Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte undicesima

Aristide si era arruolato nei Carabinieri prima del secondo conflitto per un salario sicuro e stare lontano dalla ruvida Caterina. E fu risucchiato dalla Guerra del Duce. Le notizie di lui diventarono via via più rade fino ad annullarsi che quasi lo dimenticarono perché dovevano pensare alla loro povertà. La Guerra era terminata da due anni quando, inaspettatamente, la famiglia si ricompose allorché il disperso Aristide comparve alla porta. Indossava una camicia bianca impolverata e pantaloni in cui vi ballava per la magrezza; quel poco altro con sé stava in una valigetta. Non era più Carabiniere perché, provato dalla guerra e dalle difficoltà, era caduto in un severo esaurimento nervoso: questo mitigò la contentezza della moglie per il ritorno di Aristide perché ora l’uomo non aveva più una paga da portare a casa.
Dalla montagna la famiglia di Bruna scese a fondovalle. Sette persone abitavano in una casa a piano terreno costruita dagli americani, fatta con mattoni e sassi di fiume e dipinta con il colore dei ciclamini, nei pressi del fiume e della ferrovia circondata da un orto con una stia, sul retro, per il ricovero di qualche animale da cortile. Avevano tre camere da letto, una sala per desinare, una piccola cucina dove troneggiava un bella cucina economica, unica fonte di calore durante l’inverno, che bruciava zocchi di legno. Il bagno in casa aveva una vasca di pietra fredda come ghiaccio e, accanto, il vater. L’acqua in casa faceva sentire di avere tutte le comodità, i montanari si sentivano come i cittadini. E Bruna dovette andare a lavorare in fabbrica per avere uno stipendio che veniva amministrato dall’oculata madre.
Con il disagio psicologico Aristide divenne particolarmente taciturno: contemplava il vuoto con lo sguardo stralunato e piangeva per nulla.
«E smettila con quella lagna!» gli diceva la moglie irritata, con scarsa comprensione.
Trovò lavoro come muratore ma, tanto era prostrato, dovette abbandonarlo. Aristide divenne un costo che la modesta famiglia non poteva permettersi, e per Caterina avere marito incominciò a parere perfino un lusso.
Un mugolio sordo, Uuuuuuuu, preannunciavano le lacrime sul volto dell’uomo, e Caterina sbottava:
«Sei proprio un buono a nulla! Ti compatisco.» Aristide, umiliato, rispondeva con stizza:
«E tu va’ mo a fare delle pippe
I montanari non sapevano nulla della psiche e dei malesseri dell’animo che venivano spiegati come manifestazioni del Demonio oppure con il malocchio da gente invidiosa e perfino dai parenti. Tutto finiva tra novene e benedizioni, panacee per tutto. Oppure c’erano i guaritori.
«Ci sarà il diavolo in questa casa o c’avranno fatto una stregoneria», disse Caterina alla suocera.
Le due donne decisero, allora, di raddrizzare Aristide chiedendo aiuto al prete parrocchia. Don Giorgio avrebbe potuto aiutarle solo se Aristide si fosse confessato e si fosse sottoposto all’esorcismo di San Benedetto, ma era cosa impossibile, perché l’uomo era un comunista mangiapreti. Il prete decise di non congedare le donne con le mani vuote prospettando una via senza certezza di esito: ovvero l’esorcismo poteva essere tentato in sua vece dalla madre Margherita, donna profondamente credente, che nascose una medaglia donata da Don Giorgio con la Croce del Santo dentro il materasso di Aristide, aspergendo il letto con acqua benedetta per scacciare il Maligno.
