Tre millantatori all’Opera – Lezioni di canto (Parte prima)

Il tempo mi ha elargito obiettività e distacco.

Feci bene ad abbandonare il canto dopo qualche mese di lezione con il tenore Floriano Mantovani. Vedreste di buon occhio un matrimonio celebrato nel pieno di una cotta o dopo la prima notte d’amore?

E poiché alla fine dell’amore c’è sempre sofferenza, il miglior rimedio, per non patire troppe pene, pare fuggire dall’amore.

Così feci io.

Il tempo mi ha forse lasciato rimpianti o nostalgie?

Nulla, né gli uni né le altre.

Tra l’invaghimento per l’opera lirica e cantarla non vi era alcun nesso necessario.

Caro lettore, smisi di cantare perché non mi sentivo e non ero portato per quest’arte effimera. Smisi, però, anche di scantarellare, come si conviene allorché i lievi giochi giovanili lasciano spazio all’ingombro dei giorni maturi.

Mi è rimasto il piacere per la musica, sempre grande amica.

Per qualche settimana, quindi, ogni pomeriggio del sabato, secondo i patti pasquali, Rufo mi spiegò i rudimenti del canto. Quante idee sbagliate avevo in testa sulla tecnica vocale! E tutte apprese proprio con la lettura delle recensioni discografiche e dei libri pubblicati da Rodolfo Celletti. Passaggio di registro, respirazione diaframmatico-costale, suoni avanti, suoni indietro, colpi di glottide, suoni poitrinè, suoni in maschera. Con questi tecnicismi, Celletti ci privò del piacere dell’ascolto. Ci tolse lo stupore del teatro.

Leggevo e ascoltavo. E tentavo di collegare le mute parole sibilline scelte sulla carta ai suoni delle voci ascoltate dai dischi per distinguere il giusto dallo sbagliato, il bravo cantante dallo scalzacane. Per un tipo intraprendente com’ero io, questo poco diventava tanto e pareva bastare per saperne di canto.

Durante le lezioni, Rufo con ferma simpatia mi faceva ripetere i vocalizzo finché i suoni non presentavano la parvenza di un qualche miglioramento.

Mi diceva frequentemente:

«Sì, è meglio ma ora rifacciamo».

Il suono era effettivamente migliorato? Oppure Rufo, con gentilezza, intendeva che avevo emesso un suono uguale al precedente? Che continuavo a sbagliare?

E ripetevo, e ripetevo.

Scale, arpeggi, lenti e veloci, suoni presi piano e rinforzati.

Poi dei vocalizzi sillabici e melismatici:

Mi-e vo-ci mi-o di-i-i-i-ooo .

Ed ancora:

Vièni all’a-a-a-al-baaa.

Quale fu il primo pezzo da studente di canto?

Le mie velleità di tenore lirico spinto e drammatiche furono energicamente bacchettate.

Niente Aida, Forza del destino, Carmen, Otello.

Macché. Mai e poi mai.

Occorreva scrollare di dosso il passato per nascere a nuova vita. E il nuovo doveva essere rappresentato da qualcosa di materiale. Acquistai, così, il Metodo pratico di canto italiano dell’illustre Nicola Vaccaj.

La mia prima aria durante le lezioni con Rufo fu il N.1 del Metodo, un’alternanza di versi senari e quinari, quasi una sciarada presa dalla Pagina della Sfinge

Manca sollecita

Più dell’usato,

Ancorché s’agiti

Con lieve fiato,

Face che palpita

Presso a morir.

E invece Vaccaj prese in prestito quest’arzigogolo non da Bartezzaghi ma da un celebre libretto metastasiano, il Demetrio.

Manca sollecita mi pareva un’arietta insignificante come le prime esercitazioni di tutte le arti e discipline. Era fatta di semplici scale per mettere a fuoco il suono della voce e la cura del legato. I mattoni del canto.

Passare dallo scantarellare le mie operone allo studio del Vaccaj era una retrocessione mica da poco, come giocare dapprima nella serie A per approdare agli allenamenti in qualche squadretta di calcio parrocchiale.

