Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quarantesima

Qualche settimana dopo il trasferimento della mamma nella casa di riposo pensai che sarebbero state proficue delle sedute con una logopedista. Il medico della casa di riposo approvò l’idea poiché la mamma ancora capiva e collaborava con chi si prendeva cura di lei, pure senza sperare realisticamente in un miglioramento apprezzabile per il grosso danno procurato da tre severe patologie contemporanee ma, almeno, per tentare di rallentare il veloce declino cognitivo. La mamma inoltre piangeva spesso essendo caduta in uno stato di depressione conseguente alle malattie neurologiche e alle loro cure, oltre che per la consapevolezza di sé; un volto nuovo, una persona che si prendeva cura esclusivamente di lei al di fuori dalla routine quotidiana l’avrebbero un poco distratta. Tra la mamma e la logopedista si stabilì un legame d’affetto. Al primo esame, la mamma si dimostrò capace di mangiare da sé con un cucchiaio tenuto dalla mano sinistra e riusciva a deglutire il cibo solido. Ma quando la dottoressa le porse un oggetto assai familiare, un pettine, lo tenne in mano senza sapere a che cosa servisse, «E ora?» sembrò dire con uno sguardo dolcemente interrogativo: la mamma non era più in grado di organizzare o eseguire comuni azioni quotidiane che, occultate dal danneggiamento cerebrale, dovevano essere riportare in superficie, una alla volta; la logopedista, come una centralinista di un tempo, doveva inserire dei cavetti elettrici in un pannello per permettere il contatto tra due persone lontane impossibilitate a udirsi: il cervello e la mano sono le persone distanti da fare colloquiare, ogni frase contiene il compito che la mano deve eseguire. Le sedute costavano alla mamma un grande dispendio di energie mentali e fisiche. Mi venne il magone. Con pazienza, mimando i gesti e incoraggiandola, la connessione del cervello con la mano per l’azione di pettinarsi specchiandosi fu ripristinata; riuscì anche a darsi la crema sul volto con soddisfazione, come prese a fare disegni elementari e a comporre figure con i chiodini colorati per piccoli bambini. La mamma compensava la quasi totale perdita del linguaggio con una grande espressività del volto, un po’ come fanno anche le persone sorde, e usando la mano sinistra, soprattutto il dito indice. Quando non capivo talora si spazientiva alzando gli occhi al cielo: in quelle occasioni riuscivo anche a sorridere. Ed eravamo, io e la mamma, soli nella sala della casa di riposo adibita alle visite dei parenti quando fissò un punto verso la vasistas della porta-finestra con espressione concentrata e incuriosita; io le chiesi che cosa vedesse, se fosse un uomo, una donna, un bambino, una bambina, un animale. No. È una cosa bella? Annuì. Avevo in precedenza raccontato alla dottoressa chi erano stati i miei genitori, degli spiriti, senza rilevare alcun suo stupore e che la mamma, essendo da sempre in contatto con il babbo, era frequente che lo sognasse di notte.
La dottoressa potè assistere a queste conversazioni della mamma tra sé e l’interlocutore invisibile: «Non sono allucinazioni. Di norma comportano uno stato generale di agitazione, mentre la sua mamma è serena.» «E allora di cosa si potrebbe trattare?» «Lei ha gli elementi per rispondere.» Talvolta portavo con me in borsa il suo talismano personale che le mostravo quando riuscivamo a stare soli. La reazione, alla prima volta, fu felicità e pianto per avere ritrovato un amico, quindi lo portò alla fronte esattamente sulla zona che le procurava l’infermità; l’unica cosa che mi sentii di fare fu pronunciare, finalmente innanzi a lei ed emozionato, l’esorcismo del babbo. Chiedersi quanto siano stati efficaci gli esorcismi, se essi concessero alla mamma un insperato allungamento di vita più che raddoppiando il tempo massimo diagnosticato dalla geriatra dell’Ospedale Maggiore oppure se abbiano dato alla mamma la forza interiore non per sé ma per farmi dono del tempo per abituarmi alla sua assenza, dono estremo che è stato da lei pagato con il prolungamento della propria sofferenza, sono domande a cui è impossibile dare risposta. Pochi giorni dopo il buon esito di un controllo neurologico al Bellaria, piccoli peggioramenti quotidiani principiarono a ingrossare la precarietà della mamma, mutamenti che dapprima furono notati da me ma non dal medico della