Zitti zitti, piano piano – Concerto con Piero Barone, Claudia Corona e Thiago Felipe Stopa

In pieno centro, attorniata dall’oceanica movida (brutto neologismo) universitaria, all’angolo tra Via Begatto a Via Armando Quadri è situata una piccola chiesa barocca, non più destinata al culto,  dedicata ai Santi Damiano e Cosma, che necessiterebbe di un restauro. In essa si svolgono diverse attività, perlopiù musicali, e in essa ogni tanto il maestro Fulvio Massa organizza dei saggi o concerti con i suoi allievi di canto. Con poche telefonate e qualche messaggio la chiesetta viene facilmente riempita con un pubblico intimo, al massimo di quaranta persone. Il clima che si crea è quindi allettante, simpatico, familiare, coinvolgente per via del contatto diretto con i cantanti.
Ieri sera Fulvio ha organizzato un bel concerto in cui si sono esibiti il soprano Claudia Corona, il baritono Thiago Felipe Stopa e il tenore Piero Barone. Ohibò! Piero Barone, il cantante del Volo? Una celebrità che si esibisce per amici? Sì è proprio così, proprio lui. I cantanti, prima di essere artisti, sono degli atleti – il canto si fonda, infatti, su un delicato equilibrio muscolare – che necessitano non solo di un allenatore ma anche di una persona di fiducia che effettui un controllo durante la carriera, vere revisioni, della tecnica di canto. Il concerto in questione oltre a esibire tre belle voci della scuola di Fulvio, è stata un’occasione per provare nuovi brani d’opera, per Thiago e Claudia, e per Piero di cimentarsi in un ambito esclusivamente lirico e davanti a un pubblico di appassionati d’opera, pubblico spesso severo, feroce e fazioso.
Pertanto, zitto zitto, piano piano, come se fosse una setta segreta, Fulvio ha radunato un pubblico ristretto che ha assistito a un concerto veramente di grande qualità; gli assidui frequentatori dei teatri lirici, non solo del Comunale ma anche di altri teatri non solo italiani, presenti hanno detto di aver provato maggior piacere per questo concerto amichevole ma organizzato con sincero impegno ed ottimi risultati.Questi sono stati i brani cantati:
I Puritani: «Ah! per sempre io ti perdei» – recitativo e aria di Riccardo
La Rondine: «Chi il bel sogno di Doretta» – aria di Magda
Cavalleria Rusticana: «Mamma, quel vino è generoso» – aria di Turiddu
I Vespri Siciliani: «Mercé, dilette amiche» – aria (Bolero) di Elena
Les Pêcheurs de Perles: «Au fond du temple saint», duetto Nadir – Zurga
Ernani: «Oh, de’ verd’anni miei», recitativo e aria di Carlo
L’amico Fritz: «Suzel, buondì», duetto Suzel-Fritz
La Traviata: «Parigi, o cara», duetto Violetta-Alfredo
I Lombardi alla Prima Crociata: «Se vano è il pregare», recitativo, aria e cabaletta di Giselda
Marechiare (Tosti), canzone
Lucia di Lammermoor: «Il pallor funesto, orrendo», duetto Lucia-Enrico
Bis:
La Traviata: «Libiamo, ne’ lieti calici», duetto Violetta-Alfredo.
E ora veniamo ai cantanti.Thiago Felipe Stopa è un baritono brasiliano che studia da quattro anni a Bologna con Fulvio Massa. Non ha solo una voce bellissima, ampia, estesa, da vero baritono, ma possiede nel timbro un qualcosa di indefinibile in grado di emozionare. Notevole è il legato che ricorda quello di un violoncello, per cui tutti i cantabili sono risultati di grande impatto. La pronuncia italiana è ottima.
Claudia Corona ha un timbro di prima qualità, voce molto generosa non solamente negli acuti, sicuri, squillanti e voluminosi, ma anche nel registro grave. Le agilità sono precise ed ha dei bellissimi trilli come se fossero eseguiti su un violino. Le mezze voci, anche sugli acuti, sono molto suggestive, ferme, così è in grado di fare dei contrasti di grande effetto come abbiamo ascoltato per tutto il concerto.
