L’esistenza dell’Anima (A Pedro Calderón de la Barca e a Jorge Luis Borges, con irriverenza)

Tutti sogniamo. Durante ogni notte, i sogni si insediano, al di là della volontà, per circa due ore nella nostra mente. Affermare quindi che i sogni costituiscono una parte essenziale della vita è una banalità. Assai bene lo sapevano gli antichi, i quali a queste epifanie notturne attribuivano grande importanza, così come lo sappiamo noi moderni, ma con minore intensità perché siamo sotto le ali della neurologia, della psicologia e della psicanalisi, lontani da sommi ministri, taumaturghi e oniromanti.
Ritengo che, tra tutti, i sogni maggiormente rilevanti siano quelli erotici, gli incubi e i sogni a sfondo premonitorio; tutti gli altri mi paiono rientrare in una sorta di routine onirica. Per quanto mi riguarda faccio più frequentemente incubi che sogni erotici; invece, nel bene e purtroppo nel male, ho fatto diversi sogni premonitori.
Un sogno premonitore è tale solo se si invera, diversamente è una delle tante visioni notturne. Ovviamente il carattere premonitorio viene verificato a posteriori. Alcuni miei sogni, essendosi inverati, sono stati delle premonizioni, delle intuizioni che hanno annunciato il futuro.
Ed è pure possibile pure sognare persone che pronunciano frasi premonitrici oppure, durante la visione notturna, udire una voce interiore dire Avverrà che…. La veridicità o la falsità di simili frasi oniriche recanti potenziali premonizioni non può che essere ancora confermata dai fatti, ovvero grazie all’esperienza effettuata nel mondo reale, quindi con l’intervento della coscienza diurna.
Si può ipotizzare un caso limite: Tizio, sognando di ascoltare una voce dire Tu morirai il giorno X, come può verificare se il sogno è stato un semplice incubo oppure una veridica premonizione? È nuovamente necessaria una verifica empirica, si dirà: se Tizio non muore è stato un incubo, oppure se morirà è stata una premonizione. Ma, nel secondo caso, Tizio non potrà rendersene conto perché alla morte dovrebbe conseguire anche la perdita di coscienza, la dissoluzione del sé. Per contro, se Tizio potesse rendersi conto di essere morto allora sarebbe dimostrata l’esistenza dell’Anima, quella cosa che unirebbe Vita e Morte senza soluzione di continuità. Altrimenti sarebbe dimostrata l’inesistenza della Morte. Evviva! Tutto questo, in verità, servirebbe poco agli uomini vivi in quanto, dall’esperienza personale di Tizio, non saprebbero mai, essendo morto, che esiste l’Anima, e né Tizio, credendosi vivo, si renderebbe conto di essere sopravvissuto a se stesso come Anima. Che sogno inutile dunque sarebbe…
A me capitano solo cose strane, così nel 1981 ho fatto un sogno simile a questo. Lo metto per iscritto con il fine esorcizzare un’inquietudine risalente a quegli anni lontani. Mi sognai di essere nella vecchia casa di Via Galliera – dove nacqui e dove, ai tempi del sogno, ancora abitavo – innanzi alla soglia dell’appartamento sottostante. La pesante porta scura era semiaperta ed entrai; camminai per la casa quando, accanto alla finestra di un modesto cucinotto, incontrai una donna seduta che mi dava le spalle, chinata in avanti. Una luce proveniente da un cavedio senza sole illuminava la figura greve e i capelli grigi acconciati con qualche forcina; indossava una leggera vestaglia di cotone azzurro a piccoli fiori bianchi stampati, una di quelle che si compravano a poco prezzo dai merciaioli della Piazzola. Lentamente l’anziana signora si raddrizzò su se stessa, mi rivolse il volto e riconobbi la signora Lena, una vicina che mi aveva visto nascere, quasi una nonna per me, morta priva di memoria qualche anno prima. Mi fissò senza espressione, tacendo per qualche istante. La squadrai e vidi, con grande turbamento, che l’occhio sinistro aveva dimensioni maggiori rispetto all’altro. E la pupilla era talmente dilatata che sembrava un piccolo globo di vetro scuro. Poteva essere la situazione di un film come Il posto delle fragole.