La preghiera non ebbe effetto anzi, di giorno in giorno, la prostrazione di Aristide diventò sempre più intensa.
«Uuuuuu… Se morissi… Che cosa sto a fare al mondo… Voglio morire… Uuuuuu…» con voce flebile, piangendo.
Caterina allora perse il controllo e, riversandogli la consueta tirata di male parole, gli menò uno schiaffo.
Le lacrime dell’uomo afflitto svaporarono in un istante e scappò di casa per fuggire chissà dove, sacramentando a voce alta.
Bruna corse fuori per calmare e portare in casa il padre, inseguita a sua volta dai fratelli e tutt’insieme convinsero il padre a ritornare. La rabbia svanì e di nuovo gli colarono lacrime davanti alla madre e alla moglie; inginocchiandosi, chiese loro perdono. E abbracciò tutti. E tutti piansero.
Caterina non si diede per vinta perché non poteva più vedere il marito in quello stato.
Verso la città, a una decina di chilometri, abitava una vecchina di nome Teofileta, che recitava orazioni per aiutare i perseguitati dalla sfortuna e dalle malattie. Caterina prese con sé Bruna e un cesto con doni di cibarie. La piccola Teofileta, un poco curva, sdentata, con un velame di baffi grigi, stette ad ascoltare i racconti di Caterina mentre a Bruna si inumidirono gli occhi. Ebbe pena per le due donne. Prese una candela principiata, poi rovistò nella cesta del cucito, contò diciotto spilli che piantò nella candela allineandoli, con un coltellino tracciò nella cera due tacche, in maniera che gli spilli fossero tre volte sei, diciotto in tutto:
«Diciotto è il numero del diavolo», spiegò Teofileta e poi legò un nastro rosso di buon auspicio alla candela trafitta.
Spiegò alle donne che, ogni giorno, recitando il rosario, avrebbero dovuto accendere la candela e consumarne una tacca fino allo spillo. Ognuno di questi, liberato dalla cera, questo avrebbe dovuto essere spezzato gettando del sale sul fuoco, sentirlo scoppiettare, pronunciando una preghiera, che Bruna trascrisse su di un foglio.
Così fecero tutto per filo e per segno, ma Aristide non ebbe alcun sollievo.
E per ultimo venne la volta del medico perché l’uomo accusò dei dolori in mezzo al petto.
Al termine una visita scrupolosa a Aristide e una serie di domande, il dottor Fini sentenziò la diagnosi:
«Aristide è ammalato di nervi. Devo mandarlo in ospedale per una visita.»
Ma che razza di malattia poteva essere quella, pensò Caterina?
«E sarà una cosa lunga» aggiunse il dottore a voce bassa dopo averla presa in disparte per spiegare il disturbo del marito.
«Ma co…come…è ammalato?» Pianse e si pentì per le sgarberie usate contro i piagnistei del marito.
Il medico condotto ricoverò Aristide al manicomio Roncati e lì rimase per più di un anno. Era il 1949. Le cure ridimensionarono lo stato generale di Aristide ma non cessarono le lacrime.

