Tre millantatori all’Opera – Il bis di Vissi d’arte

Il passato della prozia stava in una scatola di cartone, tenuta insieme da alcune strisce di carta gommata. Dopo averla collocata ben visibile su di una mensola in cantina, nessuno le fece più caso, nessuno più la toccò. Si ricoprì di polvere.

Per anni Divina Pieranti fu dimenticata.

Qualche settimana prima degli avvenimenti che stiamo narrando,  l’antenata fiorentina forse guidò lo sguardo di Rufo sulla scatola, suscitando in lui una nuova curiosità.

«Icché ci sarà qui dentro?», pensò Rufo.

La aprì e vide delle carte interessanti. Starnutendo per la polvere, riportò con sè l’urna di cartone in casa, tra le cose vive.

E il giovane tenore finalmente seppe che una Pieranti fu ammaliata, come lui, dall’arte del canto.

E che, in un teatro assai lontano, si conquistò onori e fama.

Una valigetta in similpelle era la nuova dimora che Rufo aveva dato ai cimeli della prozia e li mostrava a me e a Tullio, uno per volta, con divertita semplicità.

Sia i ritagli dei quotidiani che le pagine strappate dalle riviste, per prolungarne l’integrità, erano stati incollati da Lodovico Pieranti, il nonno di Rufo, con dovizia di gomma arabica su del cartoncino bristol ruvido, . Così s’erano s’erano assai incartapecoriti ed avevano preso odore di stantivo.

I brandelli di carta stampata uruguaiana, da El País, El Día, El Telégrafo, The Montevideo Times, La Razón, rappresentavano con tratti efficaci l’arte di Divina Pieranti.

I cronisti dipingevano una voce di bel timbro luminoso, nobile e dolce, ben modulata, eppure in grado di diffondersi nella sala del teatro Solís di Montevideo come un torrente in piena. Certamente era un soprano lirico spinto.

Descrivevano anche la bella figura, l’attrice affascinante, padrona del gioco scenico.

Insomma, Divina Pieranti pareva che fosse un’artista veramente coi fiocchi.

I primi giornali risalivano al 1919, allorché Divina Pieranti aveva sostituito la celebre ‘divina’ Claudia Luzzio in una Tosca con il celebrato Beniamino Valmigli. La ‘divina’ Claudia, dopo la prova generale, si prese un bel raffreddore, rimanendo afona per la prima. Fino a quella occasione, la prozia di Rufo aveva fatto solo le parti, come dicono alcuni in teatro, cioè la comprimaria. Anzi, il maestro Tullio Delli Angeli le aveva assegnato il ruolo del pastore, odiando le voci sempre stonate dei bambini.

Ma anche le ‘divine’ per fortuna si ammalano.

Suffumigi d’eucalipto, fumenti con bicarbonato e camomilla, bagni caldi, decotti d’erisimo e gargarismi d’acqua e aceto, non aiutarono la Luzzio a ritrovare la voce.

«Mors tua, vita mea», dissi.

«Ahaha, sì una vera botta di culo», chiosò Rufo ridendo. «Un’opportunità che può cambiare il corso dell’esistenza. Se tutto va  per il meglio, ovviamente…»

E in quella mite primavera d’Ottobre sul Rio de la Plata il vento del destino parve spirare dalla parte giusta, gonfiando le vele di Divina Pieranti.

Il pubblico del Teatro Solís, così raccontavano i cronisti della serata, tributò un grande omaggio di successo ed onori non solo alla Pieranti ma anche al grande tenore Beniamino Valmigli, quella sera debuttante a Montevideo.

In una lettera della mattina successiva alla prima, il soprano descriveva al fratello com’era andata quella serata fortunata e, soprattutto, quanto i critici non poterono vedere. Dietro al sipario si ebbe un grande spettacolo senza canto, parallelo a quello della Tosca.

