Le tazzine

E’ un dolce squisito dal gusto raffinato, sensuale, orientaleggiante, forse afrodisiaco.
Pochi sono gli ingredienti:
Cento grammi di zucchero
Sessanta grammi di mandorle sbucciate
Dieci tuorli d’uovo
Un decilitro di acqua
Un nonnulla d’acqua di fiori d’arancio
Un nonnulla di cannella in polvere
Come prima cosa si devono tostare le mandorle al forno e poi tritarle con la mezzaluna non troppo finemente.
Si tuffi lo zucchero nell’acqua in un tegame di metallo e ponetelo sul fuoco. Dovrà bollire per due minuti, al massimo, senza che imbrunisca, poi lo sciroppo ottenuto dovrà intiepidire.
Porre nuovamente il composto sulla fiamma molto moderata ed unire un tuorlo alla volta mescolando con un cucchiaio di legno per lo stesso verso. Esauriti i tuorli, fare addensare sul fuoco sempre girando col il cucchiaio e poi montate ben bene con una frusta, dal basso verso l’alto, fino a che il composto avrà cambiato il colore e sarà diventato denso.
La preparazione della crema termina unendo delicatamente le mandorle e l’acqua di fiori d’arancio.
Versate, quindi, in dieci-dodici tazzine da caffè, senza colmarle, e profumate ognuna con una leggera nuvola di cannella. Qui si spiega il nome del dolce.
Lasciate riposare le tazzine in un luogo fresco per un giorno o due. Gli aromi degli ingredienti così si compenetreranno e s’esalteranno vicendevolmente.
Perfetto come dessert alla fine di un pasto perché, pur essendo sostanzioso, la quantità è tale da non appesantire la digestione, sia come squisitezza da consumarsi in pomeriggio. Oppure quando si vuole. Chacun à son goût.
Ve lo consiglio.

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte Prima)

Era freddo. Pioveva come se fosse stato pieno autunno.

Una giornata triste. Sembrava il giorno dei morti e invece attendevamo la Pasqua di Risurrezione.

«Un paltò da tenore…è già calato nel ruolo», pensai prima che mi dicesse con un franco sorriso e sguardo schietto:

«Ciao, molto piacere. Io sono Rufo»

Alto, moro, capelli ricci, era senza alcun dubbio un bel ragazzo dal sorriso accattivante e schietto.

Indossava un paltò di cammello dal colore avana, a doppio petto, con un’importante martingala. Un collo di pelliccia scura rivestiva gli ampi rever. Insomma un paltò da invidiare.

«Finalmente ti conosco in carne ed ossa! Questo strano individuo mi ha straparlato di te», dissi indicando Tullio.

Sotto il paltò, Rufo indossava un pullover a V, una camicia bianca e una cravatta di maglina intrecciata. I pantaloni erano ben stirati con la piega e aveva delle scarpe lustre lustre, solo appena bagnate dalla pioggia battente. Di primo acchito, tutto questo avrebbe fatto pensare ad un composto bravo ragazzo cresciuto in una famiglia borghese.

Poche parole bastarono per dissolvere questa idea ed anche l’ostilità in me alimentata da Tullio. Rufo era un tipo estroverso. Allegro.

E simpatico, anche per il vivace appetito: si mangiò nel giro di due ore, mezza colomba pasquale con tre tazze di tè e non so quanti ovetti di cioccolato con cioccolatini FIAT.

Mi apparve ancor più simpatico quando disse apertamente che era di sinistra. Tullio per questa dichiarazione ebbe, invece, un tuffo al cuore…un altro filo-comunista sulla sua strada!

L’amico che il ‘bello’ aveva portato con sé si chiamava Gabriele e indossava un loden blu e jeans.

“Questo è segno che non sta a sinistra”, mi dissi. “Quelli di sinistra hanno il loden verde. Speriamo che sia solo democristiano”.

Gabriele pareva un bambinone, biondiccio remissivo e timido. Lo sguardo languoroso evitava di incrociarsi con il mio. Seduto, fissava inerte il vuoto innanzi a sé tenendo le braccia conserte e stringendo il naso con l’indice.

Quasi non sentii la sua voce poiché si limitava ad assentire con il capo quando parlava l’altro, come se le parole di Rufo rappresentassero anche i suoi pensieri.

“Mi sa che questo Rufo sia un accentratore. Molto simpatico, ma…”

Tullio finalmente chiese a quello che, secondo lui, era l’erede di Tamagno:

«Rufo, ti va di farci sentire l’Esultate?»

