propaganda dei professori di sinistra»

«Il suo è l’entusiasmo giovanile dello studente che legge tante cose…quando sarà più grande, e penserà con la propria testa, cambierà idea. Vedrà, vedrà!»

Giocai allora una briscoletta nascosta:

«Ah! Dimenticavo… Abbiamo un altro professore comunista… quello di religione»

La Glorianna sgranò gli occhi. E continuai:

«Deve essere addirittura un extraparlamentare. Viene a scuola con eskimo, chitarra e saccoccia».

«Quanti anni ha?», chiese lei.

«Non so. E’ giovane, si è laureato da poco in lettere. Tutte le ragazze sono innamorate di lui, dicono che è anche bello»

«E cosa ci fa con la chitarra?»

«Fa cantare pezzi religiosi arrangiati come nella messa beat, e poi Guccini, De Andrè, Dylan. Cantano soprattutto le femmine, anche la Corinna»

«E quando non cantate?»

«Ci parla di Dio, di Gesù, di Marx, di capitalismo, sfruttamento, lavoro, terzo mondo, mai di partiti politici»

E allora la Glorianna:

«Mo’ sorbole!  Sta a vedere…che dietro a questo professore prenderei una barca anch’io. La prossima volta che passa, farò il terzo grado a Corinna…», chiudendo la questione dei comunisti con divertita furbizia.

Se nei bar è possibile incontrare degli avventori che per ore stanno a far chiacchiere o guardare la gente senza bere nemmeno un caffè o un crodino, così la signora Glorianna ospitava alcune persone, sempre le stesse, con diversi gradi di stranezze, dei perditempo che non compravano mai nulla, nemmeno un quarantacinque giri di Gianni Morandi.

Tra queste c’era senz’altro la Corinna che, considerando la giovane età, dimostrava grande talento naturale per le stranezze. Ma almeno lei qualche disco, seppur saltuariamente, lo acquistava.

Conobbi uno strano – o meglio, imparai a riconoscerlo più che a conoscerlo – signore benestante sulla sessantina. Entrava dalla Glorianna, si appoggiava ad una scansia e lì rimaneva con lo sguardo fisso. Una statua grezzamente intagliata nel legno con gli occhi uguali ai bottoni del paltò. Si chiamava Amedeo Masetti, così disse la Glorianna. Un uomo assai laconico, trisillabico. Poiché nessuno ci presentò, i nostri discorsi andavano a mala pena oltre i saluti, esaurendo in fretta la sua disponibilità quotidiana di sillabe. Per questa educata maleducazione mi sentivo spesso imbarazzato e, allora, per mettere in pace la coscienza, pronunciavo un impersonale Salve rivolto a tutti e a nessuno. La grande stranezza di Amedeo Masetti era che collezionava esclusivamente i dischi del Rigoletto. Nient’altro. E’ facile immaginare che la sua raccolta si fosse completata in breve tempo.

La signora Glorianna alzava gli occhi al cielo quando, ogni giorno, entrava un appiccicoso pugliese conosciuto solo per nome, Pino. Raccontò una sola cosa della sua vita privata: possedeva un disco della Traviata con Maria Malibran! Un solo racconto e, per giunta, una balla. Scelse male il soprano. Maria Felicia Malibran, infatti, se ne andò poco prima che Verdi iniziasse a comporre opere, quasi vent’anni prima della Traviata e assai prima dell’invenzione del grammofono.

L’uomo aveva sempre al seguito un figlio nullafacente, mellifluo quanto lui, sui diciotto anni. Non sembrava un fulmine di intelligenza, forse renitente alla scuola, e forse era venuto al mondo per partenogenesi dal momento che né l’uno né l’altro parlava mai della rispettiva moglie o madre.

Anche la professione del pugliese era avvolta dal mistero. Decidemmo con la Glorianna che fosse cameriere di ristorante, indossando sempre pantaloni e mocassini neri con una camicia bianca.

Pino si manifestò furbo e intrigante con un piano preciso a favore del figlio. Tessette una tela tra cui la signora Glorianna rimase intrappolata.

Il negozio Salizzoni era condotto normalmente dalla proprietaria e, all’occorrenza, arrivava il rinforzo della sorella. Con il passare dei mesi, Pino e il figlio, senza che la Glorianna avesse mai chiesto nulla, iniziarono a servire la clientela come veri commessi. La mite negoziante non ebbe mai il coraggio di dire nulla. Per qualche tempo mancai di passare nel negozio del sottopassaggio e mi sorpresi assai vedendo che la signora Glorianna aveva assunto stabilmente il figlio di Pino come commesso. Pensavo che le fossero antipatici come a me. Forse mi sbagliai. Così preferii non approfondire.