Il celebre tenore durante le prove aveva già messo in conto che dovesse fare il bis dopo ‘E lucevan le stelle’, al terzo atto dell’opera. D’altra parte questa romanza costituiva il suo cavallo di battaglia che infarciva di splendide mezzevoci, singhiozzi e svenevoli sospiri. La Pieranti però, dopo ‘Vissi d’arte’, al secondo atto, fu tanto acclamata che toccò le toccò di dover bissare per prima.

Lasciamo ora posto al racconto di Divina Pieranti.

Cantai Vissi d’arte come un bere un ovo.

E con gran garbo.

E stavolta non saresti stato proprio a riguardarmi le bucce.

Tu sai ch’io dico solo il vero. Pane al pane…chianti al chianti.

S’ebbero cinque minuti di applausi, non s’andava più avanti. Feci un cenno a Tullio Delli Angeli, che mi accompagnò da dio, e replicai. Alla fine della replica gli erano tutti più scalmanati di pria.

Calò il sipario. Nei camerini sentii che il Valmigli sbraitava con gran clamore. “Non faccio il terzo atto, chiamate un corista qualsiasi, oppure che Spoletta faccia il terzo atto al posto mia con quella fortunata sconosciuta”, egli diceva, anzi urlava. “Una cantantucola che conta meno il due di coppe quando la briscola è denari” aveva osato metterlo in ombra! Avevo ridicolizzato un celebre tenore! Guai mai!

Feci un gran malestro a scapito suo!

Icché si doveva anticipar l’atto o non dovea replicar la romanza per i suoi begl’occhi?

E Delli Angeli insieme all’impresario Bonetti, arrivati di corsa, gli fecero delle moine invano:

«Beniamino, non far così! Stasera stai cancellando il ricordo di Caruso».

Arrivò pure la Luzzio, ancora afona. Per riconoscenza ella m’avea fatto dono di un bel portagioie. Che donna squisita!

E si prese la briga di dar man forte ai due per convincerlo.

«Al posto della mia collega avrei dato anch’io il bis», gli disse per difendere la povera sostituta e per fargli capire di non rompere tanto le scatole, qualora si fosse risanata per cantare alla seconda recita.

Niente. Non servì a nulla.

Anzi, quel buzzone s’incapricciò di più. Sembrava che ci volesse della bella e della buona per far tornare il Valmigli in scena.

Per rabbonirlo, Bonetti gli promise il dieci per cento in più del compenso.

No, no, no e ancora no. Non esco!

Passavano i minuti. L’orchestra attendeva ammassata nella buca. Il publico rumoreggiava.

Pensai ch’io sola avrei potuto farlo rinsavire.

Mi infilai la mantella di scena, presi un mazzo di rose che m’avean regalato, escii dal camerino e bussai alla porta del tenore.

Entrai a testa bassa. Una ciuca con un viso umile e pentito:

«Può una piccola donna porgere le proprie scuse al grande artista?». E gli porsi i fiori.

Così blandito, quella testa di fava subitamente cadde nella mia trappola !

Valmigli cantò ‘E lucevan le stelle’ la prima volta bene, anzi benissimo. Da Valmigli, insomma.

Concesse il bis…Non puoi immaginare di quante smancerie e sbracature l’avesse infarcito.

Tante esche per attirare le trote. E il pubblico abboccò.

Gl’è punto bravo Valmigli, ma per due applausi in più porterebbe via il fumo alle candele.

Sicché sortii in scena io…La Pieranti però volea la sua rivincita. E tenni la ‘lama’ fino a che c’avevo fiato nei polmoni. Il ‘do’ mi venne talmente bello, grande, sicuro, ch’oscurai il Grande Tenore. Le gote gli presero il colore dei lamponi maturi.

Finito ‘O dolci mani’ ci fu un lungo applauso e lui mi ordinò, sottovoce, cupo:

«Attenzione a quello che fa! Niente code nel duetto!»

Tu m’hai sempre detto:

«Che chiorba dura tu t’hai!»