Ma questi, essendo già ’tenore’, assai più del previsto – e non solo per il soprabito di cammello- rispose laconicamente:

«No. Oggi non mi sento bene».

Rufo raffreddò le scontate aspettative con tono fermo, addolcito da un sorriso serafico.

Ed io pensai:

“Ecco, fa il divetto. Almeno è un divo simpatico, per fortuna!”

«Però lui canterà ‘Prendi l’anel ti dono’», disse il divetto.

Gabriele finalmente si risvegliò dal torpore:

«Ma come? Perché dovrei cantare io?»

Rufo lo zittì:

«Su, avanti avanti, canta!»

Mi venne da ridere:

“Che coppia!”, mi dissi, “Lo comanda a bacchetta. Ci manca solo che gli dica ’sitz’, ‘platz’, ‘fuss’. Ma forse se lo merita…”

Il mite Gabriele obbedì senza fiatare. Obbedì meglio di tanti cagnolini da grembo con fiocchetti e fiocchettini.

Gabriele s’alzò in piedi giunse le mani e fissò il soffitto.

Prendi: l’anel ti dono

Che un di recava all’ara

L’alma beata e cara

Che arride al nostro amor.

Pareva di assistere alla lettura di una letterina natalizia.

«Bravo, vero?», disse immediatamente Ruffo per bloccare ogni critica. E spiegò:

«Studia con il mio maestro da due mesi. Hanno preparato insieme solo questo pezzo».

Tullio, come se fosse il presidente di una commissione giudicatrice, chiese:

«Ora Gabriele cos’altro ci canti?»

E lui, guardando Rufo con la coda dell’occhio, rispose:

«Va bene il Lamento di Federico?».

Il Capo annuì.

È la solita storia del pastore…

Il povero ragazzo voleva raccontarla

E s’addormì.

«Ha buon gusto, vero?»

In verità, Gabriele non mi aveva entusiasmato: a me piacevano i tenori temperamentosi anche un po’ strafalari. Però non cantò male. La sua voce mi parve gradevole ma zuccherosa, talora malferma, talora nel naso.

Non mi esposi troppo dal momento che la nostra conoscenza era incominciata un’ora e mezzo prima:

«Belle mezze voci. A tratti ricorda Tito Schipa!».

Questa risposta era come quando si dice che una persona ha dei begl’occhi se non si ha nulla di meglio da dire.

La faccia di Gabriele, fino a quel momento priva di emozioni apparenti, si illuminò di felicità, come succede a un bambino mentre scarta un regalo: il tenore di Lecce era, infatti, il suo tenore preferito e queste parole le sentiva dire ripetutamente dal suo insegnante Floriano Mantovani. E qualcun altro se n’era accorto!

Rufo decise che il pomeriggio era finito. Si portò via con sé gli altri due dopo aver preso gli accordi per il pranzo del lunedì.

Due giorni dopo, alle tredici, sempre puntuale come un orologio svizzero, arrivò Teresa la farmacista, l’altra mia partner di scantarellate. Un bel volto regolare come quello delle bambole in celluloide sui letti matrimoniali o sulle cassapanche. Rideva con facilità e di gusto, ogni risata veniva anticipata da un leggero rumore di un motorino appena avviato. Cantava con una voce argentina alla Pagliughi le cose più disparate, l’Otello, il Barbiere di Siviglia, la Norma, il Don Carlos, mantenendo sempre la stessa espressione paciosa.

Era una brava cuoca e portò un bel cabaret di tartine e salatini.

Dopo qualche minuto suonò alla porta Tullio con un fardello caldo in mano, avvolto di carta stagnola e poi ancora in un burazzo da cucina per non scottarsi. Aveva preparato un ‘prosciutto in crosta’.

E precisò:

«Ho pensato di fare questo perché avevo in frigorifero un prosciutto cotto scaduto»

Conoscevo bene la filosofia di Tullio in cucina: non si doveva buttare via nulla, come ai tempi dell’autarchia. Quando preparava qualcosa da mangiare io temevo sempre di passare la notte in bagno con i dolori di pancia.

«E come hai fatto la crosta?» chiesi. Trattenni il riso perché prevedevo la risposta.

«Con della pasta sfoglia inutilizzata che avevo in frigo. L’avevo comprata per Natale».

Mi dissi:

“Tanto male non potrà fare…è stato cotto in forno. Io non lo mangerò, nemmeno se mi pagano”.

