Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte settima

Una fotografia minuscola, da sempre passata inosservata e ritrovata come se fosse qualcosa di nuovo non molto tempo fa in fondo alla scatola di latta contente i biscotti Plasmon che mi davano dopo essere stato svezzato, ora contenente vecchie immagini e ritratti, ha rivelato un episodio della vita del babbo ignoto per certo anche alla mamma. E penso con mestizia che quanto conosco di mio padre non è un granché.
Il vecchio provino fotografico lo rappresenta che guarda l’obiettivo su di una vecchia camionetta senza capote accanto al conducente; entrambi indossano abiti militari; davanti a loro un’altra camionetta dell’esercito semi coperta. Gli automezzi si fanno largo in mezzo all’acqua torbida perché la strada in mezzo ai campi coltivati ad alberi da frutta e viti sono interamente inondati. Il babbo annotò sul dietro con la sua bella calligrafia la data e il luogo dello scatto: 21 settembre 1920, Codroipo. Dunque il babbo in occasione di una storica, calamitosa inondazione rientrò nei ranghi dell’esercito o su precetto o volontariamente.
Più recentemente ho scoperto altri avvenimenti di un certo interesse che accaddero al babbo. Dopo aver ordinato una busta ritrovata in qualche luogo remoto del suo armadio contente carte dimenticate da sempre, la mamma mi mostrò una carta d’identità del babbo risalente alla fine degli anni ’40 su cui vi era l’annotazione che non poteva esercitare il diritto di voto:
«Come? Non te l’ho mai detto? Il babbo è stato in carcere per diserzione durante la Seconda Guerra Mondiale…ci sei rimasto male? Scusami se te l’ho detto.»
Alla prima non sentii pervadermi le vene di gioia: i genitori si vorrebbero figure idealmente perfette in qualunque momento della loro esistenza. Buona nascita, buona educazione, buona cultura, buon lavoro, buona condotta, buoni affetti, buona discendenza, buona salute e perfino una buona morte; è però assai improbabile che ognuna di queste condizioni si inveri favorevolmente nel tempo a disposizione di una persona.
Ho riflettuto più volte sulla rivelazione della mamma e lo stupore iniziale, istintivo, si è trasformato in una comprensione ragionata; inoltre, avvalendomi dei racconti sentiti dal babbo stesso, ho ricostruito quanto molto probabilmente accadde.
La vicenda ebbe inizio alla fine del 1942 con la chiamata alle armi di mio padre. Era un uomo avviato verso la maturità che aveva partecipato al precedente conflitto e che, due anni dopo, fu richiamato per l’inondazione friulana; nonostante le sue simpatie socialiste e che fosse un uomo dal carattere assai strutturato dovette prendere la tessera fascista per quieto vivere. Tutto questo, insieme al rifiuto dell’idea di andare a combattere per la Patria del Duce, lo indussero a disertare, scelta che però lo condusse a un passo dalla morte: forse si nascose e qualcuno fece una spiata, sta di fatto, raccontava il babbo, che fu preso dai fascisti e, brutalmente, lo costrinsero a scavare la fossa davanti a sé per fucilarlo.
Un fascista urlò:
«Ma che state facendo? Fermatevi, quello è un brav’uomo! Via via..» e, non troppo diversamente da quanto accadde a Fëdor Dostoevskij, si parva licet componere magnis, mio padre ebbe salva la vita. Mi piace pensare che a salvarlo sia stata una persona che abbia ricevuto da lui del bene.
E probabilmente dopo questa barbara esperienza finì nel carcere di San Giovanni in Monte rimanendovi fino al 1945, cosa che comportò il diniego dell’esercizio del diritto di voto com’era espresso nell’annotazione sulla carta d’identità trovata dalla mamma. Ad altri disertori o renitenti non andò così bene.
L’inizio degli anni cinquanta fu segnato da un peggioramento della salute di Alda e nel 1952 il tempo a lei concesso si troncò con un infarto.
Trascorso un anno, Riccardo conobbe a Vergato la mia mamma Bruna, la maggiore testimone dell’incredibile Opera esoterica del Mago.