Piero Barone dal vivo, senza l’intermediazione dei microfoni, offre una voce di magnifica qualità: il timbro è assai ricco come quello di tenori di area spagnola (mi vengono in mente Fleta, Lazaro, Domingo e Aragall), gli acuti sono squillanti e facili, le mezzevoci sono dolci e avvolgenti, veramente ammalianti. Anche come interprete appare convincente che, all’occorrenza, sa essere dolce e appassionato. Si sente la mancanza sul palcoscenico lirico di una voce come questa.
Ottimo è stato l’accompagnamento pianistico di Marco Belluzzi.
E un bravo al maestro Fulvio Massa che, con i suoi insegnamenti e la sua esperienza, tramanda gli insegnamenti di Paride Venturi e Arturo Melocchi (che produssero due fenomeni come Mario Del Monaco e Franco Corelli).
Insomma una bella e godibilissima serata.

Placido Luciano

Successe che tanti anni fa, ero ancora adolescente, ascoltai per la filodiffusione, l’arioso ‘Amor ti vieta’ dalla Fedora di Umberto Giordano cantato da Placido Domingo. Tanto mi piacque che lo registrai e dopo quello tutte tutte le romanze cantate dal tenore spagnolo.
Domingo era già a quel tempo una celebrità -parlo dell’inizio degli anni settanta- come testimoniava la facilità con cui era possibile ascoltarlo senza andare a teatro, attraverso i dischi e la radio. Certamente Domingo non cantava al Teatro Comunale di Bologna; se avessi voluto ascoltarlo da vivo sarei dovuto andare al Metropolitan di New York, al Teatro alla Scala, all’Arena di Verona, al Covent Garden di Londra.
Le vetrine dei negozi erano pieni di opere e recital con Domingo così acquistai con la lauta paghetta settimanale di mia madre due bei cofanetti della RCA Victor, il Tabarro e la Tosca, entrambi con gli stessi cantanti Leontyne Price, Placido Domingo e Sherrill Milnes, il primo diretto da Erich Leinsdorf, la seconda da Zubin Mehta.
Per Domingo ebbi un vero amore a prima vista per via del timbro vocale ambrato, denso, corposo, eppure vellutato, specialmente nel registro centrale, come tante voci spagnole. Il timbro è il primo elemento, quello più immediato e quindi più elementare, a colpire l’ascoltatore, e le voci scure generalmente sono quelle che colpiscono di più. La voce di Domingo possedeva pure dei difetti – gli acuti larghi ma un poco faticosi, la dizione non molto scandita – che, a quel tempo, non rilevavo, attratto principalmente dalle caratteristiche timbriche.
Qualche tempo dopo acquistai la famosa Turandot della Decca con i mostri sacri del momento, Joan Sutherland e Montserrat Caballé. Mi svenai per quel cofanetto, che a quel tempo costava dodicimila lire, una cifra astronomica per uno studente di liceo. Credevo che Calaf fosse cantato da Domingo e, invece, trovai Luciano Pavarotti, di cui ancora non conoscevo la voce.
Mi piacquero le due rivali femminile e la direzione di Zubin Mehta ma non Pavarotti. Il suo timbro mi ricordava quello di Paperino anzi Donald Duck.
La voce era troppo chiara per i miei semplici canoni d’allora e possedeva, tutto sommato, caratteristiche opposte a quelle dello spagnolo: acuti facili ma stretti, dizione chiarissima.
Ed erano differenti quanto alle qualità artistiche: Domingo risolveva i personaggi dentro alla musica, essenzialmente nel canto, mentre Pavarotti, dando valore alla parola, sembrava calarsi maggiormente nei personaggi.
Dopo svariati decenni, tutto sommato, le mie preferenze non sono cambiate.
Ora però ritengo che entrambi ben rappresentano il declino dell’arte lirica, seppure a livelli assai alti. Il fatto che siano artisti universalmente noti non vuol dire che tutte cose siano allineate lungo la strada maestra. Per Domingo e Pavarotti se avessero cantato quaranta, cinquant’anni prima, sarebbe stato assai più duro guadagnare la pagnotta: a causa delle loro caratteristiche, fors’anche limitazioni, probabilmente non avrebbero avuto un gran seguito ai tempi di Aureliano Pertile e Beniamino Gigli e si sarebbero quindi dovuti regolare in maniera differente quanto a tecnica vocale.
