Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte seconda

Alfredo non aveva denaro; nessuno, nemmeno il figlio, dimostrava interesse per lui, solo mio babbo. Abitava nel mio stesso palazzo in un tugurio, un basso ripostiglio, un’intercapedine tra due piani, a cui si accedeva per traverso da due gradini, dove era costretto, lui abbastanza alto, a camminare curvo; senza controsoffitto, senza luce elettrica, di giorno la luce veniva da una piccola finestra rettangolare e quando imbruniva da una candela stearica in una bugia metallica smaltata; i mobili erano un tavolo, una sedia impagliata, una branda, un piccolo armadio e una stufetta elettrica. Non aveva cucina né servizi igienici: si cuoceva il pasto in casa nostra (acquistava essenziali spartani alimenti a poco prezzo e senza marca, pasta, tonno, conserva di pomodoro, olio, fagioli presso una cooperativa di consumatori, progenitrice di un attuale colosso che da tempo ha perso di vista gli scopi delle origini di mutualità) così come veniva a svuotare il pitale ed espletare gli altri bisogni corporali; per la cura del corpo si recava in un bagno diurno in via dell’Indipendenza, di cui è rimasta memoria solo nel pavimento dinanzi all’entrata, accanto al cinema Metropolitan che, anch’esso, non esiste più. Amava tanto i libri, presi in prestito dalla biblioteca popolare vicino a casa nostra, leggendo appoggiato al tavolino sotto la finestra oppure a lume di candela.

Una permanente foschia di sigaretta, cupa atmosfera densa da sembrare di un altro pianeta, rendeva difficoltosa entrando la respirazione e faceva lacrimare gli occhi. E le inseparabili sigarette, sesto dito della mano destra, furono il comune filo di destino che legò il babbo ad Alfredo: giorno dopo giorno l’acre fumo bluastro li condusse, a una settimana di distanza, alla morte, il primo per infarto cardiaco, l’altro per complicazioni dell’enfisema polmonare.

Sia Riccardo che Alfredo furono determinanti nella nascita della mia passione per la musica, in particolare modo per l’opera lirica, raccontandomi le trame, descrivendomi le scene, comprandomi i dischi seguendo ognuno i propri gusti musicali: mio babbo prediligeva il melodramma romantico, per cui mi regalò La traviata, Rigoletto, Il trovatore, Norma, Otello, Carmen, mentre Alfredo, amando Puccini e il verismo, nonostante che di fatto fosse povero, trovò il modo di regalarmi La bohème, Andrea Chenier e Cavalleria Rusticana. Anche la politica li trovava divisi in discussioni inconciliabili essendo Alfredo comunista mentre mio babbo socialdemocratico. Avevano vissuto il fascismo e subito l’inquietudine divisiva della sinistra italiana.

Ritornato dalla guerra Riccardo, sopravvissuto alla Spagnola, iniziò il lavoro di fumista insieme al cognato in una bottega nei pressi del Canale di Reno, in Borgo delle Casse, quella che sarebbe diventata, in anni fascisti, via Roma e poi, in epoca repubblicana, via Guglielmo Marconi. Tutta la zona fu interessata da imponenti sventramenti che dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, per cui dell’edificio, sicuramente modesto, dove era situata la bottega, si ha memoria solo nelle piante catastali.

Riccardo aveva sposato Alda, che tutti chiamavano Aldina, una ragazza più anziana di un anno: lei donna assai mite e religiosa, lui donnaiolo impenitente e inquieto, costituirono una coppia che nonostante tutto durò per più di trent’anni, fino alla morte di lei nel 1952. Aldina non potè avere figli in seguito a un incidente stradale; i due non si persero d’animo e con affettuosa generosità crebbero sette bambini assegnati alla loro tutela. Uno di essi, un suo grande ritratto stava appeso ai muri di casa, ricorreva nei discorsi del babbo, Cicci, ma il cui vero nome era Silvano; era un bambino molto intelligente, eccelleva a scuola tanto che il babbo, appassionato di arte medica, avrebbe sperato per lui, una volta diventato grande, una carriera come chirurgo. Il destino non fu benevolo con Cicci poiché se ne andò in cielo poco più che decenne, infrangendo i sogni di mio babbo. I ricordi ricorrenti su Cicci probabilmente insospettirono mia mamma che gli espresse chiaramente quanto pensava: «secondo me Cicci era tuo figlio» e lui di rimando «sta’ zitta, tu sei quella che sa tutto!» Evitare di rispondere ha un significato più pregnante di una risposta pertinente. A sostegno del pensiero della mamma aggiungo che, non essendo persona ricca, perché mai Riccardo avrebbe dovuto accollarsi il sacrificio di pagare gli studi universitari a un ragazzo avuto in tutela se non vi fosse stato un motivo nascosto rilevante come un legame di sangue?

