I neurochirurghi del Bellaria avevano rivalutato ed escluso l’opportunità di un intervento al cervello; la mamma sarebbe quindi uscita dall’ospedale profondamente invalidata: epilettica, emiplegica alla parte destra del corpo, nutrita con un sondino naso-gastrico, afasica, aprassica e incapace di interpretare una parte del campo visivo. Come poter gioire per il presente prefigurando il futuro che la mamma e io, di riflesso, avremmo dovuto affrontare? E quanto futuro? Trascorsero pochi giorni dalla negativizzazione della Covid, le norme per il contenimento della pandemia erano state allentate permettendomi di fare interminabili camminate sui colli, dentro e intorno la città per dissipare l’energia ansiosa continuamente prodotta, che incontrai davanti alle Sette Chiese un soprano russo di nostra conoscenza assai credente: «Sono state le preghiere del figlio ad avere salvato la madre», commentò con commossa partecipazione, parole assai semplici, e al contempo particolari, dette senza sapere se fossi religioso oppure quanto lo fossi, senza sapere se fossi uso a pregare e, ancor più, senza nulla conoscere dell’esorcismo per la mamma. Mi emozionai pensando alla coincidenza dell’esorcismo con la remissione della Covid. Non potevo negare la coincidenza ma non volli supporre una sequenza di causa ed effetto tra l’esorcismo e la guarigione: il raziocinio mi impediva di farlo però il mio pragmatismo disse altra cosa e, insieme al mio cuore, mi obbligarono a ripetere l’esorcismo ogni giorno, senza più riflettervi. E solo al penultimo giorno della mamma mancai di eseguirlo. Fu dimessa dall’Ospedale Bellaria alla fine di maggio. Secondo la neurologa aveva senso e poteva sostenere una riabilitazione ma i medici e i fisioterapisti della clinica specializzata, invece, subito non intravvidero alcuna possibilità di recupero né motorio né verbale e, proprio per questo motivo, aggiunsero che mi dovevo industriare a trovare una casa di riposo perché la degenza sarebbe stata assicurata solamente per trenta giorni, non avendo senso i sessanta suggeriti dal Bellaria. Accettare l’idea della mamma fuori dalla sua casa accudita da persone che non avevano con lei alcun legame fu uno scoglio subito rifiutato, nonostante le parole di medici, parenti, amici capaci di valutare i fatti in maniera più distaccata: volendole restituire una parte di quanto mi aveva donato non ragionavo secondo il senso della necessità. Le soluzioni domiciliari per l’assistenza che avevo prefigurato vennero cancellate quando, trascorse le obbligatorie due settimane di quarantena, potei incontrare la mamma per una sola mezz’ora nel giardino della casa di cura, dopo cinquantaquattro giorni di lontananza. Vedendomi, si mise subito a piangere disperatamente, a urlare senza parole; dimenava con grande forza il capo e la metà sinistra del corpo capace di muoversi trascinando la metà inerte. E aveva il sondino naso-gastrico alla narice tenuto fermo da un cerotto. Tentai di calmarla senza risultato: pareva posseduta da un demone. Una pena. Sulla carrozzina stava mia mamma e al contempo non era lei. Riconoscevo solo il giubbino rosa con un cuore ricamato sulla sinistra e la parola love. La Covid l’aveva riplasmata: il volto era, nonostante tutte le malattie, bello, quasi ringiovanito, ma i lineamenti apparivano più duri, più affilati, la bocca e l’arco dentale, forse per il dimagrimento, sembravano più grandi di come li avevo sempre visti, i capelli, seppure diradati, s’erano scuriti. Lo sguardo filtrava con difficoltà attraverso le palpebre tenute strette da un pianto senza lacrime. Sfuggiva il mio sguardo, come se su di me ricadesse la colpa del suo stato e del ricovero. Chissà che cosa aveva vissuto? La Medicina è vessatoria se prolunga la vita senza ridare salute. Confesso che mi rivolsi a mio padre perché, con un atto d’amore, facesse terminare per sempre, in quel momento e innanzi a me, la sofferenza. Altre volte, più tardi, ripetei questo pensiero in pesante conflitto con il mio sentimento. Mi convinsi che le parole degli altri, l’impossibilità di assistere la mamma a casa, non erano contro il mio poco lungimirante egoismo ma, piuttosto, per il bene di lei. I giorni della Covid obbligavano in uno stretto vicolo da cui non era possibile arrivare ad alcuna meta: le case di riposo ancora non potevano accogliere nuovi ospiti, come ancora prevedeva il protocollo nazionale per il contenimento della pandemia; la mamma, già iscritta nella graduatoria cittadina per l’accesso alle case di riposo convenzionate con il Comune, era al trentaduesimo posto; questo avrebbe comportato, alla riapertura delle case di riposo, l’attesa di almeno un mese prima di potere essere accolta. E con un colpo di fortuna riuscii invece a prenotare una sistemazione in una casa di riposo a pagamento come soluzione transitoria, a Rastignano, sui colli cittadini. Al ritorno dalla casa di cura per la riabilitazione, informai l’assistente sociale che, dopo due settimane, sarebbe stata dimessa e questa esercitò la facoltà, concessa dalla commissione comunale, di aggiungere l’urgenza alla posizione nella graduatoria per accedere alle case protette convenzionate; il giorno successivo, dopo l’aggiornamento, la mamma era diventata seconda nella graduatoria. La coordinatrice della casa di riposo, con cui avevo preso accordi per un posto a pagamento, annullò la mia prenotazione in attesa che i servizi sociali comunali effettuassero l’assegnazione dei nuovi posti. E trascorsero appena meno di dieci minuti che squillò il telefono: era la coordinatrice salutata poco prima che, con tono lieto, mi informava della riapertura alle case di riposo aggiungendo: «Tra tre giorni possiamo accogliere sua mamma nella nostra struttura.» La mamma, durante l’attesa dell’ambulanza che l’avrebbe condotta nella nuova, definitiva, dimora, prese a disperarsi assai più di qualche giorno prima. Troppi volti estranei, troppi rumori, troppi cambiamenti, capacità ridotta di interpretare quella situazione. E troppo lontana dalla sua casa, la sua cara tana. Basta, lasciatemi in pace, non ne posso più, sembrava supplicare. Stavo tradendo la mamma. Seguendo l’ambulanza in automobile lungo i viali di circonvallazione fino a Rastignano la mente riandò agli ultimi avvenimenti, a come si erano, in pochi giorni, sviluppati incastrandosi perfettamente, come se i pezzi sulla scacchiera del destino fossero mossi da un potente giocatore, alla cui strategia non era possibile sottrarsi; la vittoria finale era un evento giusto ma anche causa di ulteriore sofferenza, una buona sorte per la quale non riuscivo a provare gratitudine verso quell’abile scacchista sentendomi io l’effettivo esecutore di una pena. Il trasferimento nella casa di riposo fu per la mamma l’inizio di una ingiusta afflizione, per me la rescissione definitiva del cordone che univa il presente al mio primo istante di vita.
(Continua)