Te tu c’hai ragione.

Caro Lodovico decisi di fare una zingarata a dispetto del Sublime Artista. Son nessuno, ma a me nessuno comanda. Tanto meno quello zotico d’un babbaleo quale Valmigli.

A dispetto gli feci corone lunghe e dovette combattere con i miei fiati. Impresa difficile, come sai bene.

BimBumBam. Cavaradossi venne fucilato.

Valmigli finalmente a terra. Il palcoscenico era solo mio.

Gesticolai, mi disperai, tramenai da ossessa.

E poi dalla cima del Castel Sant’Angelo un ‘O Scarpia avanti a Dio’, lungo, anzi lunghissimo, tanto che il pubblico principiò ad applaudirmi coprendo l’orchestra. Urlarono tutti. Bonetti urlava a sua volta con le mani a mo’ di megafono. Anche Delli Angeli si spellava le mani dalla buca!

Non puoi immaginare il Valmigli e la solfa che mi fece allorché si chiuse il sipario! Sembrava una petonciana, tant’era scuro in volto. C’avea pure la gora che gli puzzava da sotto le ascelle della camicia.

«Per fortuna che lei è una donna e che io sono un gentiluomo…», mi si rivolse con le mani sui fianchi, come un’orcio per l’olio.

E urlò a Bonetti:

«In questo teatro di merda m’avete umiliato. Non canterò mai più qui. Mai più, mai più…Andrò all’Urquiza! L’anno prossimo c’andrò anche per metà del compenso!»

Nella sala il pubblico faceva una gran baraonda.

Scarpia escì da solo come terzultimo ed ebbe belle acclamazioni.

A Cavaradossi, penultimo, fu tributato un trionfo di applausi e di bravo.

Questi ritornò al di qua del sipario, io quindi mi avviai per incassare il mio successo, ma Valmigli mi trattenne prendendomi per il costume.

«No, guardi, lei non escirà da sola»

«Icché sta scherzando?» gli domandai.

«Non sto assolutamente scherzando, usciremo tutti e due insieme, tenendoci per mano»

«Neanche per sogno, l’opera s’intitola o non s’intitola Tosca? Uscirò da ultima e da sola!»

Allora Valmigli m’avvinghiò la mano. Gl’aveva perso il senno.

E allora, io levai il vino dai fiaschi: davanti a tutti, mollai al Valmigli un bel calcio negli stinchi.

«O bischero se te tu non ti levi da costì, il prossimo te lo fo sui coglioni che t’udran fin i santi in Orsanmichele»

Il Valmigli mollò la presa ed iouscii ritta come un fuso per prendermi un trionfo che mai scorderò per il resto della mi’ vita.

Io e Tullio eravamo piegati in due per le risate.

«Non fine ma efficace» dissi io.

«Hihihi, la mattina successiva l’impresario Bonetti sarà andato in chiesa per chiedere la grazia che la Luzzio si rimettesse in fretta…Non voglio immaginare le scintille tra la Pieranti e Valmigli durante una seconda recita», considerò Tullio.

Rufo prese fuori dalla scatola altre locandine. E così apprendemmo che l’indomita prozia di Rufo cantò nuovamente al Solís la Tosca con Miguel Fleitas, l’ Aida con Aureliano Perticher, e ancora altre opere come l’Otello al Colòn di Buenos Aires Nicola Lusati e, in giro per l’America australe, la Manon Lescaut, La forza del destino, Il Guarany. L’ultima locandina era La cena delle beffe con John O’Pellyran a Montevideo. Portava la data del 1926.

Rufo rivelò il contenuto di un fagottino in velluto rosso. Era monile da teatro senza valore, un diadema con tante gemme.

«L’ho lavato con il detersivo. Guardate come luccicano questi fondi di bottiglia!»

Forse il diadema della serata più preziosa di Divina Pieranti?

