Una regina a Bologna

In epoche diverse, lontane da oggi, camminando per Bologna, si sarebbero potuti incontrare personaggi di gran rango come re, regine, geni e avventurieri.

Ricorderemo per prima la regina Cristina di Svezia e i tre giorni che trascorse a Bologna, seconda città della Cristianità, tappa obbligata per arrivare a Roma. L’avvenimento iniziò il giorno 26 novembre 1655, un venerdì.

Chiunque abbia in mente la fascinosa Greta Garbo ne La regina Cristina, doppiata con la voce melodiosa di Tina Lattanzi, sappia che tra tra la regina della celluloide e quella reale non correva alcuna somiglianza.
Nel film v’era un’allusione ai capelli corti della vera Cristina – invero, li portava addirittura alla maschietta – e agli abiti di foggia maschile, assai poco regali, frequentemente indossati dalla Regina. Per la Hollywood degli anni trenta, epoca di attrici belle e fatali, l’immagine di Cristina fu reinventata di sana pianta. Oppure, per rendere il personaggio storico al meglio, si sarebbe dovuto ricorrere all’istrionica Bette Davis.

Nel libro Vita barocca del 1913, Corrado Ricci fornì una sapida descrizione della Regina, seppur prendendola alla larga, partendo dal padre:

«La pelle bianchissima, l’occhio azzurro e grande, la barba di un colore biondo chiaro, quasi cinereo, procurarono a Gustavo Adolfo re di Svezia, ultimo dei Vasa, il soprannome di Gigante di neve. Eppure l’unica figlia che ebbe da Maria Eleonora da Brandeburgo, nacque e crebbe pelosa, con voce dura e grossa, quasi di maschio». Così era Cristina di Svezia, in poche righe di grande efficacia.

Noi possiamo aggiungere che, alla nascita, nel 1626, le levatrici e i genitori furono perfino dubbiosi nel determinare il sesso della piccolina.

Sarà abile perché ci ha ingannati tutti” chiosò il re Gustavo Adolfo. Cristina gli successe all’età di sei anni, ma ebbe il potere solo dodici anni dopo. Nel frattempo Cristina crebbe secondo un’educazione da principe ereditario, assecondando le sue attitudini non particolarmente muliebri: esercizi fisici, equitazione – cavalcava come un uomo, non all’amazzone – uso delle armi e caccia. Il cancelliere e istitutore Axel Oxenstierna aggiunse a questo un’accurata istruzione che prevedeva lo studio del latino, il greco, la teologia, la filosofia, la storia, lo studio della lingua tedesca, olandese, francese, italiana, i rudimenti di ebraico ed arabo. Si applicava moltissimo, per più di dieci ore al giorno. Questi semi ben presto germogliarono e diventarono piante rigogliose: Cristina dimostrò durante l’intera vita un profondo interesse, favorendole quale attento mecenate, per le discipline umanistiche, la letteratura, le arti e il teatro.

Stoccolma divenne così l’Atene del Nord.

Cristina chiamò alla corte perfino Cartesio perché le impartisse i suoi insegnamenti. Si tramanda che la Regina convocasse il filosofo alle cinque del mattino. Bizzarrie coronate. Le levatacce durante il rigido inverno svedese procurarono al pensatore una polmonite per la quale morì.

Colta, intelligente ma, per l’epoca e per l’alto Ufficio, assai bizzarra: Cristina camminava come un uomo, vestiva come un uomo, calzava scarpe da uomo, sedeva come un uomo, mangiava, beveva come un uomo. E nonostante che la bellezza non fosse sua prerogativa, amò in maniera libertina una quantità di donne e di uomini, fra questi, a Roma, il Cardinale Decio Azzolini. La Regina ebbe però un solo vero amore in tutta la sua vita e questo fu per una donna, la bella contessa Ebba Sparre, sua dama di compagnia alla corte di Stoccolma.

