Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte trentacinquesima

Per diverso tempo non ho sognato il babbo di buon grado: me lo rappresentavo anziano, cupo, severo, greve, peggio di com’era nell’ultimo periodo di vita segnato dalla sofferenza cardiaca; appariva nel mezzo del sogno attraversando la soglia della stanza senza proferire alcuna parola con uno sguardo scuro concentrato in sé. Il mio doppio onirico si sentiva allora corrucciato, afflitto: «Ecco, è ritornato» e il risveglio era attraversato da turbamenti colpevoli perché temevo che la scena onirica esprimesse una verità nascosta dalla mia coscienza. Eppure il babbo mi adorava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per me. Lo chiamavo babbone. Sedevo spesso sulle sua ginocchia, immersi nella foschia grigiastra delle sigarette. Non era prodigo di affettuosità: ci separava sulla strada della vita una lunga distanza di quasi cinquantasette anni, strada che per lui iniziò durante il regno di Umberto I, pochi giorni dopo le cannonate contro la folla di manifestanti ordinate dal generale Fiorenzo Bava Beccaris. Con me non aveva bisogno d’alzare le mani o la voce: i lampi volitivi e severi dei suoi occhi cerulei ottenevano obbedienza assai più efficacemente. Una sola volta mi diede uno scapaccione ma per una futile cosa perché il poco è più significativo del tanto: avevo scritto male corretto oralmente sul quaderno di italiano. Per ripararmi dalle sferzate delle sue pupille correvo a ripararmi dalla mamma. E per evitare le sgridate della mamma mi rifugiavo dal babbo. Lo temevo ma gli volevo un gran bene. Pur lasciandomi uscire da solo per andare in giro nel centro, all’età di dieci anni, il babbo non aveva mai gradito che andassi a giocare con gli altri bambini in strada; per questo motivo non ho mai imparato le regole del calcio così, quando mi capitava una pallone davanti, tiravo impacciato a casaccio. L’interesse non seminato non potè successivamente spuntare. Talora in primavera mi lasciava andare a giocare con una dirimpettaia ai giardini di Porta Galliera perché c’era la madre e poi incontravo altri bambini solo per due mesi durante le vacanze estive, al mare e in montagna, a Vergato. Avevo bei giochi, trenini elettrici, piste policar, i lego, ma giocavo da solo, o meglio, sotto lo sguardo dei suoi occhi cerulei. Giocavo a carte, conoscevo i giochi d’azzardo, la cocincina, il poker, ma con lui. Giocavo a scacchi e a dama. Sempre con lui. In compenso il babbo ebbe il merito di gettare le basi per l’amore verso lo studio e il bello poiché mi lasciò completa libertà per la musica e per la lettura, potevo fare i buchi nei dischi d’opera e leggere qualsiasi libro della biblioteca senza limitazioni, non c’erano libri proibiti per me bambino: dovevo imparare, conoscere, sapere. E senz’altro avrebbe avuto da raccontarmi tante cose mirabili ma non fece in tempo perché ero troppo piccolo per comprenderle nel loro significato più profondo. Fu un’infanzia consona a un bambino? Non penso che non lo sia stata: sono cresciuto percorrendo un sentiero inconsueto, forse più difficile rispetto a quello di altri bambini, ma le cose difficili, se giuste, non sono mai negative e radicano più profondamente. La mamma, dopo la morte del babbo, subito aprì le porte della casa concedendomi tutta la libertà che desideravo per recuperare il ritardo sulle amicizie. Mi trattava da grande. E non solo seguì il desiderio del babbo perché conseguissi un buon livello di istruzione e di cultura ma non pose mai limiti ai miei desideri di acquistare libri, dischi, di andare a teatro o al cinema. «Chi studia non si troverà mai intrigato nella vita. Io questo lo so bene perché la nonna mi mandò a scuola fino alla terza elementare…pativamo la fame, c’era bisogno di soldi», diceva la mamma. Durante il Liceo adottai un modo di pensare razionale e analitico, cosicché ogni benedetta cosa di questo mondo non poteva avere dei contorni indefiniti, doveva essere ingabbiata in una classificazione nonché essere spiegata individuandone la causa o appiccicandone una. Facevo i salti mortali perché questo sempre avvenisse. La Professoressa di Lettere, avvertendo in tutto questo un aspetto da contenere, una volta mi disse per evitare che si evolvesse in sofferenza: «Sei troppo razionale…troppo rigido…sei troppo ingabbiato dai tuoi ragionamenti.» cantilenando, in cerca delle parole giuste, «Leggi Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. All’entrata della libreria Feltrinelli ce n’è una pila… Poi ne parleremo insieme.» E non se ne riparlò più perché rimase incinta. Secondo la professoressa il romanzo, capolavoro del realismo magico, avrebbe dovuto lenire il male della mia eccessiva razionalità, ma non immaginò che la medicina da lei prescritta e il mio malessere intellettuale coincidessero poiché nella verosimiglianza dei personaggi e dell’ambientazione sono inseriti aspetti magici o sovrannaturali che rompono il contatto con la realtà; nel libro, quindi, si rispecchiava il mio passato e il mio presente. Con la mamma, infatti, l’aura che riempiva la casa continuava a essere inquietante e magica come negli anni in cui il babbo operava, con la differenza che non, essendo più bambino, non subivo passivamente ciò in cui ero immerso ma iniziavo a ragionare con il mio cervello. Il razionalismo diventò un efficace espediente per prendere le distanze da un universo fuori dal tempo e dallo spazio, di differente materia all’apparenza inconciliabile con quella concreta ordinariamente conosciuta dai nostri sensi. Ma questo mondo continuava rivelarsi a me noncurante della mia razionalità. (Continua)

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