E poi trovammo altre lettere dirette al nonno di Rufo, scritte con una calligrafia di una volta, fitta, leggermente inclinata, affusolata nei ”l„, nelle “g„ e in tutte le maiuscole. Principiavano con “Mio adorato Lodovico…”, e nel fondo la data.

L’ultima lettera recava 30 settembre 1926, scritta dopo la prima dell’opera di Giordano.

E Rufo:

«Dopo questa data non vi sono più lettere e la vita della prozia è un mistero. So che mio nonno stette molto male e rimase lontano da Firenze per tanto tempo…forse persero i contatti. O tante altre cose. Forse che La cena delle beffe sia stata la sua ultima opera?»

«Andare in ricerca di Divina Pieranti potrebbe, allora, essere il pretesto per fare un bella vacanza! Non pensi?», risposi guardando le fotografie della prozia poste sul pianoforte.

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte seconda)

Conoscete persone che sanno essere inopportune pure se non presenti fisicamente? Purché abbiano un telefono tra le mani e il gioco è fatto.

Io ne conoscevo bene uno: Tullio.

E in questo primeggiava.

Chiamava, per lo più, mentre pranzavo o cenavo.

Questo era sempre l’inizio della telefonata:

«Disturbo?»

«Ciao…sto pranzando», rispondevo con la bocca piena, accentuando la masticazione.

Anche a me è capitato di interrompere il pasto di qualcuno con una telefonata ma, quale persona non fastidiosa e di buona creanza, immediatamente ho salutato.

Tullio no.

Poiché lui aveva già mangiato, la conversazione poteva proseguire.

E proseguiva così:

«Novitàaa?»

Ed io, secco:

«No!»

Dopodiché spesso mi trovavo così in mezzo alle obituaries liriche, cioè i necrologi di artisti lirici, che Tullio leggeva puntigliosamente dai mensili esteri, e ai sordi borborigmi del mio stomaco.

Avrei potuto dirgli: «Senti cocco, perché non ci risentiamo tra un’ora»?

Evidentemente sì, avrei potuto farlo.

Ma non l’ho mai fatto.

Passavano i minuti e la minestra si raffreddava:

«Altre novità?», continuava lui con grande cretineria.

E replicavo:

«No»

E allora Tullio rispondeva sempre così:

«Benissimo». Nuovamente con grande cretineria.

Cretineria che m’irritava.

C’avevo perfino più gusto nel telefonare alla Corinna.

Se mi fosse andato bene con lei avrei ascoltato i consueti panegirici sull’arte direttoriale di Herbert von Karajan.

Attaccava la cornetta innanzi al giradischi per dimostrarmi quanto lei intendeva dire. Parlare diventava inutile, tanto non mi avrebbe sentito.

«Senti qua…senti le curve di Karajan».

Già le curve di Karajan.

Quali curve?

«Ma come, non le senti?»

Per capire le sue sensazioni musicali dovevo andare a tentoni. Che volesse intendendere il particolare legato che il direttore ricavava dall’orchestra?

Certo, anche con la Corinna era necessario armarsi di santa pazienza.

Durante le conversazioni, dovevo ripetere più e più volte quanto le avevo detto. Non era sorda. Non sentiva perché si distraeva continuamente.

Non ascoltava.

Mentre parlava con me, avendo la televisione sempre accesa, guardava e commentava tutte le possibili trasmissioni, cartoni animati, soap opera, telefilm a puntate. Anche la pubblicità.

Il tubo catodico era logoro, poveretto, perché quella che era stata grande sostenitrice del centralismo democratico, del teatro epico di Brecht e Piscator guardava qualsiasi onda elettromagnetica che l’antenna sul tetto riusciva ad assorbire.

La conversazione telefonica, si arricchiva pure degli interventi della madre cosicché la Corinna si sdoppiava, parlando contemporaneamente con me e con la madre.

Insomma, telefonate senza capo né coda. Un teatrino dell’assurdo.

Ma la Corinna, almeno, a differenza di Tullio, rispettava gli orari santificati dei pranzi e delle cene.