Ancor più sapida rispetto a quella di Ricci è la descrizione di François Maximilian Misson, scrittore francese esiliato di credo protestante, nel suo Nouveau voyage d’Italie pubblicato nel 1691, avendola veduta tre anni prima a Roma: «Ha più di sessant’anni, è di piccola statura, troppo grassa e corpulenta. Il suo complesso, la voce ed il volto sono quelli di un uomo. Ha un naso grande, grandi occhi blu, sopracciglia bionde ed un doppio mento con alcuni peli di barba. Il suo labbro superiore si sporge di poco. I suoi capelli sono color nocciola chiaro, e sono lunghi appena un palmo di mano; li porta dritti e non acconciati. Sorride spesso. Sarà difficile immaginarvi i suoi vestiti: una giacca da uomo, di satin nero, che le raggiunge le ginocchia, tutta abbottonata, con una maglietta nera molto corta, e scarpe da uomo, assieme ad una serie di nastri neri a mo’ di cravatta, il tutto accompagnato da una cintura nera stretta allo stomaco che ancor più rivela le sue rotondità».

Si può considerare a favore della sessantenne Cristina che l’età non più verde ed un passato colmo di esperienze abbiano intensificato la scarsa avvenenza di quand’era più giovane.

Perché Cristina dimorava a Roma? La Regina abdicò nel 1654 a favore del cugino Carlo X, lasciando Stoccolma per iniziare un tortuoso esilio tra Paesi Bassi, Austria, Italia e Francia che si concluse a Roma. L’abdicazione fu il risultato della concomitanza di differenti fattori: da un lato, più attratta dalle sue passioni intellettuali ed artistiche che dagli affari di stato, la Regina effettuò alcune scelte politiche ed amministrative sgradite a molti svedesi, dall’altro lato scivolò, in una crisi religiosa che culminò nell’abiura della religione protestante per abbracciare la fede cattolica. Roma fu la città che predilesse sopra tutte; abitò a Palazzo Farnese, e qui ebbe rapporti non sempre cordiali con i vari papi per via di un carattere forte e comportamenti anticonvenzionali.

Da tempo i bolognesi non vedevano una testa coronata in carne e ossa. L’ultima volta era avvenuta il 5 novembre 1529, quando Carlo V re di Spagna giunse a Bologna per la sua incoronazione ad imperatore in San Petronio per mano del Papa Clemente VII, diventando Bologna, per diversi mesi, il centro dell’Occidente e luogo di solenni fasti.

Più di un secolo dopo, i bolognesi non stettero a lesinare sui festeggiamenti per il fine settimana barocco di Cristina. Seppur fosse un’ex regina e nonostante le difficoltà causate dalla decimazione della peste manzoniana del 163O, Bologna diventò una baraonda festante.

Cristina di Svezia entrò in città con un seguito di ben duecento quarantasette cavalli e duecento cinquantacinque accompagnatori.

La carrozza – preceduta da un corteo di moschettieri, di alabardieri e poi di corazzieri – era tappezzata di stoffa rossa ricamata con filo d’oro, tirata da tre coppie di cavalli bianchi. E poi in mezzo vi era un trono.

Molteplici salve d’artiglieria, tutt’intorno una moltitudine di trombe, tamburi, mazzieri, uomini a cavallo. E fuochi d’artificio, vanto di Bologna in tutta Europa per spettacolarità e fasto.

Folla ovunque, trattenuta a forza dagli alabardieri.

Discesa dalla carrozza, la nuova devota cattolica s’avviò verso l’Arcivescovo, sotto un baldacchino bianco sorretto da otto cavalieri con mantelli neri ornati di ermellino. Dietro di loro, i canonici. La Regina s’inginocchiò su di un cuscino e l’arcivescovo le fece baciare un crocifisso.

In Piazza Maggiore, tra molti trofei, fu edificato un teatro per assistere ad un memorabile hastiludium, un torneo d’arti marziali senz’altro gradito alla Regina. E pare che l’Accademia dei Filomusi avesse eseguito la cantata Carillo tradito di un tal musico Francesco Bonini. Si tenne in suo onore un gran ballo nella Sala d’Ercole in Palazzo d’ Accursio. Corrado Ricci narra che Cristina si presentò con una «parrucca bionda riccia, spalmata di manteca e cosparsa di cipria, un fazzoletto al collo di punto genovese con nastro aranciato, come il giubbetto giavellotto guernito d’oro e d’argento. Uguale ricchezza di guarnizione copriva interamente la sottana bigia».