E lui:

«Vediamo di sbolognarlo tutto, tagliando delle fette grosse. Non vorrei riportarlo a casa. Quel che rimane lo diamo a Rufo per il bis, tanto quello mangia tutto fino a scoppiare».

Suonò Edmondo con Evelina. Il primo aveva con sé un arrosto farcito di frittata e spinaci, l’altra un pesce finto di tonno e patate. Non avevo ancora capito se la loro relazione fosse stata consumata oppure se perdurasse la contemplazione platonica di Evelina.

Si presentò Rufo con il suo bel paltò e due bottiglie di vino:

«Buona Paaasquaaa», augurò a squarciagola, distribuendo saluti e sorrisi a tutti.

«Ecco, è arrivato il grande tenore. Potrei avere un autografo? Ahahaha…», fece Tullio.

Ed Evelina accorrendo verso Rufo:

«Oooooh finalmente sei arrivato! Pieranti, sento il bisogno di essere baciata da te!»

Ma fu lei che lo baciò.

E anche Teresa espresse ammirazione:

«Rufo, quanto sei bello oggi…con la giacca e la cravatta! Anche la sciarpa di seta! Elegantissimo». In effetti pareva provenire da una prima teatrale.

Dietro all’Astro Raggiante, in penombra, c’era Gabriele con una faccia da fototessera e un uovo pasquale in mano. Aveva lasciato il loden ‘di destra’ nell’armadio della sua stanza per indossare un cappotto inglese con la mantellina. Pure lui aspettava di ottenere qualche attenzione, ma non ebbe alcun complimento. Con Rufo gli succedeva sempre così, ad ogni festa, ad ogni pranzo, ad ogni cena.

Teresa si limitò a dirgli:

«Ciao Gabriele, come stai? Che bell’uovo di Pasqua! E’cioccolato fondente o al latte?»

Come sempre, mancava la Corinna. Sembrava che il suo orologio fosse sincronizzato con il Meridiano di Greenwich poiché i suoi ritardi arrivano all’ora ed anche oltre.

Qualche giorno prima, Teresa mi disse:

«Perché alla Corinna non dici che l’appuntamento è alle dodici e un quarto?»

Mi parve un ottimo espediente. Ed eseguii.

La Corinna mi rispose:

«Non è un po’ presto?»

«Sì, ma Edmondo ed Evelina devono andare in parrocchia dopo aver mangiato…», fu la prima cosa che mi venne in mente.

Corinna suonò il campanello della porta quasi all’una e un quarto. Lo stratagemma di Teresa si dimostrò pienamente efficace.

E l’ultima ad arrivare esclamò compiaciuta:

«Aaaaah, vedo che siete tutti ritardatari!»

«No, cara! Noi siano stati puntuali» rispose l’inopportuno Tullio. Gli affondai un’energica gomitata per zittirlo.

La ritardataria, forse confusa, non rilevò il piano che Teresa ed io avevamo architettato.

Con la sua svestizione ci fu la rivincita di Gabriele: la Corinna stornò ogni attenzione da Rufo su di sè.

Iniziò la danza dei sette veli.

Si tolse una specie di colbacco in peluche, un modello da magazzini GUM sulla Piazza Rossa, allacciato al mento con dei bei pompom. La Corinna poi sdipanò dal collo e dalla tracolla, piena di cianfrusaglie, la sciarpa fatta a ferri mentre guardava Happy days e Star Trek. Il cappotto alla Mary Poppins era un orribile principe di Galles multicolore dal disegno gigantesco.

Potemmo infine ammirare il capolavoro di sartoria fatto dalla zia sarta che Corinna esibiva con evidente orgoglio: una gonna fino alle caviglie e un bolerino fatti di un vellutino nero con tante ellissi chiare grandi come un uovo. All’interno di ogni ellisse, un mazzo di fiori tenuto insieme da un nastro. Il colpo d’occhio era quello di un camposanto.

La Corinna mi mise in mano una casseruola sigillata con un coperchio:

«Ho portato i piselli al prosciutto per contorno…Scaldali aggiungendo un po’ d’acqua perché si sono asciugati».

Asciugati? Erano piselli in scatola strinati come caldarroste, una roccia vulcanica con qualche dadino di prosciutto annerito.

Io avevo preparato due dolci presi dall’Artusi: il budino di semolino e conserve di frutta, ricetta N.658, e le Tazzine, ricetta N.686, una gustosissima crema a base di mandorle tostate, tuorli d’uovo, cannella ed acqua di zagare.

Le lasagne di mia madre emanavano un odore inebriante.

Era freddo: si poteva mangiare e bere in allegria.

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