Il Tempo e le Anima (A mio padre e a mia madre) – Parte trentaseiesima

Al Liceo compresi che studiando latino e matematica durante la notte rendevo meglio. Mi sistemavo nella camera da pranzo con tutte le lampadine accese come se si fosse dovuta tenere una festa da ballo perché la luce mi pareva attutire i rumori che udivo. Tutti i mobili di legno, producono normalmente qualche sporadico scricchiolio organico, tic…tac… cric… crac ma, in casa mia, questo avveniva in maniera particolare: erano talora grappoli di scricchiolii, crepitii che rimbalzavano in dialogo tra un mobile e l’altro; rumori venivano anche dal pavimento in assi di legno calpestato da qualcosa di invisibile ma pesante. Nonostante che, in questa fase della mia vita, magia e spiriti non dimorassero comodamente in me, aiutavo volentieri la mamma, e anche mi divertivo, come avveniva qualche anno prima, nella creazione di talismani per facilitare la buona sorte. Io facevo tutto il lavoro manuale secondo ciò che avevo visto con il babbo quale aiutante di bottega mentre la mamma dava la assai più importante pennellata finale e vi metteva la firma esorcizzando il talismano per asservire uno spirito alla persona che lo avrebbe posseduto. E vedevo anche volteggiare un tavolino durante le sedute spiritiche a cui la mamma mi chiedeva di partecipare per chiudere la catena medianica. E prima delle interrogazioni o dei compiti in classe la mamma mi anticipava con le Navalde ciò che sarebbe avvenuto e accettavo il suo aiuto per ottenere i migliori risultati. Come negli anni passati, i miei compagni non sapevano che lavoro facesse la mamma né che io fossi figlio di due maghi, ma la Maga, avendo acquisito notorietà, riceveva, quando ero a scuola, le mamme di alcune mie compagne a mia insaputa. Per risolvere il conflitto tra vita quotidiana e pensiero, per rendere a questo accettabili magia e spiriti, si configurarono allora nella mia mente due cassetti indipendenti e non comunicanti, uno per tutto ciò che era compatibile con la razionalità, lì stavano anche il babbo e la mamma nel loro primario ruolo di genitori, nell’altro dove infilavo tutto il resto, tutto ciò che riguardava la Magia, compreso il Mago e la Maga che mi avevano messo al mondo. Così sentivo chiaramente l’aura particolare della casa ma fingevo di non sentirla, mi obbligavo a ignorare le cause che, pur conoscevo, di certi fenomeni, chiedevo aiuto agli spiriti ma subito dopo era come se questo non fosse stato: intendevo di ingannare i miei sensi e la mia consapevolezza. Questa innaturale damnatio memoriae adolescenziale non durò invero molto. Scegliendo la facoltà universitaria disattesi le aspettative del babbo che avrebbe sperato in un figlio medico; la mamma, invece, avrebbe accettato qualsiasi mia decisione che cadde infine sulla facoltà di Fisica per avvicinarmi alle cause e alla struttura delle cose al di là delle apparenze, lontano da tentazioni metafisiche e metapsichiche. E un amico del Liceo con disturbo bipolare, iscritto alla Facoltà di Filosofia, durante una delle fasi di euforia malata che lo portavano fuori di casa, mi lesse passi da Il Capitale in cui intravvedeva delle conoscenze alchemiche, esoteriche, magiche. Osteggiai queste osservazioni sia perché le espressioni di Marx mi parevano solo metafore per drammatizzare le proprie teorie, sia perché esse andavano a rimestare in profonde questioni del mio essere non ancora ben sistemate stupendomi al contempo per la naturalezza con cui l’amico aveva introdotto questi argomenti estranei, fino ad allora, alle nostre conversazioni. Il clima di quel periodo, era il ’77, il periodo degli Indiani Metropolitani e dei carri armati nella zona universitaria, le nuove letture, le nuove musiche, l’allontanamento dalla politica attiva e la frequentazione del mio amico liceale all’inizio del suo disastro esistenziale, contribuì a erodere la base della turris eburnea di razionalità in cui mi ero arroccato. Negli ultimi giorni del 1989 la mamma e io lasciammo la vecchia casa di Via Galliera per trasferirci in quella acquistata dal babbo poche ore prima della morte, più di vent’anni prima. Questa nuova casa era muta rispetto alla casa delle meraviglie di Via Galliera, non s’udivano rumori enigmatici, non mi sentivo addosso il peso di una densa atmosfera traslucida particolare eppure, proprio qui il processo di riconciliazione si completò: i due cassetti nella mia mente presero a comunicare reciprocamente senza che nessuno dei due ambiti lontani invalidasse l’altro o prevalesse. Occorsero più di cinque lustri perché, accanto a testi di fisica, saggi filosofici e musicali, alle opere letterarie, ai cari dischi, collocassi i vetusti libri di magia appartenuti al babbo, relegati in cantina alla stregua di una messa all’indice. Subissai la mamma di domande per ottenere risposte che soddisfacessero il mio bisogno di una maggiore conoscenza del babbo e della sua Opera. La mamma volentieri mi assecondò. E agli amici e ai colleghi di lavoro che non conoscevano l’unicità dei miei genitori dicevo, come prima cosa, per aumentare il loro stupore: «È difficile essere figlio di un Mago ma essere figlio di Mago Merlino e Fata Morgana è assai improbabile ma non impossibile…Eccolo qua!». L’imbarazzo aveva ceduto il posto all’orgoglio.

(Continua)

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