Cristina inoltre partecipò a un pranzo con nobildonne mascherate, assistette a messe nella cattedrale di San Pietro e in San Petronio, rese omaggio alla Madonna di San Luca; assecondando i propri interessi per le scienze, visitò le wunderkammer del Museo naturalistico di Ulisse Aldovrandi e incontrò l’illustre astronomo Giovanni Domenico Cassini.

Insomma, la permanenza a Bologna della ex regina fu colma di impegni e di incontri.

Verso Piazza Maggiore, al numero 18 di Via Galliera, il numero 577 secondo la vecchia numerazione ante 1871, quasi innanzi al portone della mia vecchia casa natale, si incontra il sontuoso Palazzo Tanari. Tanto sontuoso che il 28 novembre 1655 la Regina si ritirò a Palazzo Tanari ospite del Gonfaloniere pro tempore, il conte Giovanni Niccolò Tanari. La costruzione di questo solenne edificio principiò nel 1632, terminando nel 1671, sedici anni dopo i fatti che stiamo narrando.

Il giorno successivo riprese il viaggio verso Roma. Il 25 dicembre, l’illustre donna sarebbe stata accolta trionfalmente in San Pietro dal Papa Alessandro VII per raccogliere la sua professione di nuova fede cristiana ricevendo tutti i sacramenti.

Diventò Cristina una brava cattolica?

Fu questa conversione una vittoria di Santa Romana Chiesa contro lo scisma eretico protestante?

Solo apparentemente: Cristina fu invero una cattolica assai sui generis aggiustando i decreti papali seguendo proprie regole, spesso piene di eccessi e di molteplici peccati, anche mortali. Soleva dire che “Non sono una cattolica da palcoscenico”.

D’altra parte abbandonò anche un trono perché donna troppo libera per essere regina.

Cristina, la Regina di Roma, qui morì il 19 aprile 1689. Le spoglie imbalsamate furono ospitate in un sarcofago delle Grotte Vaticane della Basilica di San Pietro.

Là si trovano tuttora.

Un altro amore per Turandot

La singolarità del negozio ”Dischi Salizzoni“ consisteva nell’avere due entrate opposte, essendo situato dove il Sottopassaggio si sdoppiava in percorsi paralleli. Per il resto era anonimo e poco attraente come tutti i negozi sotterranei.

Vendeva prevalentemente musica  leggera e rock ad una clientela di passaggio, senza troppe pretese. I cultori della musica classica non avrebbero mai trovato  opere rare o  edizioni succulente, quelle che facevano bella mostra alla Casa del disco o da Bongiovanni, negozio sormontato perfino dalle insegne del Toson d’oro e i blasoni dei reali spagnoli, al posto dell’Osteria dei Tre Re. Glorianna, la proprietaria, sopperiva allo scarso assortimento ordinando i dischi classici sistematicamente mancanti, che giungevano però senza fretta. Ai pochi giovani in cerca di musica classica, la negoziante faceva dei consistenti sconti perchè coltivassero più assiduamente la propria passione.

Piccolina e minuta, la Glorianna aveva degli occhi malinconici alla Edith Piaf. Esprimevano mitezza. Il suo animo, in effetti, si manifestava gentile e paziente con tutti, perfino con una mia compagna di classe, la Corinna Strocchi, in grado di fare perdere la pazienza anche a un santo. Io pensavo che la signora Salizzoni fosse tormentata dalla mia amica. Una vittima, insomma.

Sempre sorvegliata nello spendere il denaro e contando sugli extrasconti per gli studenti, la Corinna acquistava esclusivamente le opere nel sottopassaggio, ma ad ogni cavata di papa e, per questo, ogni compera diventava un avvenimento che subivamo tutti. I dischi dovevano essere assolutamente perfetti. Ma la perfezione non sembrava mai lambire i dischi venduti dalla signora Salizzoni alla Corinna: questa infatti, ogni volta lamentava che le opere producevano fruscii, crepitii, dei pic e dei pac. I rumori comparivano ovviamente a casa della Corinna, e scomparivano allorché la signora Glorianna ascoltava con il proprio giradischi per controllare i difetti. Era il fruscìo fantasma.