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte sesta

Lo spazio interiore creato dal Professore in Riccardo era in contrasto diretto con la religione cattolica. Pur dissimulando per necessità chi effettivamente era, Riccardo non rilevava alcun conflitto tra l’essere mago che persegue solo il bene e i precetti religiosi, verso la religione cattolica ebbe sempre un atteggiamento di profondo rispetto. Non era praticante, come tanti a Bologna; della Messa avvertiva il misticismo dell’Elevazione, cioè quando il sacerdote, dopo aver recitato le formule di consacrazione del pane e del vino, innalza al di sopra di sé con entrambe le mani rispettivamente il Corpo di Cristo e il calice col Sangue di Cristo, ritenendo che quegli istanti fossero l’incontro tra Cielo e Terra, il disvelamento del Divino nelle cose del mondo; così come era attratto da santi teurghi come San Pio da Petrelcina a cui era devoto, all’epoca ancora semplicemente Padre Pio, come emanazione di un Essere Supremo.

A molti credenti cattolici non appare innaturale rivolgersi a cartomanti, astrologi, esorcisti, per sé o per altri allorché si incorra in fasi dell’esistenza dominate dalla mala sorte, da malattie, da amori declinanti o impossibili, da magre finanze, così Alda, sinceramente religiosa, accettò l’occupazione inconsueta di Riccardo senza conoscerne la sua profonda identità poiché con lei non la manifestò mai e sapeva che tutto era fatto per il bene altrui; quando Riccardo ottenne buona notorietà, anche al di fuori di Bologna, svolse la propria Opera lontano dai occhi della moglie.

E prima della Seconda Guerra Mondiale avvenne che Riccardo accompagnasse la moglie Alda in un pellegrinaggio a Pietrelcina per accostarsi al sacramento della confessione proprio con Padre Pio. Confidò in una indulgente comprensione da parte del religioso avendo confessato la parziale verità che gli pareva potesse essere accettata anche dall’autorevole religioso. Seguì invece una mala reazione del ruvido Cappuccino: cacciò Riccardo dalla chiesa, negandogli non solo l’assoluzione e, poiché non manifestò né pentimento per le azioni passate né intenzione di ravvedersi con l’immediato abbandono delle pratiche confessate, ritenute stregonerie, incorse ipso facto nella scomunica latae sententiae, cioè conseguente in maniera diretta dal fatto che si commette uno specifico delitto contro la religione o il diritto canonico. Questo comportò grande dolore oltre a Riccardo, nonostante fosse uomo orgoglioso e consapevole del proprio valore, ma soprattutto alla moglie Alda che si industriò affinché fosse riammesso nell’ambito della comunità cattolica. Ne seguì un viaggio a Roma per una seconda confessione in San Pietro con un sacerdote tedesco, più accondiscendente, al fine di ottenere la remissione della scomunica. Compiuta la confessione seguì un solenne rito che culminò nel momento in cui Riccardo, penitente, si inginocchiò recitando, a capo chino di fronte un crocifisso, l’Atto di dolore mentre il sacerdote simbolicamente gli percosse le spalle e la testa con una lunga pertica a cui seguì l’imposizione delle mani.

Il babbo aveva, invero, amici tra religiosi di mente non soverchiata dall’integralismo dogmatico. Ricordo le cordiali conversazioni a tavola con il sacerdote della parrocchia, e ancor di più, l’inveterata amicizia con un altro noto cappuccino: questi gli donò perfino due stole da lui benedette perché le utilizzasse nel soccorrere persone malate, sfiduciate, afflitte dalle avversità; evidentemente questi non riteneva che in questo ci fosse un’offesa a Dio o ai dogmi cristiani. L’affetto del padre cappuccino proseguì anche dopo la morte del babbo con visite alla mamma e a me. Conservo queste stole, ora assai sdrucite per l’uso e il tempo.

(Continua)

 

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