I sogni di Aurora

Appena fatto giorno, Aurora usciva di casa con la nonna per condurre le pecore alla pastura. La bambina non lasciava allora trascorrere una mattina senza aver raccontato all’anziana donna i sogni della notte, cose semplici di piccola montanara.
Sognava di creature del bosco, lepri inseguite da volpi, civette dalle misteriose voci, guizzanti scoiattoli, timidi ricci. Sognava di riempire grandi cesti con i frutti della natura, funghi odorosi, more dolci, fragole saporite, mirtilli succosi e nespole selvatiche. E spesso sognava di mangiare cose buone, quelle da signori, perché durante il giorno spesso pativa la fame. Povera piccina! Ormai aveva a noia le castagne sulla propria tavola: castagnaccio a colazione, zuppa di castagne a pranzo, caldarroste per cena con l’umile companatico di una fetta di ricotta; questa solo perché doveva crescere. I sogni frequentemente rappresentano ciò che non si ha. Aurora allora sognava grandi tavole imbandite con fragranti leccornie colorate dall’aspetto bizzarro, senza averne mai visto qualcuna dal vero.
E sognava pure di volare in un cielo sereno. Spiccava libera da un prato fin oltre dove garrivano le rondini durante le belle giornate d’estate, oltre il crinale visibile dei monti intorno alla sua vecchia casa di pietre. E dopo il primo orizzonte ne vedeva un altro, e poi un altro ancora, fino a raggiungere la città.
Aurora non aveva mai visto nemmeno la città. Dopo aver ascoltato i racconti dei grandi, ne sognava una immaginaria, sfiorando in volo i tetti di palazzi strani.
In un mattino d’estate, la bambina e la nonna sostarono davanti alla Madonnina del Bosco. Deposero come altre volte un mazzetto di margherite ai piedi del pilastrino in mattoni ove dimorava, in una nicchia riparata da uno sportellino di vetro, e lucidarono la statuetta sacra. Inginocchiate, si fecero il segno della croce e, mentre mormorarono all’unisono un’Ave Maria, accesero un lumicino ai piedi del semplice manufatto. Al termine della preghiera, dopo il segno della croce, rivolsero tre baci alla Santissima Vergine e sedettero per rinfrancarsi su di un vecchio ceppo lungo il sentiero.
La nonna Antonietta, dopo aver ascoltato i sogni della piccola Aurora, disse:
«Eh chèra fangéina, cara bambina, i sogni sono doni del Signore».
Antonietta liberò il capo dal fazzoletto annodato sulla nuca, quindi si rassettò la crocchia grigia:
«Abbi sempre rispetto dei sogni come dei tuoi vecchi. Vedrai che i sogni ti saranno d’aiuto», farfugliò con le forcine strette tra le labbra.
Scosse la testa:
«Pochi hanno il talento di cavare insegnamenti per la vita scrutando nella verità che offre la notte».
Da quel giorno, Aurora seguì le parole della nonna e tenne sempre in gran conto i propri sogni.
Finita la Guerra – la bambina si era fatta una bella ragazza – Aurora scese con tutta la famiglia dalla montagna in un paese devastato dai bombardamenti. Abitavano ora una casa costruita da poco dagli Americani. E nel frattempo Aurora aveva imparato a farsi guidare dai sogni.
Appena sveglia, ancora sotto le coperte, prima che le fatiche quotidiane avessero dissipato la vividezza delle immagini notturne, Aurora prendeva a rimuginare sui significati che i suoi sogni nascondevano; con metodo empirico e sistematicità quasi scientifica, cercava quindi di interpretare ogni nuovo sogno servendosene di qualche altro simile il cui senso le si fosse già appieno dispiegato.
Oltre che alla nonna, Aurora confidava ora le sue congetture all’impertinente sorella Alfonsina.
«Pensa un po’ agli affari tuoi», diceva la maggiore con stizza quando la sorella tentava di sciogliere il nodo di un sogno senza averglielo richiesto. La piccola, allora, s’impermalosiva.
Ed Aurora, con toni più pacati, per far pace:
«Non può mica essere che il significato di un sogno vada a genio a tutti. Quello che pare giusto a te può essere sbagliato per me». Parole inutili poiché la piccola si ribellava ad ogni convincimento.
Aurora sposò ancora giovane un uomo assai più grande di lei e dalla provincia se venne in Città.
Divenuta donna e madre, i sogni mutarono. L’impalpabile vita nell’oscurità tanto crebbe d’importanza da interferire con quella vera che si svolgeva sotto la luce del sole.
I sogni persero il carattere di semplici anticipazioni del destino. Seguendo un cammino inverso, diventarono le cause di quanto avrebbero dovuto rivelare. Gli accadimenti, le molteplici fortune dell’esistenza, trovavano cioè origine nei sogni, veri ormai quanto il vero: le visioni affioravano dal fondo della notte e, invadendo l’esistenza di Aurora, ne mutavano la successione degli avvenimenti. I sogni generavano potenti influssi capaci di modificare il destino della giovane donna, come i pianeti attraggono le comete modificando le loro traiettorie nella libertà senza fine dello spazio celeste.
I sogni di Aurora, però, seguendo la tortuosità imposte dalla vita, mutarono ancora.
Per dodici anni, tanto durò il matrimonio, Quirico volle che l’unico lavoro della moglie fosse quello di tener dietro alla famiglia:
«Le donne si guadagnano da vivere lavorando in casa», spesso ripeteva.
Ed avvenne che il destino strappò improvvisamente l’anima al cuore del marito. Aurora, rimasta sola, si sentì inadeguata nell’affrontare la vita poiché intendeva mantenere il figlio Valentino fino alla fine degli studi secondo la volontà di Quirico, oltre che pensare al quotidiano sostentamento della famigliola.
Quirico però, uomo solerte, dopo di sé non abbandonò mai la donna amata.
Trascorsero pochi giorni di vedovanza che il marito cominciò a passare dalle lande dei morti al mondo dei sogni di Aurora: lo spirito dell’uomo diventò quindi una guida prodiga d’avvertimenti, ammonizioni, consigli per la sua vita e su come crescere il figliolo. Ed Aurora eseguendo meticolosamente le indicazioni espresse dal marito durante la notte non si trovò mai in difficoltà.
Nei sogni i due coniugi trovarono anche il luogo per rincontrarsi. Lontana dalla finzione dell’esistenza diurna che induceva Aurora a credere di essere infinitamente lontana dall’uomo amato, il loro matrimonio si prolungava, nelle ore veritiere della notte, con la stessa intensità, emotiva e sensuale, di quando Quirico era in vita. Aurora sapeva di appartenergli sia nell’anima che nel corpo. In ogni istante.
In vecchiaia, quando i ricordi del passato lenivano le difficoltà del presente e discacciavano lo sgomento per il futuro, Aurora pregava a lungo nella solitudine dell’oscurità per rassicurare la mente, prima del sonno. Muovendo impercettibilmente le labbra, sussurrava lievi orazioni per ogni defunto in un latino storpiato dal tempo. S’addormentava allora serena, sognando chi c’era e chi non c’era più, carni ed anime, luci ed ombre, purgatori e paradisi. Alla fine Aurora si convinse che i sogni fossero epifanie dell’aldilà e negli istanti del dormiveglia capì quanto fossero transitorie e false le esperienze diurne. Quello dei sogni era diventato il suo vero mondo.
Notte dopo notte, sentiva il mondo dei sogni avvicinarsi. Sapeva che si sarebbe ricongiunta a Quirico passando attraverso la soglia di un sogno.

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