La mia dada Mina fu l’unica dei figli affidati a Riccardo e ad Alda che conobbi e le ero affezionatissimo; il suo vero nome era Palmina. Esistono persone costantemente perseguitate dalla cattiva sorte e Mina fu una di queste: finì la sua vita in un sanatorio lontana dal marito, senza potere vedere, stringere, baciare la propria bambina.

(Continua)

 

Placido Luciano

Successe che tanti anni fa, ero ancora adolescente, ascoltai per la filodiffusione, l’arioso ‘Amor ti vieta’ dalla Fedora di Umberto Giordano cantato da Placido Domingo. Tanto mi piacque che lo registrai e dopo quello tutte tutte le romanze cantate dal tenore spagnolo.
Domingo era già a quel tempo una celebrità -parlo dell’inizio degli anni settanta- come testimoniava la facilità con cui era possibile ascoltarlo senza andare a teatro, attraverso i dischi e la radio. Certamente Domingo non cantava al Teatro Comunale di Bologna; se avessi voluto ascoltarlo da vivo sarei dovuto andare al Metropolitan di New York, al Teatro alla Scala, all’Arena di Verona, al Covent Garden di Londra.
Le vetrine dei negozi erano pieni di opere e recital con Domingo così acquistai con la lauta paghetta settimanale di mia madre due bei cofanetti della RCA Victor, il Tabarro e la Tosca, entrambi con gli stessi cantanti Leontyne Price, Placido Domingo e Sherrill Milnes, il primo diretto da Erich Leinsdorf, la seconda da Zubin Mehta.
Per Domingo ebbi un vero amore a prima vista per via del timbro vocale ambrato, denso, corposo, eppure vellutato, specialmente nel registro centrale, come tante voci spagnole. Il timbro è il primo elemento, quello più immediato e quindi più elementare, a colpire l’ascoltatore, e le voci scure generalmente sono quelle che colpiscono di più. La voce di Domingo possedeva pure dei difetti – gli acuti larghi ma un poco faticosi, la dizione non molto scandita – che, a quel tempo, non rilevavo, attratto principalmente dalle caratteristiche timbriche.
Qualche tempo dopo acquistai la famosa Turandot della Decca con i mostri sacri del momento, Joan Sutherland e Montserrat Caballé. Mi svenai per quel cofanetto, che a quel tempo costava dodicimila lire, una cifra astronomica per uno studente di liceo. Credevo che Calaf fosse cantato da Domingo e, invece, trovai Luciano Pavarotti, di cui ancora non conoscevo la voce.
Mi piacquero le due rivali femminile e la direzione di Zubin Mehta ma non Pavarotti. Il suo timbro mi ricordava quello di Paperino anzi Donald Duck.
La voce era troppo chiara per i miei semplici canoni d’allora e possedeva, tutto sommato, caratteristiche opposte a quelle dello spagnolo: acuti facili ma stretti, dizione chiarissima.
Ed erano differenti quanto alle qualità artistiche: Domingo risolveva i personaggi dentro alla musica, essenzialmente nel canto, mentre Pavarotti, dando valore alla parola, sembrava calarsi maggiormente nei personaggi.
Dopo svariati decenni, tutto sommato, le mie preferenze non sono cambiate.
Ora però ritengo che entrambi ben rappresentano il declino dell’arte lirica, seppure a livelli assai alti. Il fatto che siano artisti universalmente noti non vuol dire che tutte cose siano allineate lungo la strada maestra. Per Domingo e Pavarotti se avessero cantato quaranta, cinquant’anni prima, sarebbe stato assai più duro guadagnare la pagnotta: a causa delle loro caratteristiche, fors’anche limitazioni, probabilmente non avrebbero avuto un gran seguito ai tempi di Aureliano Pertile e Beniamino Gigli e si sarebbero quindi dovuti regolare in maniera differente quanto a tecnica vocale.
