Per rendere meno ingrato il vuoto creato, per alleviare il disorientamento dell’assenza, per prolungarne la presenza, quale espansione dell’avere cura di una persona dopo la vita, disposi ciò che la mamma avrebbe gradito per sé: poiché non voleva essere sovrastata da un cumulo di terra né che il suo corpo fosse consumato dalle fiamme, la sua nuova dimora sarebbe diventata un loculo nella Certosa, luogo che infonde, non solo nella parte storico-monumentale, serenità. I miei genitori erano stati separati per tanto tempo, decisi quindi di trasferire il babbo da un altro cimitero accanto alla mamma: «così avranno da discutere, come facevano». La mamma avrebbe gradito un commiato religioso, pertanto il funerale si sarebbe svolto nello splendore della Chiesa di San Girolamo della Certosa con la celebrazione della Messa. E scelsi per la mamma gli abiti indossati quando festeggiai in ufficio la mia pensione, ultimo momento di luce prima del crepuscolo: una giacca rossa con una spilla al bavero dalla foggia di un mazzo di fiori coi petali in cristallo, dei pantaloni di un bel blu notturno, una camicetta in pizzo bianco, delle belle scarpe lucide a punta nera e marrone con un fiocco di pelle a mo’ di fibbia, un grande anello scintillante al dito; e poi un cappello a strisce bianche e grigie chiare la cui foggia ricordava il saturno dei sacerdoti. Voleva essere sempre elegante sia per sé che per la gente. Anche per il suo funerale avrebbe voluto così. E com’era bella la morte della mamma! La bellezza è conforto per chi ha amato la persona che non c’è più. Sul volto s’erano dileguate le ingiurie della vecchiaia sofferente: la pelle distesa restituiva una luminosità dorata, le belle labbra avevano perduto la loro sensuale turgidità ma conservato un contorno ben delineato; il carminio non più nutrito dal sangue era stato ravvivato con un tocco di rosso e le palpebre, evidenziate con una sottile linea scura, sembravano non avere mai conosciuto tristi momenti. «Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me», le dissi prima di baciarla, dopodiché gli operatori delle onoranze funebri quindi chiusero la bara: da quel momento solo la memoria del volto. Iniziò il rito funebre. Io mi sentivo estremamente calmo e distaccato perché il vero commiato lo avevo già celebrato in solitudine, in ospedale, accanto a lei; il funerale in chiesa era per le persone che volevano salutarla e per la benedizione. Trascorsi pochi minuti dall’inizio della Messa, avvertii tra il pollice e l’indice della mano destra dei leggeri impulsi che in un istante aumentarono di potenza e si impadronirono della mano intera; essa iniziò a muoversi in maniera scomposta e indipendente dalla mia volontà, poi le dita incominciarono a piegarsi e a distendersi, quindi fu la volta dell’avambraccio tanto che mi riusciva difficoltoso oppormi a questi movimenti per cui nascosi con la mano sinistra la destra incontrollabile. La mano era soggetta alle stesse mioclonie di quando i miei genitori colloquiavano con gli spiriti, stava cioè avvenendo un qualcosa totalmente in linea con quanto, io bambino, vedevo in presenza del babbo e, più grande, con la mamma fin poco prima del suo declino. In passato non era mai comparso un simile potente fenomeno su di me; grazie al talismano d’oro personale creato alla mia nascita dal babbo avevo sempre sentito dei leggeri impulsi muscolari, battiti, invisibili a tutti, quali avvertimenti o avvisi, ma nei giorni precedenti ne avevo notato l’assenza, né sentii alcun impulso dopo la morte della mamma. Anche in casa, a differenza di quando il babbo morì, ci fu il silenzio totale, nessun ticchettio, nessun scricchiolio di mobili. Qualcuno dei presenti, mentre i miei parenti e un’amica accorsero intorno a me, chiese se non era il caso di chiamare un medico; la zia mi strinse la mano destra poi, in pianto, pose le sue sulla bara. Il