Il N.2 del Vaccaj, un poco più vivace di Manca sollecita , riguardava gli intervalli di terza. Sempre estirpato dal medesimo celebre libretto di Metastasio, io lo avrei intitolato “Dalla padella alla brace”:

Semplicetta tortorella

Che non vede il suo periglio

Per fugir dal crudo artiglio

Vola in grembo al cacciator

Non andai oltre queste due arie del Vaccaj perché Rufo ritenne che fosse venuto il tempo di fare l’audizione con il suo maestro. O forse aveva perso la pazienza e l’interesse perché non riusciva a cavare un ragno da un buco?

Mi misi d’accordo con Rufo per andare da Mantovani al termine di una sua lezione di canto. «Sembra una pera con un parrucchino in cima», mi dissi vedendo il maestro di canto. Rufo era venuto ad aprirmi la porta e l’altro gli stava dietro.

Gli occhietti azzurri del maestro avevano uno sguardo placido, sornione, accentuato dalle palpebre pesanti. Si risvegliavano brillanti e puntuti per battute di spirito, meglio se salaci ma senza manifeste volgarità. Era un uomo di una volta con indosso vesti provinciali innocentemente ipocrite.

Nell’animo di Floriano Mantovani albergavano solo cose semplici.

E con semplicità se ne andò qualche anno dopo.

Il medico gli prescrisse una cura radiante come unica strada per arrestare un male incurabile che colpisce il solo genere maschile. A lui la diagnosi non venne rappresentata nella sua reale severità perché troppo ansioso, troppo attaccato alla sua semplice vita. Se avesse conosciuto la verità, la tempesta di disperazione gli avrebbe nuociuto prima del tumore. Una bugia terapeutica a cui Mantovani credette.

Sopportò la cura con fatica e non sospettò mai che il proprio male fosse qualcosa d’altro.

La corsa di Floriano Mantovani aveva rallentato ma non cambiò meta.

Io e Rufo andammo a trovarlo in ospedale qualche giorno prima della fine.

Era solo.

Dormiva in un letto d’alluminio protetto dalle sponde come un bambino, coperto alla meno peggio con lenzuolo in disordine e gualcito. Indossava un solo camiciotto, non aveva nemmeno il suo parrucchino. A che serviva ormai?

Sul comodino, un bicchiere di plastica bianca con un dito di tè sul fondo e una cannuccia. Per morire non occorrono molte robe.

Dischiuse appena gli occhi, la morfina gli rendeva le palpebre pesanti come dei macigni, sembrava che la luce fosse una dolorosa intrusione.

Disse una sola frase con un filo di voce rauca senza espressione:

«Ragazzi, com’è difficile morire». E riprese il suo sonno drogato.

Solitamente io giungo agli appuntamenti con un po’ di anticipo. E questo accadde anche il giorno in cui conobbi Floriano Mantovani, il mio unico insegnante di canto. Cosicché potei ascoltare Rufo nel finale di Quando le sere al placido e, soprattutto, i consigli del maestro. Questa romanza dalla Luisa Miller di Giuseppe Verdi costituiva il suo cavallo di battaglia, perciò sapeva bene ciò che voleva e come ottenerlo.

In suono angelico,

“T’amo” dicea.

Ah! mi tradia! Ahimè!

Mantovani faceva gli appunti a Rufo con toni sopra le righe, come se stesse recitando, o innaturali, come se volesse far bella figura sapendo di essere osservato da un estraneo. Contemporaneamente mi osservava dal pianoforte con la coda dell’occhio. Anzi, mi sentivo uno sguardo aggiuntivo addosso provenire dalla nuca di Mantovani, perforando lo spesso parrucchino.

Il maestro di canto sedeva davanti al pianoforte verticale, ricoperto da una folla di colorate bamboline da souvenir, pronte a cadere per le vibrazioni degli accordi. Sembravano colpite dagli spari nel tiro a segno di un luna park. E le rimetteva in piedi con scrupolo, interrompendo la lezione.

