Il fattore K e la parabola delle mutande (Parte ottava)

Il terzo millennio iniziò male e proseguì peggio.

I Democratici di Sinistra, ovvero il PdS brillantemente riciclato da quella gran testa della politica di Massimo d’Alema, furono ridimensionati dai favori degli elettori, dimostrandosi di essere un partito in grado di perdere anche se avessero avuto in mano asso, tre e re.

Il Paese probabilmente, seguendo una strana cupio dissolvi, doveva essere governato dall’ex Cavaliere e dal suo amico ritrovato, il Senatúr.

E la Sinistra assisteva impotente. Con le proprie politiche e le strategie auto-lesionistiche, con le scelte degli uomini sbagliati, la Sinistra si mise di buzzo buono per rendere più facile la conquista del Governo alla Casa delle Libertà e della Lega Nord. I DS e Rifondazione Comunista ebbero la grave responsabilità di aver spalancato le porte e consegnato le chiavi dello Stato Italiano a questi parvenu di Centro-Destra, anzi Destra-Centro. Per tutto questo tempo la Sinistra non è pressoché esistita, se si esclude l’intermezzo del governo Prodi II.

Fatto fuori l’ultimo tovarish italiano Romano Prodi, il sugo di pomodoro dal vivido colore rosso che condiva la pastasciutta nelle gamelle della classe operaia fu sostituita da una salsetta via via più sbiadita e delicata – il Partito Democratico di Walter Veltroni – che non urtasse i palati dei nuovi elettori di sinistra non-comunisti, più avvezzi agli hamburger di McDonald’s. Anche i dirigenti del PD strabuzzavano gli occhi  di fronte al sostantivo «comunismo», il segretario per primo, mai stato comunista. Meglio il cinema americano.

Il filosofo materialismo storico, otto lettere in verticale. Boh? Sistemiamo qualche lettera con le definizioni orizzontali

America e solo America.

Del Fattore K ne parlava pateticamente solo il capo della Casa delle Libertà, minestrina riscaldata del Polo per le Libertà.

L’ex Cavaliere fu il trionfatore delle nuove elezioni politiche.

Il Governo Berlusconi II si insediò l’11 giugno 2001. Per dieci anni si rappresentò una commedia, quasi una farsa, intitolata la «Seconda Repubblica»,  due atti che ebbero Silvio Berlusconi come indiscusso mattatore. Impotente, inefficace, esclusa da ogni intreccio, l’opposizione non appariva nemmeno come comparsa, stava seduta in platea a guardare sgranocchiando spagnolette.

Incominciarono dieci anni di Passione per molti italiani, dieci anni di propaganda elettorale senza tregua. La Casa delle Libertà, la Lega Nord e gli altri satelliti della Destra, infatti, conquistato il Governo, non smorzarono i toni praticati durante la propaganda pre-elettorale. Berlusconi e i suoi peones governavano e contemporaneamente avevano atteggiamenti ed espressioni rissosi, arroganti, più consoni ad un’opposizione estremista, che non a quella di moderati liberali come si qualificavano.

Il luogo eletto per la politica diventò la televisione. Estenuanti e inconcludenti talk-show presero ad ospitare senatori e deputati a qualsiasi ora del giorno, politici non sempre telegenici la cui attività di elezione diventò quella di apparire in televisione per fare propaganda di basso rango e urlata, anziché partecipare ai lavori del Parlamento.

Il livello della discussione si abbassò drasticamente e gli uomini della Sinistra tennero loro bordone.

Quanto parevano lontani i tempi della televisione bernabeiana con la sonnolenta Tribuna Politica di Jader Jacobelli, dove tutti ragionavano con pacatezza, signorilità e bel linguaggio! Perfino un repubblichino come Giorgio Almirante in televisione diventava un mieloso gentiluomo.

Mi veniva una stizza infinita quando quotidianamente i telegiornali raccontavano degli incontri politici ufficiali che si tenevano in casa di Berlusconi, a Palazzo Grazioli. Palazzo Chigi N.2, una casa privata diventata sede del Governo della Repubblica. Pendeva pure il tricolore dal balcone sull’entrata principale. Per quanto mi riguarda, la stizza non derivava da invidia sociale, sempre sbandierata dai ricchi, per il patrimonio di Berlusconi. Penso semplicemente che le case private non possano ospitare il governo di un paese democratico.