In quel piovoso sabato di presentazioni Tullio, uscito di casa mia dopo il primo incontro con Rufo e Gabriele, non fece passare nemmeno una mezz’ora che mi telefonò.

Mentre stavo cenando. Ovviamente.

«Vorrei fare un poco di ‘Radio Serva’. Come ti sono parsi i ragazzi?»

«I ragazzi? Perché mai li chiama così? È per caso loro zio? Quant’è cretino», pensai.

«Beh, simpatici» dissi. «Mi pare che Rufo comandi a bacchetta il povero Gabriele». Tagliai corto perché avevo fame, visto che della colomba pasquale erano rimaste solo briciole e qualche mandorla attaccata alla carta.

Tullio riprese a farmi la consueta solfa sul tenorissimo Rufo.

E biribim e biribam e biribim.

Finalmente m’arrivò alle orecchie qualcosa che distolse l’attenzione dalla fame:

«E poi…sai…è anche pronipote di Divina Pieranti», mi fece con un leggero sussiego, come se avesse nominato chissà quale celebrità.

«E da dove viene fuori questa?», chiesi.

«Speravo che la conoscessi, piacendoti i cantanti antichi…Insomma, Rufo mi ha raccontato che la sua prozia cantava al Teatro di Montevideo. Non hai mai sentito parlare di Divina Pieranti?»

«No, sai…leggo solo sporadicamente i necrologi sui giornali di Montevideo, ahaha», e subito chiesi:

«E ‘sta Pieranti come arrivò in Uruguay?»

«Nacque a Firenze ed emigrò per una tournée alla fine dell’Ottocento con il fratello violinista al seguito di una compagnia lirica. Terminato il giro, il fratello prese il piroscafo e ritornò indietro. Era il nonno di Rufo. Divina Pieranti rimase là e diventò il primo soprano al Teatro di Montevideo»

Ero dubbioso, incredulo, pensavo che Tullio desse credito ad un’altra panzana.

«Non l’ho mai sentita nominare. Dunque Rufo è pronipote d’arte? Sei sicuro?».

«È quanto lui mi ha raccontato. Sul pianoforte ci sono tre fotografie di scena autografate», mi rispose il raffreddatore delle mie pietanze.

Mi dissi:

«Hanno lo stesso cognome, ci sono i genitori di Rufo e le fotografie… Questa storia non dovrebbe essere una millanteria».

Passò Pasqua con tanta pioggia ed umidità.

Il pranzo del Lunedì dell’Angelo si svolse in allegria.

Mangiammo abbondantemente.

Se io ero una buona forchetta, Rufo si strafogò. Bissò, per lo meno, ogni cosa, anche il prosciutto in crosta portato da Tullio, fatto con ingredienti scaduti.

Non avevo mai visto mangiare così tanto.

Dopo il caffè, facemmo qualche giro al Gioco dei Nomi, adattato alla nostra passione lirica: dovevamo scrivere i nomi dei soprani, tenori, mezzosoprani, baritoni, bassi, dei direttori d’orchestra e i titoli delle opere.

La sfida si svolse soprattutto tra me, Tullio, Rufo e Gabriele.

Cantanti noti e di minor fortuna, gregari e comprimari, opere celebri e dimenticate, grandi bacchette e battisolfa.

Gli altri amici arrancavano per riempire le colonne.

Teresa conosceva l’opera attraverso i suoi amori adolescenziali per i tenori. Corinna scriveva i nomi sulla base delle opere acquistate nel Sottopassaggio dalla signora Salizzoni, mentre Edmondo, analogamente, quel che gli sovveniva dai cataloghi dei collezionisti di nastri dal vivo. Evelina, infine, l’unico nome che scrisse senza sbirciare il foglio di Edmondo fu, ovviamente, quello di Anna Moffo.