«Attenzione! Devi arrotondire dalla ‘A’»

E Mantovani cantò a mo’ d’esempio:

«O-o-imo-òoo…O-o-imo-òoo. Avanti. Prova. Arrotondisci».

Rufo capì immediatamente e corresse il colore delle vocali nel finale della romanza, però, a questo punto, il maestro si girò sullo sgabello del pianoforte verso di me.

«Dal fa diesis in poi», e fece una pausa suonando coll’indice la nota, «il tenore deve sempre arrotondire altrimenti il suono in alto si spacca».

Fece un cenno a Rufo affinché ripetesse la chiusa della romanza verdiana.

«Ecco, non devi dire ‘A’ ed ‘E’ siccome parli. Quando sali verso gli acuti è come che tu fasti delle ‘O’ al posto delle ‘A’ e delle ‘E’. M’hai compreso?».

«Più o meno…Ma sa, tra il dire e il fare…», risposi divertito per la serie di strafalcioni che brillavano come perle. Lo guardavo reprimendo il riso. Mantovani era un tipo pittoresco, un personaggio perfetto per il teatro dei burattini.

«Tu vuoi cantare, vero?» mi domandò Mantovani.

«Non so, sì, forse…Mi piace molto l’opera e canto a casa per divertirmi», risposi.

«Che cosa fai? Studi?»

«Sì, studio fisica. Mi manca poco per finire. Ora sto preparando la tesi di laurea».

«Diventerai un dottore della mutua?», domandò il maestro con un sorriso disorientato. Evidentemente non sapeva cosa fosse la Fisica.

Tentai l’ardua impresa di spiegare per sommi capi a Mantovani, persona dagli orizzonti saldi ma semplici, che cos’è la Fisica.

«Allora, visto che te sei un letterato, uno di questi giorni mi spiegherai perché le pietre sono così».

Le mie quattro parole gli fecero capire, almeno, che non sarei diventato medico e che la Fisica mira al fondo delle cose.

E continuò:

«Ho finito di torchiare il tuo amico. Ora sta a te. Alzati e fammi sentire la tua voce. Sei bravo a cantare?»

«Non so. Mi deve giudicare lei», risposi.

(Continua)

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte terza)

«Ora sta a te. Cosa ci canti di bello?», mi chiese Tullio.

«L’ Addio alla madre», gli comunicai.

«Auguri…», commentò quello.

Il tono esprimeva chiaramente disapprovazione.

«Contento tu…», sembrava voler dire Tullio.

O ancor più:

«Se t’andrà male sarà peggio per te».

In un battibaleno sentii il motore andare al massimo dei giri. Avrei potuto prendere il volo.

Tanta agitazione, e poi, all’improvviso, più nulla. Caddi in preda alla calma e all’indifferenza che precedono un’esecuzione capitale.

Le scantarellate, direte voi, non avrebbero forse dovuto essere un divertimento? Un gioco?

Attaccai la romanza di Mascagni:

Mamma,

Quel vino è generoso, e certo

Oggi troppi bicchieri

ne ho tracannati…

Cantavo per una strana platea.

Edmondo si allungava su di una sedia accostata al muro per far defluire il pranzo, controllando ripetutamente l’orologio al polso.

Tutti gli altri stavano disposti intorno al tavolo da pranzo.

Tullio era freddo e immobile come una statua.

Evelina scarabocchiava i fogli di carta del Gioco dei nomi. La Corinna, con gli occhi semiaperti, pareva in deliquio.

Gabriele fissava l’ultimo rottame di uovo pasquale rimasto nel piatto. Fece per prendere il pezzo di cioccolato, ma Rufo, predatore infallibile,  zac, fu più veloce di lui.

Allorché giunsi a cantare

E poi… mamma… sentite…

S’io… non tornassi…

Voi dovrete fare

Da madre a Santa, Edmondo s’alzò di scatto per recarsi in cucina.

