Il fattore K e l’importanza di un nemico (Parte terza)

Si succedettero quattro governi berlusconiani, nel 1994, 2001, 2005 e nel 2008. Anni interminabili, in tutto 3340 giorni. O meglio, 3340 notti. La lunga fortuna politica di Berlusconi si interruppe due volte per merito di Romano Prodi, il Professore, alias Mortadella.

«L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà». Così esordì, nel 1994, l’ipocrita propaganda nazional-popolare del Grande Venditore. Melassa elettorale, roba da coma diabetico con perdita di coscienza collettiva.

Nel 2001, l’ex Cavaliere fece la promessa che avrebbe trasformato il paese, da lui tanto amato , nel Paese di Cuccagna sottoscrivendo un contratto di fronte delle telecamere di una trasmissione preparata ad hoc, condotta da un giornalista consustanziale ad uno zerbino. Il contratto prevedeva golosi tagli fiscali, il miracolo di un milione di posti di lavoro, l’aumento della sicurezza e l’invenzione di evanescenti poliziotti, stanziali in ogni quartiere, prometteva tante opere pubbliche faraoniche, sospese tra terra, cielo e acqua e, infine, l’innalzamento delle pensioni minime a meno del minimo per sopravvivere. Quella sera gli italiani, mentre videro Berlusconi vergare il foglio protocollo del contratto con una lucida Mont Blanc, sgranarono gli occhi e diedero credito all’abile illusionista.

In Berlusconi si rispecchiavano quegli italiani che lui stesso, con le sue televisioni, aveva coltivato in una nuova ignoranza. Incentrò una parte della campagna elettorale prospettando un futuro idilliaco, fiabesco, promettendo ciò che la gente desiderava, blandendo evasori fiscali e ricchi imprenditori, illudendo giovani e pensionati.

Tutto questo però non gli parve sufficiente per vincere le elezioni.

Si rese, perfino, necessario difensore di un nemico inventato, o meglio, che non esisteva più. Un nemico morto pochi anni prima: il comunismo. Ovunque tanti comunisti. Di nuovo la paura dei comunisti.

«Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi». Che Berlusconi abbia preso ispirazione da Marx anziché dal tanto citato Erasmo da Rotterdam? O che Marx sia stato ispirato dall’ex Cavaliere?

Mi ricordo che Umberto Eco – era il maggio 2008, nell’ambito delle manifestazioni promosse da La permanenza del classico in Santa Lucia, l’aula magna dell’Università – espose un’illuminante riflessione: «Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo». Queste parole mi spiegarono l’apparente nonsense dell’anticomunismo berlusconiano. La conoscenza è un grado verso la saggezza…mi duole, però, che proprio Berlusconi abbia contribuito alla mia saggezza.

L’ultimo Paladino della Democrazia scoperchiò una tomba resuscitando un cadavere dimenticato, di cui si pensava che rimanessero solo le ossa spolpate, come il macabro Arcano XIII dei Tarocchi: il Fattore K.

La percezione del pericolo è soggettiva, e può variare anche da nazione a nazione. Si pensi ai terremoti: ad un giapponese, per esempio, la giusta paura causata dai terremoti nostrani potrebbe non apparire commisurata all’intensità delle scosse visto che, nella terra del Sol Levante, i terremoti italiani sono dei terremotini. Così avviene nella politica. I pericolosi nemici da neutralizzare, secondo Berlusconi, erano gli indefiniti comunisti italiani. A proposito del senso di pericolo politico suscitato dai comunisti italiani non su un giapponese ma su un americano, mi sovvengono le parole di un collezionista di opere dal vivo, un signore sui sessant’anni che viveva Cleveland, con cui facevo degli scambi. Una sera, invitato a cena in casa mia, a metà degli anni ’80, ci trovammo a discorrere della situazione politica italiana. Lui era filofascista e, ovviamente, profondamente anticomunista. Parlava un italiano con strafalcioni e anacoluti, ma efficace: «Che un scherzo i comunisti italiani! Non hanno mai fatto paura a nessuno. Nel mio Paese dicono che, in Italia, il comunismo mortiva dieci anni fa». Ad occhio e croce, secondo l’Americano, facendo due calcoli, in Italia il comunismo «mortiva» alla nascita del compromesso storico. Dopo questa lungimirante strategia politica, del comunismo rimaneva, per gli americani (ma non per Berlusconi), solo la polenta e salsiccia in umido che si mangiava alla Festa dell’Unità? Gli americani dunque erano più smaliziati e realisti del Capo del Polo per le Libertà?

E così, tra promesse e paure, Berlusconi riuscì a vincere e stravincere le elezioni.

E a trovarsi pure raccontato nei libri di scuola.

(Continua)

Il fattore K. I giovani dimenticati e l’inizio del declino (Parte seconda)

Già, i giovani. C’erano anche i giovani. Ci sono sempre stati ma, dopo il ’68, i giovani parevano di più e più rompiscatole dei predecessori.

