Dei paraventi bianchi celavano le vecchie madri immobili senza la forza di appena socchiudere le palpebre. Le loro coscienze esauste, ancora vigili, provavano pena per i due figli accanto ai letti con sguardi inerti aridi di pianto.
La mamma era stata una rigogliosa rosa carminia, ora, essiccata dalla sofferenza, stava per staccarsi l’ultimo petalo avvizzito; l’anima era legata al suo corpo cachettico con un filo talmente debole che anche una forbice fatta di nulla avrebbe potuto reciderlo. Qual è la misura della gratitudine di un figlio verso la madre per avergli dato vita? Essa non può dispiegarsi nell’illimitatezza perché il vivere inizia con lacrime, né reca vera felicità, e sfuma nel disfacimento. Quale unico degno contraccambio d’amore per il dono di carne e spirito, quale gratitudine estrema, avrei ora voluto soffiar via quel petalo, recidere il legame dell’anima con le mie mani, liberando la mamma dall’ultimo infinitesimo di vita.
«Perdonami, perdonami, perdonami…», principiai a ripetere, seduto, con le mani giunte che penzolavano tra le ginocchia divaricate, come se fosse una muta orazione. Mille rivoli di sentimenti si congiunsero in un solo impetuoso torrente che mi invase: il rimorso per quanto avevo fatto e per ogni mancanza. Oh, se avessi potuto fare un salto all’indietro nel tempo per emendare i miei inganni! Come avrei voluto tentare tutte le strade che avevo evitato!
E come un corpo ferroso viene attratto da un magnete, la mamma ambiva la morte con gioia sovreccitata, senza limiti, quanto prima le generava angoscia. Pregava in un latino storpiato dal tempo e dalla malattia, flebile eco della lontana infanzia, perché la propria fine avesse un senso preciso, che fosse il paradigma della propria vita e chiese di ricongiungersi al babbo nel bel giorno di festa dell’Assunzione di Maria per significare a me «Non corrucciarti, non piangere, questo è il giorno bellissimo in cui la Madre di tutte le madri è salita in cielo; ma tu per parlarmi non dovrai alzare il capo verso il cielo poiché io sarò con te ovunque, in ogni momento…»
E l’anima della mamma vinse allora la mia titubanza inducendomi ad andare via: «Va’ a casa, va’ a curare il mio Lillo perché ha grande bisogno di te». Obbedii come un automa.
Nel suo ultimo istante la mamma schiuse gli occhi e vide davanti a sé l’amata specchiera veneziana acquistata con me in Strada Maggiore durante un tiepido pomeriggio primaverile; ci fermammo davanti a una vetrina di un’antiquario occupata da mobili intarsiati, statue bronzee in stile secondo impero e, alle pareti, diverse specchiere con varia foggia, più o meno antiche. Tutte avevano cristalli brillanti, ben luminosi cosicché l’immagine specchiata era il fedele doppio di una piccola parte del mondo; solo una specchiera restituiva l’immagine con meno luce, più cupa, verdastra ma, proprio per questo, più affascinante e dotata di un attraente mistero. E la mamma si rispecchiò nella profondità marina di quell’ottagono stranamente riflettente così com’era, con tutta la sua vecchiaia ma, dietro all’immagine di sé rispecchiata, ve n’era un’altra di poco scostata: era sempre se stessa ma in un piccolo istante di poco precedente e dietro un’altra immagine precedente a questa, e così via ancora. Erano miriadi di immagini differenti, una per ogni particella infinitesima di tempo a ritroso, sempre la mamma in ogni suo istante passato. Esse formavano il libro della sua vita, in cui l’ultima pagina si ricongiungeva con la prima, quella della nascita.
«Il tempo più non mi affliggerà, tutto ciò che ho vissuto, gioie, dolori, ricchezze, povertà, successi, tribolazioni, giorni, notti, vicinanze, lontananze, rivivranno insieme in un eterno presente. Sarò per sempre chi sono stata e sarò sempre chi sono, per sempre, per sempre, per sempre…», colma di gioia e consolazione. La specchiera le parve la cosa più bella che avesse mai visto: la sua superficie separava il vero dai sogni. Tante volte, in vecchiaia e durante la malattia, aveva sognato di morire senza capire se stesse sognando oppure se stesse davvero morendo, tante volte aveva sognato chi c’era e chi non c’era più, carni e anime, luci e ombre, purgatori e paradisi, Cielo e Terra. Alla fine si convinse che i sogni fossero epifanie dell’Aldilà, sperando di allontanarsi dai vivi negli istanti del dormiveglia attraversando la soglia di un sogno. E la mamma, tendendo con forza le braccia verso lo specchio, ne attraversò la superficie per aggiungere la pagina finale a quel libro meraviglioso. Il muto patto invocato era stato rispettato dall’Aldilà: si era liberata da sé stessa nel giorno dell’Assunzione in Cielo della Madre Celeste.
Mi risvegliò il suono del cellulare. Abbandonai il sogno che si prolungò nella realtà: la mamma era morta. L’orologio vitale del suo cuore aveva esaurito la sua carica di tempo alle tre e ventisei del giorno di Ferragosto dell’anno duemila e ventidue per un arresto cardiaco. «Non ha sofferto», mi disse il medico di guardia.
Avevo accanto Lillo: per lui non ero stato presente negli ultimi istanti della mamma.
La sera prima avevo deciso di sfidare il destino: «Lillo ha bisogno di due iniezioni…domani mattina sarò qui assai presto. Vuoi che la mamma spiri proprio durante queste ore?» E persi a quella roulette russa. Un gatto vale quanto un essere umano? «Tutte le anime sono uguali», mi rispose una voce interna proveniente dal sogno.
Le strade di Bologna alle quattro del mattino di ferragosto erano deserte. Arrivai in pochi minuti al reparto di Medicina d’urgenza dell’Ospedale Sant’Orsola. Era stata avvolta con un robusto sudario candido lasciando scoperto il volto, ben illuminata dalla luce posta sopra il letto. Pareva essersi addormentata con la bocca semiaperta, un’inspirazione per fame d’aria, oppure per l’esalazione con un respiro dell’intima essenza. «Chissà se dopo la morte sopravvivono i sogni?»
Stetti dapprima in piedi a osservare la sola persona che avevo veramente amato.
«Questa coincidenza ha un significato?» mi chiesi, ma subito mi scrollai questo pensiero di dosso; tante madri, mi dissi, sarebbero morte durante quel giorno e quella coincidenza era solo l’incontro casuale di due eventi indipendenti, non correlati: la statistica, la prudenza del raziocinio mi allontanava da qualsiasi altra spiegazione. Seduto al capezzale del letto le accarezzai lentamente il volto e il corpo fasciato, la baciai più volte sulle guance, più volte sulla fronte, le posi una mano sul capo, l’altra sulle mani nascoste dal sudario, senza mai staccare gli occhi dal volto perché la memoria si saturasse di quella vista e di sensazioni tattili che dovevano perdurare fino alla mia fine. Avvertii il tepore della vita che pian piano stava svanendo.
«Da oggi la morte non mi fa più paura.»
(Continua)