Diedi il nomignolo di Teschietto ad un tizio senza nome con cui facevo conversazione. Il suo volto, ovviamente, era smunto, scavato e molto segnato, con gli occhi fuori dalle orbite e una sfavillante dentiera prominente che spuntava dalle labbra violacee. Il colore della pelle ricordava quello dell’epatite virale acuta. Parlava generalmente, con una voce che proveniva dal sottoscala,  di cantanti scomparsi. Tra tutti prediligeva Apollo Granforte, la cui valentìa vocale, secondo Teschietto, era commisurata e dovuta, non solo metaforicamente, alle gonadi del cantante particolarmente sviluppate. Vox populi, vox Dei.

Passava dal negozio un soprano del Teatro Comunale ormai prossimo alla pensione, anche due volte al giorno, a seconda delle prove. Si chiamava Clelia Vannini. Aveva il fisico da boiler dell’arzadoura bolognese, essendo alta sul metro e cinquanta con un seno prosperoso su un fisico senza fianchi. La piccola testa ovale era sormontata da dei capelli appena ingrigiti, acconciati con una crocchia tenuta insieme da pettini. I grandi occhi spiovevano a lato e il naso aquilino anelava congiungersi con le labbra che atteggiava con un’espressione severa o schifata. Viveva con la mamma non troppo lontano da casa mia. Diceva di essere un soprano drammatico e d’avere come cavallo di battaglia nientemeno che In questa reggia dalla Turandot di Puccini e l’aria d’entrata della Lady Macbeth di Verdi.

Aveva un carattere esuberante e gioviale. Simpatica. Bastava darle un po’ di corda e conversava su tutto, con chiunque.

La signora Vannini raccontò senza troppe pruderie un episodio che altre donne avrebbero tenuto nascosto.

Mi fece:

«Non ho mai voluto tanti uomini attaccati alla stanella. Sa?».

La cosa non mi stupì. Pensai che nemmeno quand’era giovane potesse vantare una particolare bellezza.

Cantò a mezza voce, a proposito del suo essere zitella,

«Nessun m’avrà», dalla romanza in cui eccelleva.

Spiegò che prese la decisione di tagliare i ponti con gli uomini dopo essersi innamorata di un cantante lirico, omosessuale noto a tutti, tranne che a lei. La storia della principessa di gelo scongelata non ebbe un lieto finale e, quindi, la piccola Turandot si rinchiuse in una ghiacciaia sentimentale  da cui mai più uscì. Così almeno disse l’interessata.

«Pericle Livraghi…L’avrà senz’altro sentito cantare al Comunale».

«Stia bene attento, perché quello cerca i ragazzi come lei».

Livraghi e la Azzaroni si conobbero da un maestro di canto e, dopo qualche tempo, presero a vedersi anche fuori dall’ambito lirico.

Non rimanevano mai soli perché Livraghi sempre portava con sé un terzo incomodo, un professore di lettere.

«Gentile, una cara persona, molto colto…ma sempre tra i piedi. Pericle mi invitava fuori all’opera, al cinema, alla prosa. Ad ogni appuntamento si presentava con questo. Alla fine diventai, per forza, amica anche con lui».

Andavano in giro a far gite tutti e tre insieme allegramente. Arrivarono perfino a Parigi.

«Che bel viaggio e che nostalgia per quei tempi spensierati, che risate! E poi eravamo giovani…»

A Versailles il professore si storse un piede e dovette sedersi.

«Non può immaginare la scenata di Pericle al professore perché non riusciva a reggersi in piedi! Voleva vedere il Trianon a tutti costi. Si mise a fare i capricci. Battè i piedi per terra. Così andammo a visitarlo io e lui…mano nella mano»

«E poi?» chiesi divertito.

«Trovammo un angolino con poca luce e…mi diede un bacino sulla guancia. Ma non pensi che…non andammo oltre. La cosa finì lì, insomma»

Mi prese da una parte e sussurrò coprendosi la bocca:

«Era un busone»

«Ma ha capito chi è?»

Intervenì, allora, la signora Glorianna:

«Clelia, ma che cosa sta raccontando, che dice? E poi la smetta di annoiare questo povero ragazzo con la solita gnola»

La signora Vannini continuò invece sottovoce.

«Mi prese in giro, io ero la sua copertura».