La Corinna scaricava, allora, la colpa sull’apparecchio della negoziante:

«Eeeeeh, ma lei c’ha un pick-up troppo pesante. Per forza che non sente i rumori!»

E la Salizzoni di rimando:

«Forse avrà lei una puntina vecchia. Da quanto tempo è che non la cambia? E pulisce i dischi con un panno elettrostatico?»

Con questa manfrina dei fruscii, la Corinna riuscì a farsi cambiare la Carmen diretta da von Karajan per ben tre volte senza essere mandata a ramengo.

La negoziante sudò freddo, rassegnandosi al peggio, allorchè la Corinna fu posseduta dalla passione wagneriana: con L’anello del Nibelungo la perfezione si sarebbe dovuta estendere a ben diciannove dischi! La venditrice esperta affidò la propria sorte alla nota qualità della gialla Deutsche Grammophon.

In una città di sinistra, a quei tempi ancora molto ideologizzata, la signora Glorianna si professava anticomunista. Aveva civile riserbo nell’esprimere le proprie idee controcorrente, essendo temprate dall’opportunismo del commerciante.

Capitava che facesse qualche battuta sulla giunta cittadina, ostaggio dei compagni: vedeva ovunque informatori mandati dal Palazzo Comunale e proprio tra i pensionati incontinenti del sottopassaggio, stanziati a pochi metri dalle latrine pubbliche, si annidavano le spie del signor sindaco.

La signora Glorianna mi prese a benvolere come una zia, dopotutto parevo un nipote perfetto per tutti i tipi di zie, con quella faccia da bravo ragazzo studioso che mi trovavo, sempre vestito in maniera elegante, e con la passione per la musica classica.

Nonostante che il mio cuore battesse politicamente a sinistra, non essendo un indiano metropolitano, né sostenevo gli espropri proletari con sampietrini per svuotare i negozi, la signora Glorianna aveva una considerazione molto indulgente sulle mie idee, pensando che fossi solo influenzato da professori filocomunisti.

Una volta le uscì dalla bocca qualche parola in più:

«Scommetto che lei ha un professore comunista…», disse ammiccando

«Credo di sì. Quello di filosofia penso che sia comunista. Iscritto al PCI», risposi.

«Vede? Ho ragione io allora!» e continuò:

«Passerà, passerà…Certe idee passeranno come passano morbillo e varicella quando i bambini vanno all’asilo o alle elementari. Al liceo, invece, gli adolescenti sono contagiati dalla propaganda dei professori di sinistra»

«Il suo è l’entusiasmo giovanile dello studente che legge tante cose…quando sarà più grande, e penserà con la propria testa, cambierà idea. Vedrà, vedrà!»

Giocai allora una briscoletta nascosta:

«Ah! Dimenticavo… Abbiamo un altro professore comunista… quello di religione»

La Glorianna sgranò gli occhi. E continuai:

«Deve essere addirittura un extraparlamentare. Viene a scuola con eskimo, chitarra e saccoccia».

«Quanti anni ha?», chiese lei.

«Non so. E’ giovane, si è laureato da poco in lettere. Tutte le ragazze sono innamorate di lui, dicono che è anche bello»

«E cosa ci fa con la chitarra?»

«Fa cantare pezzi religiosi arrangiati come nella messa beat, e poi Guccini, De Andrè, Dylan. Cantano soprattutto le femmine, anche la Corinna»

«E quando non cantate?»

«Ci parla di Dio, di Gesù, di Marx, di capitalismo, sfruttamento, lavoro, terzo mondo, mai di partiti politici»

E allora la Glorianna:

«Mo’ sorbole!  Sta a vedere…che dietro a questo professore prenderei una barca anch’io. La prossima volta che passa, farò il terzo grado a Corinna…», chiudendo la questione dei comunisti con divertita furbizia.