La Lena quindi disse come un automa:
«Morirai quando faranno la vestale».
Mi svegliai di soprassalto, stranito, ma subito riuscii a non pensare e ripresi il sonno sull’altro fianco. La mattina successiva, al risveglio, mi sovvennero le brutte parole di quella inconsueta visione notturna. Pervaso da un pauroso sconcerto, dovetti coinvolgere la mamma nel mio sogno. Dapprima stupefatto, il suo sguardo si riempì di smarrimento e di preoccupazione.
«Che intendeva per vestale?».
«Le vestali erano sacerdotesse dell’antica Roma», spiegai, «Io penso, però, che la Lena, rivolgendosi a me, volesse riferirsi all’opera lirica di Spontini».
«E la rappresentano spesso? La faranno al Teatro Comunale?».
«Che ne so io se la faranno» risposi innervosito. E proseguii: «Certamente non quest’anno, né è stata annunciata per la prossima stagione. Comunque, è un’opera che viene data di rado. L’ha cantata la Callas, per radio la trasmettono raramente, ho solo una registrazione…ma secondo te è un brutto avvertimento?».
«Eh, figurati se la Lena ti vuole portare male. Eri per lei come un figlio o un nipote. E poi cosa vuoi che la Lena sappia della Vestale», fingendo sicurezza.
Risposi con stizza alla mamma, non convinto affatto da questa interpretazione del sogno: «Non sarà la Lena a portarmi del male direttamente. Piuttosto, potrebbe avermi annunciato semplicemente quando terminerà la mia vita e cioè quando faranno La vestale di Spontini. Prima o poi, in qualche parte del mondo la metteranno pur in scena. Oppure la Lena si riferiva solamente a quando verrà rappresentata a Bologna?». E conclusi simulando coraggio: «Si vedrà cosa accadrà. Posso forse andare contro il destino?».
Sentita questa interpretazione del sogno, alla mamma vennero gli occhi lucidi e prontamente mi strinse tra le braccia: «Ma che stai dicendo? Finiscila! Sei matto? Non ti capiterà nulla. Prima di addormentarti avrai avuto brutti pensieri per la testa e non sei riuscito a sbarazzartene».
La mattina successiva, la mamma mi chiamò:
«Stai tranquillo, non devi avere paura e non devi più pensare al sogno. Non ti succederà nulla perché c’è il Babbo che ti ama e ti protegge dall’Aldilà». Concluse con un soddisfatto cenno del capo, quasi volesse dire: «Vedi? Le cose ora sono a posto». Aveva tanto pregato il Babbo e questo le aveva dato delle certezze.
Credetti alla mamma così il pensiero per questo sogno con il tempo pian piano si perse. Il tempo diluisce e allontana.
Il mio sogno differisce assai da quello di Tizio perché esso non è legato a un termine temporale, a una data, ma la premonizione è subordinata all’avveramento di una precisa condizione:
«Morirai quando faranno la vestale».
E dunque?
Se ora sto scrivendo di questo sogno significa che la condizione, per ora, non si è avverata? Forse è proprio così.
Ma non potrebbe essere che la condizione si sia avverata e che non me ne stia rendendo conto perché sarei in un altro Mondo, differente da quello in cui ero nel 1981?
Solo una cosa è certa: da quell’anno non ho mai più voluto sentire parlare della Vestale!

Locuzioni indigeste

Quando ero adolescente mi indisponevano alcune locuzioni.
Farò qualche esempio.