Le carriere di entrambi, nate sulle tavole del palcoscenico, vennero amplificate dai dischi che d’altra parte sono stati, fin dalla loro comparsa, sono sempre stati fidi amici dei cantanti lirici; in tempi di poco più lontani si aggiungeva anche il contributo del cinema. Nulla di nuovo sotto il sole, se non il fatto che le case discografiche divenute multinazionali amplificarono a livello mondiale l’impatto di Domingo e Pavarotti sul pubblico.
E amplificarono i loro effettivi meriti.
Domingo ha avuto una carriera caratterizzata da diversi momenti di sbandamento e stanchezza vocale sia per la grande quantità di recite, la vastità del repertorio, ma anche per una tecnica non ineccepibile; come un’araba fenice la sua voce è però riuscita a rinascere schiarendo il timbro e sempre più accentuando una nativa nasalità per mantenere il suono falsamente in maschera. La parte estrema della carriera di Domingo, a cui stiamo assistendo, quale di baritono mi pare triste. E’ un tenore a tutti gli effetti che canta sulla tessitura più bassa del baritono e la voce è uguale a quella di prima, né più né meno. Le attuali prestazioni da tenoritono mi sembrano che siano utili solo per evitare le crisi di astinenza dei fan dominghiani, e soprattutto delle dominghiane non più giovani.
Pavarotti è stato da molti indicato, a mio avviso sommariamente, come erede dell’età d’oro del canto all’italiana. Abbastanza ferrato quanto a tecnica di canto, se da un lato nasceva come tenore dagli acuti facili, dall’altro lato trovava proprio in essi una limitazione sgradita al mio orecchio: dapprima gli acuti del tenore modenese il loro suono non ha mai avuto la larghezza, la cavata, che caratterizzava anche i tenori lirico-leggeri o lirici delle generazioni precedenti (penso, per esempio a Tito Schipa e a Giuseppe Di Stefano. Con il passare degli anni e l’allargamento del repertorio, la strettezza degli acuti di Pavarotti è aumentata -fino a che spesso ricordavano dei vagiti di un bambino- diffondendosi e deteriorando l’accativante timbro del registro centrale.
Le interpretazioni di Domingo sono sempre apparse un po’ generiche, senza uno stile che lo caratterizzasse univocamente, affidandosi alla sensuale attrattiva della voce e ad una buona credibilità scenica. Domingo, inoltre, è sempre stato in grado di stabilire un particolare rapporto con il pubblico, un’imponderabile energia, una fascinazione capace di catturare la festante benevolenza del pubblico anche nei giorni in cui la voce non pareva oggettivamente in forma, dote che possiedono solo i grandi artisti. Aggiungo che Domingo è una persona molto simpatica.
Pavarotti agli inizi della carriera veniva rubricato come tenore dalla bella voce ma, come Domingo, con intenti interpretativi generici. Il Modenese, col tempo, invece ha costruito furbescamente un proprio stile, molto personale, forse un po’ ruffianesco, ma tutto sommato nuovo. Pavarotti, in questo, è quindi una specie di capostipite che ha avuto, e ha, diversi imitatori. Come attore appariva zelante ma un po’ naïf, limitato dall’ingombrante figura e dalla fisionomia: certe espressioni facciali, certi atteggiamenti facevano sorridere. Anche Pavarotti aveva un ottimo rapporto con il suo pubblico. Per quanto mi riguarda, ho sempre detestato le incursioni di Pavarotti nella musica pop. Non sapeva cantare in maniera convincente nemmeno Mamma di Bixio-Cherubini. In Caruso di Lucio Dalla l’ho sempre giudicato inascoltabile.
Dal vivo, comunque, sia Domingo che Pavarotti mi hanno sempre convinto nonostante qualche se e qualche ma.
E rispetto alle mie preferenze vocali di quarant’anni fa?
Forse sarà una questione di imprinting adolescenziale, ma continuo ad avere preferenza per la voce di Domingo.

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