Se nei bar è possibile incontrare degli avventori che per ore stanno a far chiacchiere o guardare la gente senza bere nemmeno un caffè o un crodino, così la signora Glorianna ospitava alcune persone, sempre le stesse, con diversi gradi di stranezze, dei perditempo che non compravano mai nulla, nemmeno un quarantacinque giri di Gianni Morandi.

Tra queste c’era senz’altro la Corinna che, considerando la giovane età, dimostrava grande talento naturale per le stranezze. Ma almeno lei qualche disco, seppur saltuariamente, lo acquistava.

Conobbi uno strano – o meglio, imparai a riconoscerlo più che a conoscerlo – signore benestante sulla sessantina. Entrava dalla Glorianna, si appoggiava ad una scansia e lì rimaneva con lo sguardo fisso. Una statua grezzamente intagliata nel legno con gli occhi uguali ai bottoni del paltò. Si chiamava Amedeo Masetti, così disse la Glorianna. Un uomo assai laconico, trisillabico. Poiché nessuno ci presentò, i nostri discorsi andavano a mala pena oltre i saluti, esaurendo in fretta la sua disponibilità quotidiana di sillabe. Per questa educata maleducazione mi sentivo spesso imbarazzato e, allora, per mettere in pace la coscienza, pronunciavo un impersonale Salve rivolto a tutti e a nessuno. La grande stranezza di Amedeo Masetti era che collezionava esclusivamente i dischi del Rigoletto. Nient’altro. E’ facile immaginare che la sua raccolta si fosse completata in breve tempo.

La signora Glorianna alzava gli occhi al cielo quando, ogni giorno, entrava un appiccicoso pugliese conosciuto solo per nome, Pino. Raccontò una sola cosa della sua vita privata: possedeva un disco della Traviata con Maria Malibran! Un solo racconto e, per giunta, una balla. Scelse male il soprano. Maria Felicia Malibran, infatti, se ne andò poco prima che Verdi iniziasse a comporre opere, quasi vent’anni prima della Traviata e assai prima dell’invenzione del grammofono.

L’uomo aveva sempre al seguito un figlio nullafacente, mellifluo quanto lui, sui diciotto anni. Non sembrava un fulmine di intelligenza, forse renitente alla scuola, e forse era venuto al mondo per partenogenesi dal momento che né l’uno né l’altro parlava mai della rispettiva moglie o madre.

Anche la professione del pugliese era avvolta dal mistero. Decidemmo con la Glorianna che fosse cameriere di ristorante, indossando sempre pantaloni e mocassini neri con una camicia bianca.

Pino si manifestò furbo e intrigante con un piano preciso a favore del figlio. Tessette una tela tra cui la signora Glorianna rimase intrappolata.

Il negozio Salizzoni era condotto normalmente dalla proprietaria e, all’occorrenza, arrivava il rinforzo della sorella. Con il passare dei mesi, Pino e il figlio, senza che la Glorianna avesse mai chiesto nulla, iniziarono a servire la clientela come veri commessi. La mite negoziante non ebbe mai il coraggio di dire nulla. Per qualche tempo mancai di passare nel negozio del sottopassaggio e mi sorpresi assai vedendo che la signora Glorianna aveva assunto stabilmente il figlio di Pino come commesso. Pensavo che le fossero antipatici come a me. Forse mi sbagliai. Così preferii non approfondire.

Diedi il nomignolo di Teschietto ad un tizio senza nome con cui facevo conversazione. Il suo volto, ovviamente, era smunto, scavato e molto segnato, con gli occhi fuori dalle orbite e una sfavillante dentiera prominente che spuntava dalle labbra violacee. Il colore della pelle ricordava quello dell’epatite virale acuta. Parlava generalmente, con una voce che proveniva dal sottoscala,  di cantanti scomparsi. Tra tutti prediligeva Apollo Granforte, la cui valentìa vocale, secondo Teschietto, era commisurata e dovuta, non solo metaforicamente, alle gonadi del cantante particolarmente sviluppate. Vox populi, vox Dei.