Le stesse cose ritornano. Così Robert Musil intitolò la seconda parte de L’uomo senza qualità. Nel 2005, si ebbe il gran ritorno di Romano Prodi: sembrò nuovamente l’uomo giusto per sconfiggere il piazzista di Arcore. Il Mortadella, però, pretese che il suo nome fosse suffragato dal consenso popolare. Stravinse le primarie del Centro-Sinistra a dispetto dei santi e dei burattinai che muovevano i fili del suo partito, i Democratici di Sinistra. Vinse Romano Prodi, ma la nuova legge elettorale, il Porcellum di Calderoli, riservò al governo di Centro-Sinistra una risicatissima maggioranza al Senato e un’ampia maggioranza alla Camera. Intermezzo sempre faticoso e con il fiato sospeso, il Prodi II durò quasi due anni anche con l’ausilio di un manipolo di vecchietti quasi centenari, i senatori a vita.

Chi ha tanto denaro cosa fa? Compera di tutto, ville, libri antichi, reperti archeologici, gioielli, qualche Monet, l’ennesimo Van Gogh, le anime umane e…i senatori della Repubblica. Così fece l’ex Cavaliere, con qualche milione di euro comperò un senatore con il piacevole risultato riflesso di congedare un governo.

E il Prodi II finì tra libagioni con champagne e una mangiata con le dita di fette di mortadella.

L’epilogo del decennio berlusconiano, invece, avvenne durante la storica serata di sabato 12 novembre 2011. Il Berlusconi IV ebbe ufficialmente almeno due convitati di pietra, il Re-Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e lo spread a 553.

Ora una parabola per raccontare il berlusconismo.

Il protagonista della piccola, sciocca, parabola sono io, Aposello, nelle vesti di berlusconista ante litteram.

Un minuscolo lacerto della mia giovinezza.

Ogni forma di limitazione o divieto scatena un desiderio di trasgredire. Si sa.

La verdura involata dall’orto accanto sembra più buona di quella acquistata al supermercato, gli amori furtivi consumati con la moglie carpita all’amico sono più coinvolgenti ed eccitanti  di quelli consumati con la propria. Esistono trasgressioni per ogni categoria umana, c’è almeno un peccato che fa soccombere ogni uomo, anche il più retto.

Anche un collezionista di musica lirica? Sì.

Il collezionista si accontenta di poco, si appaga con un peccatino. Poiché, in teatro, allo spettatore è permesso solamente di ascoltare e guardare, la massima trasgressione, fonte di piacere, consiste nel recarsi in teatro con microfono e registratore per carpire compulsivamente i suoni di questo o quello spettacolo.

L’episodio che narrerò risale al mese di agosto del 1982, un’epoca in cui l’abile ex Cavaliere si accontentava di turbare gli italiani trafficando con mattoni, televisioni e carta stampata.

Mi recai con amici a Pesaro, al Rossini Opera Festival, per assistere alla ripresa di una bella Italiana in Algeri. Avevamo visto la stessa opera con gli stessi cantanti l’anno prima ed era talmente piaciuta a noi tutti che accorremmo con l’acquolina in bocca. Portai con me un bel registratore a cassette e un grande microfono argentato.

Trovammo posto in un palco. Qui i palchi sembrano dei salottini, le pareti sono dei séparé che non arrivano in cima al soffitto, così gli spettatori possono vedere attraverso il palchetto vicino.

Al Teatro Rossini, le maschere erano zelanti quanto le spie della Stasi. Entravano nei palchi scrutando in cerca di minuscole luci, allungando il collo con pose da equilibristi per meglio vedere.

Si abbassarono le luci, entrò il direttore d’orchestra e iniziò la sinfonia. Finalmente la maschera si ritirò e la registrazione poté iniziare.

Andò tutto per bene fino alla scena del Pappataci quando, improvvisamente, mi trovai davanti degli occhi che mi guardavano. Il gatto del Cheshire che mi guardava? No. La maschera della Stasi stava davanti a me, fissandomi immobile e muto.

Non mi scomposi, continuai a tenere il microfono in mano e il registratore sulle ginocchia come se lui non fosse lì. Rimase davanti a me non so per quanto tempo e poi si dileguò dal palco accanto. Ero libero e salvo?

In fretta e furia spensi il registratore prima che l’opera finisse, misi gli apparecchi nella borsa e i nastri registrati me li infilai nelle mutande. Proprio «lì».

Mi dissi:

«Qua  non verranno mica a cercare le cassette»

Terminò l’opera, applaudii la bellissima esecuzione, con gesti enfatizzati e ipocriti per darmi coraggio.

Gli amici che erano con me non si erano accorti dell’apparizione, li ragguagliai, allorché comparve la maschera, puntualmente come un raffreddore in inverno.