Lo scorsi lavare al lavandino il tegame con cui aveva portato l’arrosto.

Le sue spalle sobbalzavano: rideva.

Lavava la teglia e rideva di me.

In quel momento Edmondo rideva però a non me non fregava niente. Dovevo andare avanti. Mancava poco per terminare la romanza, ma la strada rimasta ora presentava una salita repentina e ripidissima: la semibreve del si bemolle sulla «a» di S’io non tornassi… con quasi una corona. Mascagni indicò sullo spartito «a piacere» perché, su questa nota, il tenore dovrebbe fare sfoggio delle sue capacità. Sul palcoscenico, con questa nota Turiddu si gioca tutto.

Un bacio, un bacio, mamma!

Un’altro bacio…

Addio…

S’io non tornassi…

Ed io steccai il si bemolle.

Clamorosamente.

Una stecca, forse più un raglio d’asino.

Un brivido elettrico giù per la schiena mi riportò tra i vivi.

Sentii bene che Edmondo, scuotendo la testa, commentò e rise:

«Ooosssignùr…hohohooo»

Ero bollente, sudato, rosso in faccia. Mi sentivo un febbrone da broncopolmonite.

Non ce la facevo più e piantai lì le ultime frasi della romanza.

Tullio mi fece la morale del grillo parlante.

«Beh, se tu avessi cantato L’ultima canzone questo non sarebbe successo…», in altre parole chi troppo vuole nulla stringe, oppure chi è causa del suo mal pianga se stesso.

Quanto mi urtavano le paternali! E quanto mi urtano ancora!

Tutto vero. Con la romanza di Tosti non avrei corso pressoché alcun rischio di fare una stecca.

E si rivolse a Rufo con un lieve ammiccamento sardonico:

«Non si può certamente dire che lui abbia una voce pallente…»

Rufo non gli diede ascolto e si rivolse a me:

«Dai, non fare quella faccia arrabbiata. Capita a tutti di steccare!»

Ma a me, più della stecca, pesavano come macigni le risate di Edmondo. Il tegame era stato un pretesto per ridere liberamente, pensando di non essere visto.

Ora quello stava nuovamente seduto davanti a me. Come se nulla fosse successo.

Si risvegliò la Corinna:

«Rufo, sta a te! Sei l’ultimo. Cosa ci canti?»

E Tullio:

«Ci fai l’Esultate? Hihihi…»

Evelina alzò la testa dal foglio scarabocchiato ed esortò Rufo con la consueta prosaicità:

«Avanti, su, Pieranti, scanterella mo’ in fretta, così faccio qualche peccato con la vista prima di andare in Parrocchia a confessarmi…non ho mai niente da raccontare al prete!»

«No, l’Esultate no. Faccio La donna è mobile», rispose Rufo.

«Ho comprato il Rigoletto da poco» disse la Corinna in dodici toni. «La signora Salizzoni aveva l’edizione migliore a poco, quella con Fischer-Dieskau, la Scotto e Bergonzi», fini sproloquiando senza che nessuno le desse retta.

Rufo bevve un sorso d’acqua e finalmente s’alzò in piedi.

La donna è mobile

qual piuma al vento

muta d’accento

e di pensiero…

Caro lettore, ben saprai quanto sia facile descrivere il Brutto. Bastano poche pennellate di difetti. Tutto il resto non conta.

Le parole tendono al Bello ma sono incapaci di renderlo appieno. Un bel volto, un bel corpo, vengono descritti con labirintiche fiumane verbali però quello che gli occhi vedono è altra cosa.

Le parole ci permettono di dire ‘bel profumo’, ‘brutto odore’, ‘ bel tepore’, ‘un brutto sapore’. Queste commistioni di parole che non c’entrano nulla sono una sinestesia, una figura retorica, ma nessuno penserà mai che siano reali. Non esprimono un’ effettiva bellezza. Un profumo non può essere bello perché non lo vediamo.

