Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quarantaquattresima

Qualcuno dei partecipanti al funerale mi suggerì di osservare l’evoluzione dei fenomeni in cui ero deuteragonista per un arco di due anni, ragionevole lasso temporale necessario a elaborare il lutto nonché per verificare se le mioclonie e i contatti con la mamma si fossero consolidati o affievoliti, se non perfino dissolti quali manifestazioni transitorie. «Devi dare tempo al tempo», mi fu detto. Ma quale tempo? Il tempo dell’Aldilà è identico a quello dei viventi? Tutti percepiscono la maggiore accelerazione del tempo a mano a mano che ci si allontana dalla giovane età; si potrebbe pensare che per i morti esso diventi ancora più veloce cosicché a un loro minuto corrisponda un giorno dei vivi. O forse il tempo è una rappresentazione ingannevole. Il modo di comunicare della mamma si era evoluto velocemente; dacché nei primi giorni consisteva in contrazioni muscolari incontrollabili esso si temperò in affettuose e confortanti conversazioni. «Io non sono morta… Sarò sempre vicino a te» diceva per lenire il malessere dell’assenza. «Sono accanto a te»: e così a teatro la poltrona accanto, spesso rimaneva libera, era occupata dalla mamma, manifestando la sua presenza, così come il gradimento per lo spettacolo, con leggere contrazioni di soddisfazione, sorridenti e complici. In un giorno di mia cupezza la risposta e il tono consolatori cambiarono improvvisamente, come se un pittore con poche pennellate avesse mutato la luce autunnale di un panorama già completato in una chiara e cristallina: «Basta piangere…Io sono viva, sono viva, viva!», le contrazioni muscolari furono particolarmente forti, nette, assertive, perché sentissi nella mia carne la certezza della sua vita attuale. Dire «Non ho denaro» non significa essere in povertà perché la ricchezza potrebbe consistere nel possedere ori, gemme, fabbricati, terreni, pozzi petroliferi, miniere senza avere un centesimo nel portafoglio o in banca e se uno sconosciuto, presentandosi, dicesse «Piacere, non mi chiamo Pietro» affermerebbe una verità che non rivela il proprio nome. Così l’affermazione vaga «Io non sono morta» non esprimeva quale fosse l’effettivo stato della mamma; ben altra cosa era la chiarezza di «Io sono viva» a cui è possibile attribuire il solo significato letterale. Dove cercare dunque la mamma? Forse non esiste l’Aldilà e il nostro Esserci aderisce a quello dei morti perché non vi è alcuna separazione del corpo dall’anima ma una trasformazione in un ulteriore stato rispetto a quello solido, liquido, aeriforme e plasmatico, sconosciuto, percepibile dai sensi solo in maniera indiretta? Mi imposi di rimanere con tali congetture per sempre, di non chiedere mai alla mamma se esse fossero veritiere né di come fosse regolata la vita dopo la morte poiché preferivo l’ignoranza alla paura. Un amico, che mai aveva avuto alcun dubbio sul mio contatto con la mamma volle parlarle. Mi distesi su un divano perché previdi delle risposte con mioclonie faticose. E tali furono. La mamma deviò dal discorso principale: «Rufo, io sono viva!», disse comandando braccio e mano con lo scatto di una rondine che sfreccia sicura verso il cielo terso e turchino, raggiungendo, inebriata dal sole abbacinante, alte quote; ogni lettera della frase veniva espressa con energia sempre maggiore dal basso verso l’alto, e sempre più in alto a mano a mano che si componevano le parole, tanto da dovere tenermi ben saldo al bracciolo e appoggiare saldamente i piedi al pavimento per evitare di scivolare. La potenza delle contrazioni sembravano affermare con gioioso orgoglio che nel nuovo stato avesse conquistato la perfezione dell’essere quasi che noi, vivi, appartenessimo allo spazio e al tempo ormai per lei irreale della sua vita anteriore oppure che rappresentassimo sogni o ricordi nel suo nuovo presente. Non replicai per la stanchezza e l’amico non poté fare altro che commuoversi. Capii che le mie mestizie intristivano la mamma perché il tono delle mioclonie aveva in tali momenti minore nettezza e intensità come se il mio sentire interno fosse una sofferenza per lei. La mamma incorporea preferiva stare su discorsi lievi a cui corrispondeva sorridendo, scuotendomi la mano destra come una piccola ala battente: la lievità, la permanenza nella quotidianità, questi inaspettati toni così lontani da quelli dolenti e tristi con cui le anime morte spesso si esprimono, mi inducevano ad allontanare la tristezza accettando il passato per quello che era stato, senza pensare a quello che avrebbe potuto essere senza compiersi. Basta con pensieri elicoidali, ritorti intorno a se stessi; basta con pensieri inconcludenti che riportano alla posizione iniziale; presi piuttosto a ragionare insieme a lei, a chiedere semplici consigli e qualche indicazione per la giornata proprio come facevo qualche anno prima. Non mi interessava conoscere alcunché del futuro: meglio l’incertezza, meglio la meraviglia o il disappunto dell’imprevisto. Come l’acqua aggira gli ostacoli e segue le vie più brevi, così il linguaggio della mamma si semplificò rendendo più agile la nostra comunicazione con gesti che accompagnano il comune parlare. A volte, anziché la risposta essere formata con contrazioni muscolari per formare le lettere dell’alfabeto, accadeva che, al loro posto, le risposte si esaurivano in un moto della mano, in un gesto che non capivo, all’apparenza senza alcun significato; e la mamma, ripetendo io la domanda, rispondeva con il codice alfabetico da me fino a quel momento utilizzato perché comprendessi. Ma un giorno improvvisamente mi si aprì la mente allorché, per una risposta che avrebbe dovuto essere o si o no, la mano si piegò a martello e, alternando, per tre volte si mosse in su e per tre volte in giù: era come la mamma avrebbe fatto annuendo con il capo. Feci la prova riformulando la domanda dimodoché la risposta corretta fosse negativa, e la mamma ruotò in maniera decisa la mano a destra e a sinistra per tre volte: era no. Alla richiesta di conferma della risposta, il no si ripeté in modo uguale. E apparirono altri movimenti di risposta; per comprenderli dovetti rappresentarmi la mamma viva, pensare ai suoi gesti, a come essi accompagnavano l’intonazione e commentavano le frasi, a come esprimevano intenzioni ed emozioni: che cosa ci vuoi fare? , ma che cosa dice quello? , ciao!, pazienza! E talvolta leggeri impulsi tra pollice e indice non suscitati da alcuna domanda precedevano una semplice frase composta con le mioclonie del braccio: «Ti voglio bene». Null’altro. Ma se la nostalgia mi intristiva, la mano dopo essersi spalancata presto si piegava e così faceva il braccio fino ad appoggiarsi sul petto, quindi entrambi premevano contro di esso con una forza al di fuori di ogni mio controllo: la mamma mi abbracciava intensamente e a lungo. «Io sono viva», aveva detto con massima gioia, ma così sembrava aggiungere «Senti il mio abbraccio? Non vi è alcuna differenza con ciò che è stato: ancora ti conforto nei momenti difficili.»

(Continua)

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