Chiesi:

«Come fece a capire che…»

«Aaah, se fosse stato per me non l’avrei mai capito. Quant’ero ingenua, una gnocca…però quanto ci divertivamo! Come stavamo bene! Un bel giorno mia mamma trovò nella buchetta una lettera anonima a lei indirizzata. La frase più gentile fu: Tua flglia fa pena quando regge il moccolo a quei due busoni. Capisce anche lei che dovetti allontanarmi, mia madre si sentiva lo zimbello della gente. Dei vigliacchi. Invidiavano la mia felicità».

E sospirò.

«Dopo questo episodio, ho dato un taglio agli uomini», facendo un eloquente gesto con le mani.

«Pericle era un bell’omarino, gli piaceva vestire elegantemente. Si atteggiava a fare l’artista, l’esteta con la testa tra le nuvole…»

E aggiunse con tono pieno d’orgoglio «Sa che ebbe anche una relazione con Danny Kaye?», come se la relazione con Kaye l’avesse avuta lei o se fosse una referenza di particolare rilievo.

Ed io:

«L’attore di Hollywood? E come fece a conoscerlo?»

Poi chiesi stupito:

«Livraghi ha cantato in America?»

«No, niente America. Lo conobbe in via D’Azeglio, Pericle cantava a Palazzo Rusconi per una sfilata di moda. C’era a quel tempo, in quel palazzo, la famosa sartoria di Maria Venturi…abiti da sera bellissimi. Fu invitato a cantare delle romanze da salotto mentre passavano le mannequin… Musica Proibita, Ideale, Sogno. La sartoria aveva invitato non so quale marchesa e questa si presentò raggiante al braccio di Danny Kaye, che passava per Bologna»

E chiesi:

«Andò anche lei alla sfilata?»

«Macché, chi c’aveva i soldi per un abito elegante da stare in mezzo alla crème della società? C’erano le prime signore di Bologna! Così durante il rinfresco scoccò la scintilla tra i due».

«Il professore fece una tragedia greca. Un litigio che tremavano i muri»

«E come finì?», feci io incuriosito.

«Pericle disse che sarebbe andato fino in fondo, che avrebbe seguito il proprio destino e il proprio amore. Il professore  rispose che, se avesse continuato nel suo intento, si sarebbe buttato al piano di sotto. L’altro iniziò a ridere in maniera beffarda alla Paola Borboni. Il professore, allora, aprì la porta prese la ricorsa…e si fermò sul pavimento del pian terreno. Quattro costole incrinate, la spalla lussata e un femore rotto…»

Non riuscii a trattenere il riso.

«Se avesse aspettato una settimana non sarebbe finito al Rizzoli perché Danny Kaye prese l’aereo…senza nemmeno dire addio a Pericle dal finestrino». Il soprano del Comunale sembrò avere finito.

La signora Glorianna intercettò il mio sguardo facendosi il segno della croce.

Fui io, invece, a continuare il discorso.

«Il professore di chimica si chiamava forse Apolli?»

La signora Clelia sembrò vivificata da una scossa elettrica:

«Sì. Rolando Apolli…Lo conosce? E mi fa sgolare per un’ora?»

«Ma come fa a conoscerlo?»

«Non mi dica che pure lei…», aggiunse ridendo.

Risposi ridendo:

«Guardi che non gliel’ho mica chiesto io di raccontarmi ‘sta storia. Il professor Apolli insegnava nel mio Liceo. La Corinna è perfino andata a casa sua per delle ripetizioni di latino».

Nominata la Corinna, Turandot si calmò e fece un’espressione delusa. Sperava in  qualche cosa di sostanzioso, di qualche maldicenza piccante.

«Il professore organizzò un gruppo di studio sull’Otello. Fu lì che io e la Corinna lo conoscemmo. Non insegnava nella nostra classe. Apolli raccontò alla mia amica, andando a lezione, che conosceva tanti cantanti, in modo particolare Pericle Livraghi, un suo amico intimo»

Riprese sottovoce ma con grande concitazione:

«Macché amico intimo! Erano finocchi, se lo davano nel c…»

A quel punto la signora Glorianna, avendo sentito tutto, sbottò:

«Basta Clelia, la smetta di pronunciare queste parole! Pensa forse di vendicarsi facendo questi racconti? E’ passata tant’acqua sotto i ponti».

La Vannini sarebbe andata avanti ancora chissà per quanto.

Tagliai corto e dissi, salutando entrambe:

«Il suo racconto, signora Clelia, ha fatto quadrare un cerchio che mi portavo dai tempi del liceo».

Tornai a casa convinto che la signora Vannini avesse veramente amato Pericle Livraghi.

E l’impossibile amore della piccola Turandot era  in ghiacciaia, con lei.  Mai  svanito.

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