Passava dal negozio un soprano del Teatro Comunale ormai prossimo alla pensione, anche due volte al giorno, a seconda delle prove. Si chiamava Clelia Vannini. Aveva il fisico da boiler dell’arzadoura bolognese, essendo alta sul metro e cinquanta con un seno prosperoso su un fisico senza fianchi. La piccola testa ovale era sormontata da dei capelli appena ingrigiti, acconciati con una crocchia tenuta insieme da pettini. I grandi occhi spiovevano a lato e il naso aquilino anelava congiungersi con le labbra che atteggiava con un’espressione severa o schifata. Viveva con la mamma non troppo lontano da casa mia. Diceva di essere un soprano drammatico e d’avere come cavallo di battaglia nientemeno che In questa reggia dalla Turandot di Puccini e l’aria d’entrata della Lady Macbeth di Verdi.

Aveva un carattere esuberante e gioviale. Simpatica. Bastava darle un po’ di corda e conversava su tutto, con chiunque.

La signora Vannini raccontò senza troppe pruderie un episodio che altre donne avrebbero tenuto nascosto.

Mi fece:

«Non ho mai voluto tanti uomini attaccati alla stanella. Sa?».

La cosa non mi stupì. Pensai che nemmeno quand’era giovane potesse vantare una particolare bellezza.

Cantò a mezza voce, a proposito del suo essere zitella,

«Nessun m’avrà», dalla romanza in cui eccelleva.

Spiegò che prese la decisione di tagliare i ponti con gli uomini dopo essersi innamorata di un cantante lirico, omosessuale noto a tutti, tranne che a lei. La storia della principessa di gelo scongelata non ebbe un lieto finale e, quindi, la piccola Turandot si rinchiuse in una ghiacciaia sentimentale  da cui mai più uscì. Così almeno disse l’interessata.

«Pericle Livraghi…L’avrà senz’altro sentito cantare al Comunale».

«Stia bene attento, perché quello cerca i ragazzi come lei».

Livraghi e la Azzaroni si conobbero da un maestro di canto e, dopo qualche tempo, presero a vedersi anche fuori dall’ambito lirico.

Non rimanevano mai soli perché Livraghi sempre portava con sé un terzo incomodo, un professore di lettere.

«Gentile, una cara persona, molto colto…ma sempre tra i piedi. Pericle mi invitava fuori all’opera, al cinema, alla prosa. Ad ogni appuntamento si presentava con questo. Alla fine diventai, per forza, amica anche con lui».

Andavano in giro a far gite tutti e tre insieme allegramente. Arrivarono perfino a Parigi.

«Che bel viaggio e che nostalgia per quei tempi spensierati, che risate! E poi eravamo giovani…»

A Versailles il professore si storse un piede e dovette sedersi.

«Non può immaginare la scenata di Pericle al professore perché non riusciva a reggersi in piedi! Voleva vedere il Trianon a tutti costi. Si mise a fare i capricci. Battè i piedi per terra. Così andammo a visitarlo io e lui…mano nella mano»

«E poi?» chiesi divertito.

«Trovammo un angolino con poca luce e…mi diede un bacino sulla guancia. Ma non pensi che…non andammo oltre. La cosa finì lì, insomma»

Mi prese da una parte e sussurrò coprendosi la bocca:

«Era un busone»

«Ma ha capito chi è?»

Intervenì, allora, la signora Glorianna:

«Clelia, ma che cosa sta raccontando, che dice? E poi la smetta di annoiare questo povero ragazzo con la solita gnola»

La signora Vannini continuò invece sottovoce.

«Mi prese in giro, io ero la sua copertura».

Chiesi:

«Come fece a capire che…»

«Aaah, se fosse stato per me non l’avrei mai capito. Quant’ero ingenua, una gnocca…però quanto ci divertivamo! Come stavamo bene! Un bel giorno mia mamma trovò nella buchetta una lettera anonima a lei indirizzata. La frase più gentile fu: Tua flglia fa pena quando regge il moccolo a quei due busoni. Capisce anche lei che dovetti allontanarmi, mia madre si sentiva lo zimbello della gente. Dei vigliacchi. Invidiavano la mia felicità».

E sospirò.

«Dopo questo episodio, ho dato un taglio agli uomini», facendo un eloquente gesto con le mani.