Durante gli anni del Liceo, era la prima metà degli anni settanta, fummo invasi dalla locuzione Nella misura in cui… specialmente nell’ambito della sinistra in cui, bene o male, militavo; aveva un che di intellettuale, in maniera blanda. Ricordo come essa fioriva e rifioriva sulla bocca di uno studente che organizzava le assemblee di istituto per un gruppo della sinistra extraparlamentare. Costui decollò da Potere Operaio e qualche anno dopo atterrò nel Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi. Tutt’ora lo santifica…un vero esempio di fedeltà; chissà se utilizza ancora quella locuzione. Nella misura in cui… si diffuse rapidamente come una malattia esantematica, tanto che, dopo qualche tempo, pure il democristiano Ciriaco De Mita la esibiva nei suoi incomprensibili discorsi, aumentandone la sfuggevolezza.
E durante le lezioni un professore esibì con apparente indifferenza il raffinato tormentone del Tout court…. Mitragliate di Tout court… Un cadeau di cui nessuno comprese il significato in maniera diretta, né alcuno allievo ebbe il coraggio di alzare la mano per ottenere i dovuti chiarimenti. Arrivammo al significato e le modalità d’uso interpretando, ovviamente, il contesto. Fu uno stratagemma per attrarre l’attenzione di noi allievi? Nessuno però scimmiottò l’autorevole professore nell’utilizzo di questa locuzione.
Se uno, ai primi degli anni Ottanta, intendeva farmi indispettire era sufficiente che dicesse o mi rispondesse Non c’è problema… In inglese è assai meglio: un secco No problem. Mi ricordo che in vacanza a Pola, un venditore di magliette, alias t-shirt, ne indossava una con su scritto in croato Nema problema. Si diffuse in ogni paese.
Tanto più sentivo utilizzare queste locuzioni, quanto più mi aumentava l’irritazione. Così era allora, così è oggi con i tormentoni linguistici di moda.
Con riguardo alle mie idiosincrasie , attualmente è frequente sentire dai politici di vario livello e orientamento ideologico, e mica solamente dai cosiddetti peones, la succinta metafora «la tal cosa appartiene al nostro DNA». Essa mi smuove veramente i nervi.
Così mi irrito sentendo dire I social. Questo avviene continuamente anche perché gli uomini hanno perso il senno e tutta la vita viene vissuta nei cosiddetti nei social. Sono diventati più veri del vero.
Odio nell’ambito gergale il giovanile àmo, odio una sfuggente parola come Implementazione con relativa forma verbale e altre derivazioni. E parimenti non sopporto l’invasione di metafore sportive nei ragionamenti politici, inaugurata da quel re dell’anacoluto che è stato Silvio Berlusconi. Un modo semplice per attrarre la benevolenza di un elettorato non incline ad arzigogoli. Conditi con qualche barzelletta, ha sguazzato in questa risibile miseria verbale per un ventennio.
Nondimeno è risibile, ma pur sempre irritante, se proviene da un certo livello, il rimaneggiamento di una famosa sentenza latina che attualmente viene ridotta in questo modo: «È meglio abbondare che deficere». Deficienti.
Ho odiato e sempre odierò visceralmente tutti i discorsi che principiano con Io sono uno che…. Questa mia avversione nasce dai tempi della prima adolescenza perché il mio zio materno abusava di questa locuzione per elencare una serie di belle qualità che poi non trovavano alcun riscontro nei fatti. Ovviamente non c’era mai posto una notazione negativa come «Io sono uno che racconta balle», «Io sono uno che non tiene fede alla parola data», «Io sono uno che si comporta ipocritamente». Nell’ambito delle mie attuali amicizie, attualmente, conto due persone che utilizzano questa espressione…e io subisco. Ho smontato il loro gioco ma non posso contestare o contrapporre alcunché.
E io mi inciampo in locuzioni che mi infastidiscono? Ne utilizzo qualcuna? In verità, pongo molto attenzione nel non infliggere agli altri ciò che mi infastidisce e, quindi, parlo in maniera consapevole, ben controllando ciò che dico.
E che cosa penso di queste mie intolleranze linguistiche? Che probabilmente, decenni or sono, era uno snobismo giovanile. Con il tempo esso si è evoluto diventando un tic senile.

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