Le orecchie sono privilegiate. La bellezza, infatti, spunta tra i suoni e, ancor più, è visibile nella musica.

Qualcuno di noi avrà apprezzato maggiormente, e quindi trovato più bello, il suono di un particolare violino o di un pianoforte rispetto a un altro. Così come tutti avremo detto, almeno una volta, d’aver ascoltato sia musiche belle che musiche brutte.

I bei suoni e le belle melodie, però, sfuggono alle descrizioni più di un bel volto.

Quali parole possono descrivere la bellezza di una voce? I frequentatori di teatri e delle sale da concerto spesso tentano la strada del confronto, fidandosi della memoria. I discorsi tra melomani? Tante Torri di Babele senza senso. Afasie nei foyer teatrali. Confronti inutili, tant’è che pare d’avere ascoltato cantanti totalmente differenti in giorni differenti.

Per la voce di Rufo, ogni confronto era inutile, perché non assomigliava a nessun’altra voce rubricata come bella. Pareva bella quanto quella di Giacomo Aragall o Giuseppe Di Stefano, ma non assomigliava né all’uno né all’altro.

La voce di Rufo aveva un timbro nuovo e non reincarnava nessun altro tenore. Apparteneva unicamente a lui.

Un grande giornalista, Rodolfo Celletti – a quel tempo in gran voga, tanto da essere per tutti noi un evangelista – astrologò una particolare metafora dal sentore buddista volendo descrivere la voce di Magda Olivero. Dura sfida. Non vantando un colore vocale particolarmente attraente, una limitazione per i detrattori, la penna abile e astuta del critico scrisse che Magda Olivero, con una voce in bianco e nero, riusciva ad evocare tutti i colori dell’arcobaleno. Furono le più belle parole mai scritte per descrivere un cantante. Evviva!

Non posso seguire le orme della metafora di Celletti. Sarebbe questo fuori luogo perché la voce di Rufo era piena di colori che si percepivano a mano a mano. Come accade nei profumi, le varie fragranze della voce – testa, cuore e fondo – si sprigionarono nel breve tempo della romanza.

Ci sarebbero volute le parole all’apparenza senza senso della Corinna per rappresentare la voce di Rufo.

Delle scemenze per descrivere la bellezza?

La voce, quindi, a me parve bellissima e squillante.

Certo,  da un lato Rufo  doveva ancora migliorare dal punto di vista tecnico – era ancora giovane –  dall’altro lato, ciò che mancava per essere un tenore coi fiocchi in quel momento non aveva alcuna importanza.

Finita la canzonetta del Duca di Mantova, Evelina sintetizzò immediatamente con il garbo che la contraddistingueva:

«Oooh, Pieranti… soccia te sì che c’hai una bella voce. Cazzarola, se farai strada».

Ed io:

«Peró…Questo qua mi aveva detto che la tua voce era bella» dissi serio a Rufo, indicando Tullio, «Ma, come sempre, questo qua non capisce mai nulla».

E terminai fissandolo negli occhi per esprimergli la mia sincerità:

«La tua voce è bellissima, una delle più belle che abbia mai ascoltato».

Rufo sorrise e corrispose allo sguardo a suggello dell’inizio di una profonda amicizia.

La Corinna non fece alcuna metafora con curve e controcurve:

«Accipicchia. Se ti sentisse mia madre! Verrai anche tu a mangiare le tigelle, vero?»

Il mentore di Rufo non stava nella pelle, il sorriso gli congiungeva le orecchie, gli occhi sbrillucicavano.

«Rufo Pieranti…ora facci sentire l’Esultate, avanti avanti!».

L’Esultate è pur sempre l’Esultate, un feticcio per la maggior parte dei melomani.

Il tenore finalmente cedette:

Esultate! L’orgoglio musulmano

sepolto è in mar.

Nostra e del ciel è gloria.

Dopo l’armi lo vinse l’uragano.

La platea davanti a Rufo diventò festante come tifosi allo stadio.