casa di riposo né dagli altri operatori sanitari: le forze diminuirono tanto che le riusciva difficile tenere il capo ritto senza appoggio, s’assopiva sempre più spesso durante la visite, smise di pronunciare quelle quattro o cinque parole tuttofare per lasciare campo a soli flebili suoni rauchi. E una mattina della terza decade di luglio 2022 incontrai la mamma in un angolo del giardino al riparo dalla calura. Si risvegliò totalmente dal sopore di sofferenza con il bisogno di parlarmi per un discorso con toni affettuosamente solenni come fece diverse volte quando era ancora in salute. Ma come esprimere i pensieri se le parole si perdevano, se a esse era preclusa la via maestra del significato per raggiungere il cuore del figlio? I pensieri dovevano seguire un’altra strada: il suo sguardo profondo costituiva il bandolo delle parole perdute e incomprensibili. I begli occhi ora esprimevano teneramente d’avere tanto sofferto senza avere mai provato verso per me alcun rancore, dicevano che il suo amore non era cambiato, che era come quello del primo giorno, che non dovevo pensare alla sua fine, che dovevo pensare a me stesso, che dovevo prendere cura di me, che non dovevo restare solo. Con la mano franca strinse le mie poi mi abbracciò e baciò ripetutamente: il commiato. Mi commossi e allora il volto si rabbuiò, lo sguardo diventò severo, e con l’indice sinistro additò le mie lacrime. Se avesse potuto parlare mi avrebbe detto «An zighèr brîsa, sèt? A m arcmànd!», mi raccomando non piangere mica!, com’era accaduto quando, il primo giorno di primavera del 2020 e l’ultimo giorno della mamma in casa sua, l’infermiere del pronto soccorso mi bloccò poiché, essendo in pieno lockdown per la Covid, non potevo accompagnarla all’ospedale; e ancora mi ordinò di non piangere, «An zighèr brîsa!», con l’indice puntato e sguardo severo mentre la stavano caricando sull’ambulanza. Senza le parole è possibile vivere ma non senza la capacità di deglutire: il boccone ora sempre più spesso le usciva dall’angolo della bocca e andava di traverso oppure l’acqua trovava la via d’uscita del naso. Il medico si convinse infine della necessità di introdurre i liquidi per idratarla attraverso le vene; io però chiedevo che fosse alimentata artificialmente, ma occorreva la prescrizione ospedaliera, e secondo il medico non c’erano le condizioni per un ricovero. «La lasci andare in pace» era quanto il medico non mi diceva. E una sera in preda all’agitazione e a brutti pensieri telefonai alla casa di riposo; rispose l’infermiere di guardia, un giovane uomo dolcissimo pure lui curato per un male neurologico al Bellaria, che mi disse: «Le parlo con il cuore… La sua mamma deve essere condotta in ospedale al più presto: in questo stato non ha tre giorni di vita.» All’indomani mattina mi recai alla casa di riposo per parlare con il medico; non le mie parole lo convinsero a un ricovero d’urgenza ma lo stato della mamma: respirava faticosamente ed era positiva alla Covid. Ancora non la potei accompagnare. Una telefonata dal Pronto Soccorso dell’ospedale Sant’Orsola mi informò che la mamma aveva anche un focolaio polmonare e ancora rispondeva agli stimoli; l’avrebbero trasferita presso il reparto delle malattie infettive. Qualche ora dopo fui richiamato: era una polmonite ab ingestis dovuta alla cattiva ingestione di cibo o di acqua, proprio quanto avevo temuto e sperato di evitare, che si sovrapponeva alla Covid. E si aggiungevano le altre cose, la cachessia e la sofferenza cerebrale. Un’ennesima sfida per la mia povera mamma. Nuovamente vinse la battaglia contro entrambe le infezioni per cui, dopo avere l’ospedale escluso la possibilità di un’alimentazione artificiale, impraticabile visto lo stato della mamma, fu dimessa. La vidi durante il trasbordo dall’ambulanza alla sua stanza nella casa di riposo e capii che non vi era più futuro; mi avvicinai per prenderle le mani, per baciarla, per dirle delle cose dolci ma lei sembrava non sentire. Era l’11 agosto 2022. La mattina successiva ebbi fugaci istanti per vedere la mamma mentre nuovamente veniva caricata sull’ambulanza per una crisi respiratoria. Aveva lo sguardo spaventato. Al Pronto Soccorso mi chiesero l’assenso per l’accompagnamento al fine vita e fu condotta al reparto di osservazione dove potei starle accanto.

(Continua)

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