Nessuno ebbe da dire fino a che giunse la volta dei soprani che iniziavano con la lettera «P»:

Pobbe, Price, Patti, Pagliughi, Pampanini, Ponselle, Parazzini, Pons, Panni, Pinto, Parutto, Pasta, Pacetti, Pieranti, Petrella, Pizzo, Pedrini.

«Pieranti? Non l’ho mai sentita dire», fece la Corinna, mezza stralunata, con una cantilena dodecafonica, cioè con un tono di voce differente per ciascuna sillaba.

Rufo, placido e indifferente, spiegò:

«Era mia nonna, cantava agli inizi del secolo. Ho una sua fotografia autografata in Tosca», come se avesse già risposto a quella domanda più e più volte.

«Confermo», disse Tullio con autorità notarile.

Piantammo il gioco prima di esaurire le lettere dell’alfabeto.

Per Teresa si era fatto tardi. Prese il cappotto a tre quarti dal color velenoso delle pervinche, violetto come quello della gonna, uguale a quello del foulard, del cappellino, dell’ombretto sulle palpebre. Salutò seraficamente con la mano, mandando baci a tutti.

«Ed ora che si fa?» chiese la Corinna, stravaccata sul tavolo dal gomito in su, torturandosi la frangia. Il lambrusco e lo zibibbo le ravvivano i guanciotti e gli occhi sporgevano più che mai dalle borse a fisarmonica.

Sua madre, se l’avesse vista, avrebbe cessato di esserne orgogliosa.

«Potremmo fare una scantarellata!», propose Tullio prontamente.

E la Corinna con la sua dissonante cantilena dodecatonica:

«Oh, sì sì, che bello! Cantate, cantate!»

E la ruspante Evelina, sempre seduta sulle ginocchia indifferenti di Edmondo:

«Io ora certamente non canto, sono gonfia come una pallone. Dai, Pieranti, attacca un po’ te. Oh, sta’ ben attento a non fare arie mentre canti, eh!»

Tullio prontamente intervenne:

«Sempre cara mi fu quest’Evelina. Noi non facciamo arie, ma cantiamo delle arie, hihihi…dai, canto io per primo».

Attaccò la Calunnia dal Barbiere di Siviglia.

La calunnia è un venticello

Un’auretta assai gentile

Che insensibile, sottile,

Leggermente, dolcemente,

Incomincia, incomincia a sussurrar.

Aveva dei raspini. Come sempre.

Mentre cantava, la Corinna gli offrì perfino una caramella Valda.

Terminò l’aria e, senza che qualcuno potesse dire né «a» né «ba», chiese:

«Chi è il prossimo? Gabriele, dai, fatti avanti tu».

Questi parve assai felice:

«Oggi avrei voglia di cantare Cielo e mar».

La Corinna prese a starnazzare:

«Oh, sì sì, che bello, adoro quest’aria cantata da Bergonzi…»

Ma Rufo prese in mano la situazione, deludendo le aspettative della Corinna e reprimendo le velleità di Gabriele di fare il tenore lirico spinto:

«No, Cielo e mar no».

Ci mancava che oscillasse l’indice e battesse un giornale piegato per educare quella povera creatura.

«E’ meglio Una furtiva lagrima», comandò Rufo.

Gabriele, il succube, non disse beo. Quindi cantò Una furtiva lagrima.

La Corinna lo dirigeva ad occhi chiusi. Così come von Karajan dirigeva le curve dei Berliner Philarmoniker.

«Il tuo timbro ha una lucentezza madreperlacea dai riflessi rotondi grigiazzurri…», e cantilenò altre scemenze. «Dovrai venire a cantare per mia madre. In premio ti farà le tigelle con il pesto di lardo, rosmarino e parmigiano».

Gabriele si illuminò, accennando dei piccoli inchini da maggiordomo.

I cantanti accettano qualsiasi tipo di complimento o si accontentano di qualcosa che sembri tale.

E gli era arrivato perfino un ingaggio retribuito in natura!

(Continua)

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