Applaudivamo tutti. Avremmo voluto putipù, triccheballacche e scetavajasse.

Erano passate le cinque del pomeriggio. Pesanti nuvole plumbee oscuravano il cielo ma non pioveva.

Per mangiare, avevamo mangiato. Per giocare, avevamo giocato. Per scantarellare, avevamo scantarellato.

La festa si avvicinava al termine.

Edmondo guardò l’orologio: finalmente era l’ora di andare. Evelina lo seguì più per opportunità, il passaggio in automobile, che per sincero bisogno di andare in chiesa.

Rimasero quattro ospiti ancora per un po’. Sarebbero usciti tutt’insieme poiché abitavano a poca distanza l’uno dall’ altro.

Le parole di Rufo avevano decisamente ridimensionato il dramma della mia stecca. Cantare la Cavalleria Rusticana era stato un azzardo, e non tutti gli azzardi hanno una fine felice.

Mi pareva una figuraccia appartenente a un passato lontano anche se era successa non più di mezz’ora prima.

Ormai lontana per me, ma non per Tullio. Questi si rivolse al suo protetto indicandomi:

«Rufo, pensi che sia possibile correggere i suoi problemi di intonazione?»

In parole piane, Tullio domandò se mai sarei riuscito a non stonare.

La stecca, in confronto, appariva poca cosa. Semplici parole ma efficaci come una bomba che esplode nelle cantina di una casa.

Rufo prontamente rispose alla domanda:

«Certamente. E’ possibile. Occorre impostare bene la voce. Se non si canta nella posizione giusta, l’intonazione può essere sbagliata».

«Aaaaah, tu pensi?», chiese Tullio quasi dubbioso.

Rufo rispose seccamente:

«Non lo penso io»

E scandì:

«E’ co-sì»

«Meno male, allora», fece Tullio. «Ecco…Mi sembrava strano dal momento che lui conosce bene la musica. Non capivo il motivo di tutte queste stonature». E continuò a interessarsi per me: «Pensi che il tuo maestro di canto lo prenderà a lezione?»

«Sì, Floriano Mantovani lo prenderà. Ma prima studierà un po’ con me»

«Ti va?», mi chiese Rufo sorridendo.

Io assistevo immobile a questi discorsi.

Paralizzato per l’umiliazione.

Tullio applicò a me un suo principio, cioè che la verità deve essere sempre detta così com’è, senza fronzoli e arzigogoli. La verità nuda e cruda, però, non sempre cura, corregge o salva. Tutti lo sanno: la verità può diventare un’arma spietata per colpire nel punto di maggiore debolezza.

Per quanto mi riguarda, non avevo alcuna seria velleità di fare cantante. Il canto non era una vera debolezza da poter bersagliare. Ben sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di salire su di un palcoscenico, nemmeno se avessi avuto la migliore voce al mondo. Cantavo per divertirmi, un gioco adolescenziale che si stava protraendo nel tempo, insomma.

Dove si piantò la freccia scoccata da Tullio? In quale parte di me?

Ferì l’amore per me stesso, umiliò la mia dignità.

Compresi che, cantando, venivo deriso.

Edmondo aveva riso di me, e in casa mia.

La domanda di Rufo, se m’andava di studiare canto con lui, mi distolse da questi tristi pensieri.

Il suo sorriso era una mano tesa. Ed io annuii con un sorriso.

Avevo trovato il mio primo maestro di canto.

Erano le sei passate. I quattro si alzarono per prendere i loro cappotti.

La Corinna sulla porta barcollava confusa come non mai. La sua parlata dodecafonica mi restituì il buonumore:

«Mi sono scappellata per le risate»

«Scappellata! Ahahah…ma che dici, Corinna?», feci io.

«Uuuuuh…non capisco»

«Te lo spiegherò con calma…ma solo se tieni lontano tua madre dalla cornetta del telefono!»

Guardai Rufo scendere le scale per ultimo.

Pensai tra me e me:

«Eeeeeh sì, è proprio un bel paltò da tenore!»

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