La mamma relegò in uno sgabuzzino il disordine antiestetico degli strumenti da fabbro tenuti dal babbo sulla scrivania, oggetti unti e impolverati, per stendervi un tappeto damascato verde lucido sistemando piante, chincaglie di porcellana, cianfrusaglie di vetro, ninnoli d’argento, ben più grati all’occhio ma conservò, per superstiziosa devozione verso gli oggetti sacri e le reliquie, un vecchio crocifisso da tavolo a cui mancava un piccolo braccio della croce per cui quello del Cristo in ottone brancolava per l’aria. E ammodernò anche la vetusta casa così come la moda di quegli anni veloci imponeva. La timida tinta delle pareti, come polvere di riso appena rosata sui volti femminili della Belle Epoque, fu ricoperta con generose pennellate azzurre, aranciate e gialle, colori scelti da me, di ducotone lavabile, belletti sugli intonaci antichi che mentivano giovinezza come sul viso irruvidito di un’anziana. Dopo aver rimosso i conventuali scuri interni dalle finestre, ampi, lunghi tendaggi drappeggiati, dagli sgargianti fiori stampati, appesi a scintillanti guide metalliche dorate, con mantovane in velluto rifinite con lucide passamanerie, sostituirono i tendini in pizzo ai vetri, dal sentore troppo retrò. E pure la vecchia mobilia intarsiata della camera da letto, testimone di eventi mirabili e dell’ultima notte del mago, sparì: via comò e comodini con ripiani di rosso marmo veronese e maniglie floreali in ottone, via l’imponente letto dalle alte spalliere intarsiate, su cui la mamma mi mise al mondo; sparì il severo armadio in noce con timpani solenni con il compagno in rosso mogano il cui specchio sembrava restituire un riflesso interiore. Degli sgarbati facchini, in un batter di ciglia, tutto portarono via. Nuovi mobili senza memoria né storia, in sgargiante teak e ottone, presero il loro posto. Secondo i nuovi tempi.
In contrasto, non sostituimmo la vecchia stufa parigina che ravvivavamo a ogni primavera, come un rito di rinascita, con una bella mano di porporina argentata. Io non rivelai alla mamma che essa aveva prestato la propria voce metallica, per una notte, a un mondo invisibile contiguo a quello visibile.
Conservammo con orgoglio, poiché il senso del bello prevalse sul bisogno di contemporaneità, la bella camera da pranzo in noce decorata con ricchi intarsi acquistata poco dopo il matrimonio; un ampio lampadario di bronzo a gocce sovrastava il tavolo quadrato dalle solide zampe sinuose con arzigogolati intarsi di lunghe foglie stilizzate.
E la mamma rinnovò anche se stessa: per anni aveva sacrificato giovinezza e bellezza con abiti e acconciature da donna fatta che l’avevano sfiorita, conferendole la dignità di una regina in esilio, sia per non suscitare la gelosia del marito, sia perché si adeguò all’età del babbo senza che glielo avesse chiesto, come avviene che la canna più profonda, più potente, di un organo mette in risonanza quella più piccola e acuta. Con il tempo, dopo il babbo, l’amor proprio di donna bella riapparve, la regina riconquistò il proprio trono: i lunghi capelli, non più raccolti in un severo chignon tenuto insieme da forcine in falsa tartaruga, ritornarono liberi con una sottile scriminatura al centro, iniziò a truccarsi il volto, e acquistò abiti alla moda, era il principio degli anni Settanta, che ne mettevano in evidenza l’ancor bella figura, minigonne, pantaloni a zampa di elefante, scarpe con alti tacchi e zeppe, giacche di pelle e cappotti. Chi avesse visto la mamma per la prima volta sarebbe stato colpito dal perfetto ovale del viso, dalla sua simmetria e dalla fronte spaziosa. L’Incarnato lievemente olivastro dava risalto a lineamenti regolari, simmetrici, a belle labbra carminie, carnose, ai grandi occhi scuri, profondi, leggermente affusolati, incorniciati da sopracciglia nere ben disegnate con un bell’arco. Se si desiderava che quel volto apparisse ancor più bello, bastava solo farla sorridere. E allora i denti rilucevano come perle.
Ogni giorno fino a sera, donne d’ogni età, nobildonne e operaie, contadine e professoresse, casalinghe e prostitute, affollavano così la casa di Via Galliera. Tutte adoravano la mamma perché elargiva loro una buona parola, fiducia e forza d’animo.
«Ch’la véggna mo’ con mé, venga allora con me!», diceva prendendo a braccetto le donne in attesa nel salotto quindi disponeva sul lucido verde della scrivania le Navalde del Mago ormai consunte per l’assidua mischiatura.
Aprendo la porta di casa al ritorno dalla scuola, mi trovavo dinanzi a un brulicare di donne in silenziosa attesa; molte signore mi vedevano come figlio o nipote ideale, tant’ero educato, studioso e sempre ben vestito. E quando la mamma usciva dalla stanza per salutarmi:
«Ciao, Nani», diceva baciandomi con orgoglio di fronte alle donne sorridenti che approvavano compiaciute.
«Ciao, Mami», rispondevo imbarazzato.
I baci non si addicevano più alle guance di un adolescente, ma all’orgoglio materno non interessava la mia soggezione.
(Continua)