(Continua)

Il Tempo e Le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte decima

Il seffúr al volante della Balilla, presa nella stazione ferroviaria di Vergato, condusse il Mago a un’impervia collina per togliere il malocchio dalle stalle di un contadino con incenso, sale grosso, briciole di pane raffermo, foglie d’olivo benedetto bruciato su della carbonella ardente, quindi si fece accompagnare alla casa di Emma.
Per Bruna i giorni erano passati senza cambiamenti o accadimenti particolari ovvero secondo il consueto trantran da Cenerentola.  E pensava, e chiedeva a Emma: «Chissà se lo stariån mi porterà quella roba?»
«È un uomo di parola: quello che dice fa.»
Riccardo rivolse il pensiero a Bruna assai sovente nelle quattro settimane trascorse. La ragazza diventò un chiodo fisso in testa. A qualsiasi amico nella stessa condizione avrebbe consigliato di prendere una strada più consona alla sua età, di abbandonare, di fuggire. Eppure non era solo un anziano uomo senza futuro, vedovo, senza figli, sfiduciato, che desiderava la linfa vitale della giovinezza di Bruna, non era attratto solo dalla sua bellezza, non stava vivendo un improvviso innamoramento, non si trattava solo di un capriccio carnale; percepiva piuttosto un legame inesprimibile ma concreto a cui sentiva di non potersi sottrarre.
Il Mago aveva con sé, nella cartella di pelle, dodici cartine per arrecare fortuna a Bruna e a sua madre Caterina ricoverata nel sanatorio Pizzardi. La metà di esse, in carta velina, racchiudevano dei granelli di cocciniglia, le altre, in carta quadrettata, una miscela di licopodio, sandalo rosso con una punta di sottile polvere ferrosa. Prima di dormire, i grani di cocciniglia dovevano essere versati in mezza bottiglia d’acqua e lasciarli per il tempo di una notte. Alla mattina successiva, filtrata l’acqua carminia, sarebbe occorso versare in essa la strana polvere di una delle altre sei cartine ottenendo uno strano liquido, simile alla lavatura dei pennelli da acquerelli, un intruglio rossastro e grigio che emanava un lieve odore dolciastro. Il Mago aveva aggiunto delle benefiche proprietà immateriali pronunciando una filastrocca in rima, mentre sfiorava le cartine ferrose su di una calamita che, in realtà, era un esorcismo per ottenere il favore degli Spiriti a lui fedeli; la finissima grigia polvere del metallo, mischiata alle altre inerti sostanze vegetali, sembrava quasi prendere vita con il movimento cartina, disponendosi a raggiera, secondo le linee di forza del campo magnetico generato dal magnete.
E così Riccardo conobbe la parentela della ragazza intorno a una tavola apparecchiata come se fosse la festa del paese. Secondo la promessa di un mese prima Bruna, quale remunerazione per i servigi del Mago, Bruna preparò un pranzo con tortelloni di ricotta, galletto alla cacciatora e pinza montanara.
Bruna era venuta al mondo il 10 luglio dell’anno 1933 con capelli ricci, scuri, lucidi e crebbe bella come il sole, allegra dimentica delle angustie.
Sul volto della ragazza Riccardo non ritrovò alcuna somiglianza né col padre Aristide né con la madre che Caterina, essendo in sanatorio, poté vedere solo in fotografia, né somigliava ai fratelli Maria e Anselmo, così come non possedeva alcuna delle fisionomie diffuse in quelle zone dell’Appennino bolognese.
Aristide, scavato in faccia, biondiccio, sembrava un tedesco; forte di braccio ma debole nel temperamento, taciturno, portato alla tristezza, si inalberava con scatti nervosi inaspettati per cose inutili. Caterina aveva lineamenti duri da montanara, intagliati nel legno, modi scorbutici, ruvidi, avara di gesti affettuosi, criticava e umiliava il marito innanzi a chiunque per cose inutili. Ed ebbero altri due figli, Anselmo e Maria, questi entrambi somiglianti solo al padre. Nella famiglia di Bruna vivevano anche i genitori paterni, Augusto, sempre in giro a chiedere l’elemosina da spendere in osteria, e Margherita, taciturna figlia di nessuno – figlia di enneenne si diceva – abbandonata sulla soglia di una chiesa quando aveva pochi giorni. Crebbe in un lontano orfanotrofio tenuto da suore, affacciato sul scintillante mare della Bassitalia. Dicevano tutti che fosse figlia indesiderata di un notabile.
Margherita pregava incessantemente muovendo solo le labbra anche quando lavorava nei campi e per questo tutti profondamente la rispettavano, come se fosse una santa donna.
Per salvare i doni della terra dai temporali gravidi di grandine recitava una preghiera rivolgendo il piccolo crocefisso del rosario contro il cielo nero; s’apriva allora un piccolo spiraglio di cielo azzurro dopodiché un vento fresco portava via le nubi dannose. I suoi occhi vedevano sagome ed ombre, vestite di veli grigiastri, persone dal volto cancellato. Nella sua mente, l’anziana donna pregava incessantemente per dare requie a esse. Era un segreto racchiuso nel suo cuore.
Ogni notte vegliava nel letto con il rosario in mano, attendendo la visita di un uomo alto in redingote. Aveva un rubino luccicante al dito. L’alta figura si sedeva con dignità, sfogliando qualche pagina di un grande libro rilegato in pergamena su una sedia impagliata, che Margherita disponeva per lui, ogni sera, in un angolo della stanza vicino alla porta; l’uomo fatto di nulla e di sogni fissava Margherita in silenzio, le lacrime gli rigavano il volto austero. Lentamente si alzava dalla sedia uscendo sazio di preghiere e della misericordia della donna.

(Continua)

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