Le carriere di entrambi, nate sulle tavole del palcoscenico, vennero amplificate dai dischi che d’altra parte sono stati, fin dalla loro comparsa, sono sempre stati fidi amici dei cantanti lirici; in tempi di poco più lontani si aggiungeva anche il contributo del cinema. Nulla di nuovo sotto il sole, se non il fatto che le case discografiche divenute multinazionali amplificarono a livello mondiale l’impatto di Domingo e Pavarotti sul pubblico.
E amplificarono i loro effettivi meriti.
Domingo ha avuto una carriera caratterizzata da diversi momenti di sbandamento e stanchezza vocale sia per la grande quantità di recite, la vastità del repertorio, ma anche per una tecnica non ineccepibile; come un’araba fenice la sua voce è però riuscita a rinascere schiarendo il timbro e sempre più accentuando una nativa nasalità per mantenere il suono falsamente in maschera. La parte estrema della carriera di Domingo, a cui stiamo assistendo, quale di baritono mi pare triste. E’ un tenore a tutti gli effetti che canta sulla tessitura più bassa del baritono e la voce è uguale a quella di prima, né più né meno. Le attuali prestazioni da tenoritono mi sembrano che siano utili solo per evitare le crisi di astinenza dei fan dominghiani, e soprattutto delle dominghiane non più giovani.
Pavarotti è stato da molti indicato, a mio avviso sommariamente, come erede dell’età d’oro del canto all’italiana. Abbastanza ferrato quanto a tecnica di canto, se da un lato nasceva come tenore dagli acuti facili, dall’altro lato trovava proprio in essi una limitazione sgradita al mio orecchio: dapprima gli acuti del tenore modenese il loro suono non ha mai avuto la larghezza, la cavata, che caratterizzava anche i tenori lirico-leggeri o lirici delle generazioni precedenti (penso, per esempio a Tito Schipa e a Giuseppe Di Stefano. Con il passare degli anni e l’allargamento del repertorio, la strettezza degli acuti di Pavarotti è aumentata -fino a che spesso ricordavano dei vagiti di un bambino- diffondendosi e deteriorando l’accativante timbro del registro centrale.
Le interpretazioni di Domingo sono sempre apparse un po’ generiche, senza uno stile che lo caratterizzasse univocamente, affidandosi alla sensuale attrattiva della voce e ad una buona credibilità scenica. Domingo, inoltre, è sempre stato in grado di stabilire un particolare rapporto con il pubblico, un’imponderabile energia, una fascinazione capace di catturare la festante benevolenza del pubblico anche nei giorni in cui la voce non pareva oggettivamente in forma, dote che possiedono solo i grandi artisti. Aggiungo che Domingo è una persona molto simpatica.
Pavarotti agli inizi della carriera veniva rubricato come tenore dalla bella voce ma, come Domingo, con intenti interpretativi generici. Il Modenese, col tempo, invece ha costruito furbescamente un proprio stile, molto personale, forse un po’ ruffianesco, ma tutto sommato nuovo. Pavarotti, in questo, è quindi una specie di capostipite che ha avuto, e ha, diversi imitatori. Come attore appariva zelante ma un po’ naïf, limitato dall’ingombrante figura e dalla fisionomia: certe espressioni facciali, certi atteggiamenti facevano sorridere. Anche Pavarotti aveva un ottimo rapporto con il suo pubblico. Per quanto mi riguarda, ho sempre detestato le incursioni di Pavarotti nella musica pop. Non sapeva cantare in maniera convincente nemmeno Mamma di Bixio-Cherubini. In Caruso di Lucio Dalla l’ho sempre giudicato inascoltabile.
Dal vivo, comunque, sia Domingo che Pavarotti mi hanno sempre convinto nonostante qualche se e qualche ma.
E rispetto alle mie preferenze vocali di quarant’anni fa?
Forse sarà una questione di imprinting adolescenziale, ma continuo ad avere preferenza per la voce di Domingo.

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