Non penso che l’esser giovane debba essere considerato necessariamente un valore, ma i giovani non sono nemmeno dei sassolini da evitare lungo la strada. All’interno del PCI non mi sono mai sentito giovane. Qui a Bologna durante il ’77 si vide in maniera palese che il PCI non sapeva né capire né attirare a sé i giovani. Segretario della FGCI era Massimo d’Alema, il nuovo che si era avanti. Avanti, o popolo alla riscossa…

Per quanto mi riguarda, nel 1975 mi iscrissi alla SUC, la Sezione Universitaria Comunista. La mia facoltà pareva una mosca bianca nell’Ateneo bolognese: era un’isola senza particolari terremoti ideologici sotto il controllo del PCI. Gli studenti che simpatizzavano per l’Autonomia operaia si contavano, invece, sulle dita di una mano. Ogni tanto mi recavo alle loro sporadiche assemblee e in certe occasioni i partecipanti arrivavano al numero giusto per una partita a tressette. Un gruppo nutrito di studenti proveniva dalla Romagna, tra Rimini e Cesena, ciellini con chitarre, canti e orazioni ma, all’occorrenza, litigiosi, polemici, pronti ad alzar le mani. Avevano quale portavoce il figlio di un segretario di un partito politico di centro nonché parlamentare – padre e figlio assomigliavano come due gocce d’acqua, soprattutto per le sopracciglia cespugliose.

Dei professori, assistenti e tecnici, pur non manifestandosi apertamente, era noto l’indirizzo politico con certezza. Capitava che gli studenti comunisti, la mattina, andassero a lezione dai professori comunisti, svolgessero esercitazioni con assistenti comunisti e lavorassero con i tecnici comunisti. Capitava pure che la sera studenti, professori, assistenti e tecnici si incontrassero nella sezione comunista, una specie di Sancta Sanctorum dell’ortodossia come la Scuola delle Frattocchie. E capitava che il giorno dopo ci fossero gli esami. Verità.

Io c’ero.

La passione politica veniva sfruttata da alcuni compagni di corso, sotto gli occhi di tutti, sfacciatamente, per fare carriera nell’ambito universitario. Per carità, alcuni di quegli studenti miei colleghi erano bravissimi e la bella strada che hanno percorso è stata assolutamente meritata. Trovarono, però, nella politica una singolare facilitazione che si estese ad altri studenti con minori capacità ma con la medesima tessera nel portafoglio. Non solo: gli studenti comunisti migliori e più lungimirante lisciarono per bene i baroni democristiani. I professori invece, tutti insieme, avrebbero voluto lisciare il figlio del segretario di un partito che valeva in Parlamento un tre per cento. Purtroppo per loro, le lodi sul libretto fioccavano non per merito loro ma erano il necessario riconoscimento della bravura del maxi sopraccigliato rampollo.

Venne il ’77. Mi deluse la linea politica del PCI quindi diradai il mio modesto contributo di attivista politico e dal 1979 non rinnovai più la tessera. Da quell’anno non ho più avuto alcuna tessera, né politica né sindacale.

Apparve, nel firmamento politico, l’astro del machiavellico Craxi. Accentuò il declino del PCI, che diventò obsoleto. Lo isolò.

Mettete dei fiori nei vostri cannoni, cantavano I Giganti nel 1967. Dopo meno di un decennio il nuovo segretario socialista prese alla lettera i versi della canzone e caricò con mazzi di garofani rossi i propri cannoni politici e li sparò contro le bandiere rosse.

L’Italia che contava diventò tutta socialista, forse affascinata da un nuovo Napoleone. Certamente per comodo. Craxi non teorizzò il futuro, lo costruì, nel bene e nel male. I problemi odierni risalgono a lui.

E il Fattore K parve svanire come un fantasma sotto i raggi del sole nascente.

Io non lo sopportavo e mai lo avrei votato però, con il senno del poi, riconosco che, indubbiamente, fu un grande politico.

Il lavoro di scombinamento della sinistra iniziato da Craxi fu terminato, stranamente, da un mercante di anime, ammesso che i politici ne abbiano una. Cioè dall’ex Cavaliere Silvio Berlusconi.

Mi ricordo che, quando Berlusconi si mise in politica, io pensai che avrebbe fatto un gigantesco buco nell’acqua. «Possono essere, gli italiani. così cretini da votarlo?», pensai. La Bruna, mia madre, vide invece molto più in là di me e, novella Cassandra, preconizzò «Vedrai, vincerà le elezioni e non ce lo toglieremo più di torno. Sarà come Mussolini».

Berlusconi iscrisse nello stesso libro paga i fascisti del Movimento Sociale, i socialisti filocraxiani, una parte dei democristiani, i socialdemocratici, i repubblicani, i liberali. Un capolavoro ributtante di sincretismo politico. L’unico paese al mondo ad avere i socialisti alleati con i fascisti! Ancora non riesco rassegnarmi. Una pastoia immangiabile di stipendiati, tutti uniti nel partito-azienda.

Iniziò la lunga, profonda notte italiana.

(Continua)

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