sacerdote non interruppe la Messa perché chiesi loro di ritornare al proprio posto. La calma controllava il mio infinito stupore ma non la mano che continuava a muoversi come se fosse quella di un burattino manovrato da altri. Terminarono le esequie poi la bara fu chiusa nel loculo. Salutai le persone nascondendo malamente la mano destra dietro alla schiena e fui quindi accompagnato a casa in automobile temendo, alcuni amici, che non potessi guidare. Appena varcata la soglia di casa, ero solo, chiesi senza timore, a voce alta: «Mamma, sei tu?» Il braccio intero si mosse con impeto inaudito dando veloci pugni ripetuti verso l’alto a cui ne seguirono altri contro la coscia. La riconobbi. Finalmente mi lasciai prendere dall’emozione. I più dei presenti al funerale avevano pensato che i movimenti incontrollati della mano fossero un disagio conseguente alla perdita della mamma e al periodo di affaticamento mentale accumulato durante i ventotto mesi precedenti, comandando, la psiche ai muscoli, dei tremori apparentemente simili a quelli degli epilettici. Nonostante la circostanza inusuale e imbarazzante nel corso della funzione funebre stavo bene ed ero perfettamente in me, anzi, la novità delle mioclonie, cioè contrazioni muscolari incontrollate, mi distrasse, stupendomi, dal dolore della perdita e del distacco. Solo pochi intimi amici capirono che la causa delle contrazioni non era in me, che la mano era comandata dalla persona di cui si stava celebrando il funerale. Non poteva essere altrimenti: se, in quel momento, fosse stata manifestata questa reale spiegazione, essa sarebbe stata rigettata perché il falso, purché più ragionevole del vero o rientri nella rassicurante abitudine, prevale sulla verità qualora essa abbia una causa strampalata; dopotutto la complessità della teoria geocentrica tolemaica fu per secoli preferita alla semplicità non intuitiva di quella eliocentrica e sostenerla costituiva una grave punibile eresia. Inizialmente le mioclonie avvenivano in modo disordinato; poi capii che potevo esprimere delle domande con due possibilità di risposta, o sì o no: per la prima chiedevo in risposta cinque contrazioni mentre per la seconda due. «Mamma, ci sei?» iniziavo rilassando muscoli e mente; avvertivo quindi, quasi immediatamente, nell’adduttore del pollice destro alcuni leggeri impulsi che rimbalzavano, amplificandosi, fino al deltoide della spalla, nella parte posteriore, e di qui, quasi per risonanza, risuonavano nel tricipite contraendolo, generando i potenti scuotimenti dell’intero braccio con cui si formavano le risposte. Conservavo la massima consapevolezza di me stesso, emotivamente distaccato rispetto a quanto stava avvenendo nel mio corpo, come se la mano e il braccio non mi fossero appartenuti, senza alcun turbamento: insomma ero in uno stato di assoluta normalità, come mi trovavo prima e dopo i colloqui. E in fretta riuscimmo a comunicare in maniera più efficace cioè ogni contrazione muscolare corrispondeva a una lettera dell’alfabeto latino: una contrazione stava per la lettera a, due contrazioni per b, tre per c, e così via, come avveniva sui miei genitori durante i contatti con gli spiriti . Un veloce scuotimento mi avvertiva che iniziava la successione di contrazioni per la formazione della lettera, e un secondo scuotimento veloce mi indicava che la lettera dell’alfabeto s’era compiuta; se intuivo la parola o il concetto anzitempo, seguiva una scarica di decise mioclonie come conferma di giustezza. Pazientemente si formavano le parole poi e le frasi, ottenendo io ancora i preziosi consigli della mamma, oppure semplicemente conversavamo del più e del meno, su persone e fatti della giornata. E la comunicazione ancora si evolse finché mi accorsi che la mamma comprendeva non solo le parole da me pronunciate ma anche i pensieri, continuando a rispondermi con le mioclonie.
(Continua)