«Sa che non si può registrare in teatro? Mi deve consegnare i nastri»

«Guardi che io non ho nessuna registrazione», feci io risentito.

«Come no? Ho visto con i miei occhi che lei aveva il microfono e il registratore in mano. Su mi dai i nastri»

«E’ vero, avevo il microfono e il registratore in mano ma, le assicuro, che non stavo registrando»

«Come no? Mi prende per fesso?»

«No, in maniera assoluta. Anzi, facciamo così: questa è la borsa, può guardare liberamente. Se trova dei nastri, può prenderli!», risposi con sicumera, guardandolo bene in faccia.

Eravamo alla fine della partita.

«Aaaaah questa poi!»

Il tipo la prese persa e se ne andò.

Alla fine di questo sciocco racconto dirò poco. Mi limiterò a suggerire un’interpretazione.

Questo episodio di vita copre metaforicamente un po’ tutti i protagonisti di un abbondante decennio di politica, c’è Berlusconi, ci sono i berlusconisti, c’è la gente che gli ha dato aggio.

Berlusconi e il berlusconismo rispecchiano gli aspetti grigi degli italiani.

(Continua)

Il fattore K e il Curato da Bologna (Parte settima)

La Lega Nord si assunse la benemerita responsabilità di togliere la fiducia al Berlusconi I. Gliene fummo tutti grati. Al Senatùr sembrò  improvvisamente che il suo datore di lavoro non avesse più un gran aplomb morale. In vita mia, ho battuto le mani a Bossi una volta sola. Questa.

«Mai più con Bossi!», giurava e spergiurava uno.

«Mai più con Berlusconi!», spergiurava e giurava l’altro.

Seguirono cinque anni di litigi fitti tra i due e poi, nel 2001 – la politica è un dedalo di contraddizioni e mangiamenti di parola – l’ex Cavaliere ri-assunse il Senatùr nel suo progetto di partito-impresa. Di nuovo insieme, come i ladri di Pisa.

Dopo il Berlusconi I, seguì il governo tecnico di Lamberto Dini, già Ministro delle Finanze nel governo precedente, governo di centro-destra. E il mio partito di allora, il PdS, cioè il Partito della Sinistra già aggregatosi nell’Ulivo, sostenne questo bellimbusto. Con la faccenda del senso di responsabilità gli elettori di centro-sinistra hanno inghiottito anche questo brutto rospo. Vedendo la parabola di Dini in Parlamento, direi che si sia dimostrato un politico perlomeno double face.

Anche Dini rassegnò le dimissioni.

E si tennero le famose e storiche elezioni del 1996.

La Sinistra ha sempre sottovalutato la forza personale, politica, economica dell’ex Cavaliere e, soprattutto, la presa che aveva su buona parte del Paese. Sapeva convincere le persone semplici, ma…se le persone semplici votanti sono tante, facilmente si ottiene la maggioranza in Parlamento.

Per le elezioni del ’96, la Sinistra vinse la propria snobberia nei confronti del «più grande piazzista del mondo», come scrisse Indro Montanelli, organizzandosi per tempo poiché non doveva accadere che Berlusconi vincesse per una seconda volta.

Un altro ex bolscevico per la corsa al soglio di Capo del Governo? No, il Belpaese era impreparato e questo avrebbe generato un nuovo buco nell’acqua: gli italiani non erano stati mollati dal Fattore K, nonostante la rassicurante presenza del nuovo segretario del PdS, Massimo d’Alema, abile timoniere con la bussola orientata verso la socialdemocrazia europea.

Si pensò di affidare il «gran cimento» a un democristiano mai iscritto alla DC, Romano Prodi, bolognese solo per adozione perché nato a Scandiano, paese natale di  Matteo Maria Boiardo.

Tutti i post-comunisti avranno emesso ciangottii disorientati:

«Ma come? Votare un democristiano? Siamo di sinistra oppure…»

Qualcuno dei frastornati elettori di sinistra trovò rassegnata consolazione pensando che Gesù Cristo fosse il primo comunista della storia.

Se Berlusconi era un demone proteiforme, il Professor Prodi pareva un curato di campagna in grado di pronunciare efficaci esorcismi per scacciarne la presenza maligna.

Dopo l’affaire di Mani Pulite, parevano opportune nuove formazioni politiche che non richiamassero esplicitamente alcun vecchio partito, almeno di primo acchito.