«Pericle era un bell’omarino, gli piaceva vestire elegantemente. Si atteggiava a fare l’artista, l’esteta con la testa tra le nuvole…»

E aggiunse con tono pieno d’orgoglio «Sa che ebbe anche una relazione con Danny Kaye?», come se la relazione con Kaye l’avesse avuta lei o se fosse una referenza di particolare rilievo.

Ed io:

«L’attore di Hollywood? E come fece a conoscerlo?»

Poi chiesi stupito:

«Livraghi ha cantato in America?»

«No, niente America. Lo conobbe in via D’Azeglio, Pericle cantava a Palazzo Rusconi per una sfilata di moda. C’era a quel tempo, in quel palazzo, la famosa sartoria di Maria Venturi…abiti da sera bellissimi. Fu invitato a cantare delle romanze da salotto mentre passavano le mannequin… Musica Proibita, Ideale, Sogno. La sartoria aveva invitato non so quale marchesa e questa si presentò raggiante al braccio di Danny Kaye, che passava per Bologna»

E chiesi:

«Andò anche lei alla sfilata?»

«Macché, chi c’aveva i soldi per un abito elegante da stare in mezzo alla crème della società? C’erano le prime signore di Bologna! Così durante il rinfresco scoccò la scintilla tra i due».

«Il professore fece una tragedia greca. Un litigio che tremavano i muri»

«E come finì?», feci io incuriosito.

«Pericle disse che sarebbe andato fino in fondo, che avrebbe seguito il proprio destino e il proprio amore. Il professore  rispose che, se avesse continuato nel suo intento, si sarebbe buttato al piano di sotto. L’altro iniziò a ridere in maniera beffarda alla Paola Borboni. Il professore, allora, aprì la porta prese la ricorsa…e si fermò sul pavimento del pian terreno. Quattro costole incrinate, la spalla lussata e un femore rotto…»

Non riuscii a trattenere il riso.

«Se avesse aspettato una settimana non sarebbe finito al Rizzoli perché Danny Kaye prese l’aereo…senza nemmeno dire addio a Pericle dal finestrino». Il soprano del Comunale sembrò avere finito.

La signora Glorianna intercettò il mio sguardo facendosi il segno della croce.

Fui io, invece, a continuare il discorso.

«Il professore di chimica si chiamava forse Apolli?»

La signora Clelia sembrò vivificata da una scossa elettrica:

«Sì. Rolando Apolli…Lo conosce? E mi fa sgolare per un’ora?»

«Ma come fa a conoscerlo?»

«Non mi dica che pure lei…», aggiunse ridendo.

Risposi ridendo:

«Guardi che non gliel’ho mica chiesto io di raccontarmi ‘sta storia. Il professor Apolli insegnava nel mio Liceo. La Corinna è perfino andata a casa sua per delle ripetizioni di latino».

Nominata la Corinna, Turandot si calmò e fece un’espressione delusa. Sperava in  qualche cosa di sostanzioso, di qualche maldicenza piccante.

«Il professore organizzò un gruppo di studio sull’Otello. Fu lì che io e la Corinna lo conoscemmo. Non insegnava nella nostra classe. Apolli raccontò alla mia amica, andando a lezione, che conosceva tanti cantanti, in modo particolare Pericle Livraghi, un suo amico intimo»

Riprese sottovoce ma con grande concitazione:

«Macché amico intimo! Erano finocchi, se lo davano nel c…»

A quel punto la signora Glorianna, avendo sentito tutto, sbottò:

«Basta Clelia, la smetta di pronunciare queste parole! Pensa forse di vendicarsi facendo questi racconti? E’ passata tant’acqua sotto i ponti».

La Vannini sarebbe andata avanti ancora chissà per quanto.

Tagliai corto e dissi, salutando entrambe:

«Il suo racconto, signora Clelia, ha fatto quadrare un cerchio che mi portavo dai tempi del liceo».

Tornai a casa convinto che la signora Vannini avesse veramente amato Pericle Livraghi.

E l’impossibile amore della piccola Turandot era  in ghiacciaia, con lei.  Mai  svanito.

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