Il Curato proveniente da Bologna creò un nuovo soggetto politico, L’Ulivo, un accordo, una coalizione di governo dal bel nome, semplice, luminoso, sereno, evocativo di lontane suggestioni mediterranee, la Magna Grecia, gli albori della democrazia. Un buon inizio. Con esso si voleva esprimere un messaggio preciso: «noi siamo brava gente, noi siamo diversi, noi abbiamo antiche radici, noi portiamo la pace vogliamo unire il paese».

L’Ulivo si trovava a sfidare il Polo per le Libertà, formazione di centro-destra orbitante intorno all’Illusionista. Denominazione assai lontana dalla tersa semplicità dell’Ulivo.

Libertà. Che bella parola! La libertà è la condizione di essere libero. L’opposto della costrizione e della coercizione.

«La Libertà» rappresenta anche un’idea, una categoria dell’Essere e dell’Etica. Se declinata al plurale, «le Libertà», la parola perde, allora, d’astrattezza e descrive la vita reale. Il plurale ci suggerisce che vi sono tante libertà, libertà di parola, libertà di pensiero, libertà di religione e così via.

E Benedetto Croce chiosò scrivendo che «La libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale».

Libertà, bella parola se viene proferita dalla bocca giusta.

Che intendeva richiamare il Centro-Destra con questa denominazione? Le libertà costituzionali? Macché, nulla di tutto questo…magari.

Il Polo per le Libertà evocava, come in una seduta spiritica, fantasmi, la privazione della libertà che derivava dal Comunismo e dai comunisti, sfruttandone le paure che tutto questo ancora generava. La nuova formazione politica non poteva certamente ergersi a baluardo contro tutte le dittature e di tutti regimi autoritari, il fascismo, perché sotto l’ombrello del Polo per le Libertà stavano, appunto, anche i preziosi discendenti dei fascisti.

Ancora il Fattore K. Per dividere.

Secondo i sondaggi pareva che la Sinistra non ce la potesse fare.

Don Romano da Bologna si rimboccò la tonaca. Non fece comizi. Durante il 1995, viaggiò per la penisola in lungo e in largo su di un pullman esibendo la rassicurante faccia paciosa.

«Comunista io? Ma guardatemi bene», sembrava voler dire.

Ascoltò, parlò con le persone e ne strinse le mani perché alla gente piace avere un contatto diretto con i notabili.

La propaganda elettorale dalle piazze si spostò in televisione. Durante queste elezioni iniziò la stagione, non ancora trascorsa, della politica nei talk-show. Ci fu perfino lo spazio per due «faccia a faccia», come suggeriva il nuovo sistema elettorale pseudo-maggioritario, tanto per sentirci un poco americani. E il buon Romano, dal punto dell’efficacia televisiva, funzionava egregiamente quanto l’ex Cavaliere.

Come andarono le elezioni? Rispondo storpiando il famoso motto di Machiavelli, cioè la fine giustifica i mezzi: vinse il Centro-Sinistra, per meglio dire, Berlusconi non ebbe il Governo. La maggioranza alla Camera dei Deputati era, però, assai risicata, solo sette voti in più, con l’appoggio esterno di Rifondazione Comunista derivante dai lungimiranti patti pre-elettorali tra Prodi e la coppia Bertinotti-Cossutta.

La vittoria del Centro-Sinistra fu una conseguenza del Mattarellum e, soprattutto, dell’incomprensibile miopia tattica di Bossi, che decise di far correre la Lega da sola.

La bomba di Berlusconi fu deviata da una casuale folata di vento e non disinnescata dalla forza politica della parte sfidante.

I voti reali raccontavano, infatti, un’altro Paese.

La coalizione dell’Ulivo alla Camera dei Deputati ebbe quasi cinquecentomila votanti in meno rispetto al Polo per le Libertà nella quota maggioritaria. Non solo: sommando i voti del Polo per le Libertà e della Lega Nord, il Centro-Destra aveva la maggioranza nel Paese.

Il Fattore K era ancora presente nell’inconscio collettivo degli italiani.

L’ex Cavaliere, da eccellente venditore, conosceva i propri polli e aveva un buon fiuto.

Fatti tutti i conti elettorali, dichiarata la vittoria elettorale del Centro-Sinistra, la sera del 23 aprile 1996 ci fu la festa per L’Ulivo in Piazza Maggiore. Piazza gremita di gente, gente che intravvedeva un nuovo futuro con persone oneste, concordia ed equità sociale.

Arrivò il Curato e impartì la sua benedizione. La Piazza andò in visibilio e tanti piansero di gioia. Pure io e la Bruna.

Avevamo vinto e questo bastava.

Nessuno in quel momento, però, pensò che eravamo nati comunisti e che alla fine dei giorni saremmo diventati tutti democristiani.

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