Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre)- Parte trentasettesima

Al contrario di me, la mamma non sentì mai nostalgia per la Casa delle Meraviglie di Via Galliera. E, quando seppi che il vecchio palazzo rinascimentale ormai fatiscente stava per essere rimesso a nuovo dopodiché venduto, chiesi: «Mamma, ritorniamo ad abitare in Via Galliera?» «Mò gnanc par insónni, io non lascio casa mia!» La mamma in questa seconda casa declinava mantenendo una fisionomia giovanile, ravvivata dalla vanità con bei capellini e bella bigiotteria, e uno spirito combattivo; sentiva il progressivo svanire della forza e la osteggiava prendendosi cura di me quasi come se fossi ancora piccolo. Forse non provava attaccamento per la vecchia casa di Via Galliera perché nel rimpianto della lontana folla di persone che là aveva aiutato sentendosi utile, a cui mai più sarebbe stato possibile ridare sostanza, si nascondeva il compianto per il diminuire dello slancio verso l’alto. «Non andare in pensione» mi disse «perché dopo finisce tutto.» In questa casa la mamma lavorava, lavorava, lavorava, creando oggetti da donare a chi amava, ognuno brandello del proprio tempo sempre più piccino e prezioso, per essere ricordata dopo di sé. Nemmeno per sogno aveva risposto, lei che viveva nel sogno. Sorrisi perplesso alla risposta secca della mamma: per me ritornare in Via Galliera, nella mia casa natale, avrebbe invece completato la riappropriazione della parte di me che avevo tenuto all’ombra facendola rivivere in qualche mondo parallelo del possibile, nelle mie fantasticherie. Speravo per lei una serena vecchiaia prolungata e invece si susseguirono una serie di severi avvenimenti avversi: dapprima la mamma ebbe un ictus ischemico a cui seguì, dopo dieci giorni, una rara infezione cerebrale e poi contrasse una grave polmonite bilaterale da Sars-CoV2. Tutto questo la condusse a trovarsi in fine di vita. Essendo ancora i giorni di lockdown, durante la maledetta primavera del 2020, la mamma sarebbe stata cremata contro la sua volontà, senza esequie, senza poterla baciare per un’ultima volta. «Dovresti pregare per la mamma…le preghiere intense e continuate, dette con il cuore, aiutano i malati gravi», mi disse un’amica quando sentì che la mamma era in una strada con poche possibilità di ritorno, e continuò: «Una signora che conosco spiega come fare. Guarda i suoi filmati in You Tube.» I filmati non mi convinsero affatto. Avendo impiegato tanto tempo per ammettere la Magia tra i miei pensieri, non ero disposto a dare credito a persone senza un’evidente autorevolezza, nemmeno nelle condizioni di disperato bisogno in cui mi trovavo. «Non so pregare, non sono nemmeno religioso…Ci vorrebbe il babbo.» Mi balenò allora un’idea folle per me: «Ho talismani, stole, candele, acqua e profumo benedetti…e ho gli esorcismi! Farò l’unica cosa che posso fare per lei…» Tolsi dal comodino della mamma la rubrica su cui il Mago aveva scritto le sue formule magiche. Trovai in fretta quella che mi interessava: Per segnare infermi e sfiduciati, lo scopo era chiaro. Avevo impresse in mente le fasi del rito, ora conoscendo l’esorcismo avrei potuto eseguirlo con esattezza ma era tardi: la notte mi incusse paura, come avveniva quand’ero giovane. La mattina successiva disposi le cose sul tavolo della stanza da pranzo secondo l’ordine che ben ricordavo così ma, soprattutto, avevo chiaro lo svolgimento del rito. Non potendo avere la mamma presente presi uno scialle indossato fino all’ultimo giorno in cui era rimasta a casa per operare con qualcosa che le apparteneva con delle sue tracce organiche. Lo posai tra i due talismani e iniziai con grande emozione la prima segnatura della mia vita: il disperato bisogno mi induceva a percorrere strade sconosciute. Non c’erano più remore, avevo a disposizione le formule adoperate con pieno successo dal più valente dei Maghi e i suoi strumenti per perseguire il più nobile dei fini: salvare la persona che mi ha maggiormente amato. Ma gli spiriti avrebbero servito il figlio del Mago che per tanto tempo li aveva reclusi in un cassetto della sua mente? Sarebbero stati così generosi con me da concedere altro tempo alla mamma? Accesi le candele piantate nel grano, mi feci il segno della croce, ponendo le mani sullo scialle con le dita incurvate, mormorai per tre volte l’esorcismo, chiedendo i servigi a spiriti il cui nome conoscevo da sempre. Bagnai un batuffolo di cotone con dell’alcol, così sfiorai lo scialle descrivendo una croce, lo posai sui rebbi spuntati di una vecchia forchetta affumicata e lo posi sulla fiamma delle candele. Mentre il batuffolo bruciava eseguii dei gesti magnetici su esso e sullo scialle come per strappare via qualcosa, ciò che di negativo assediava la mamma, poi scrollando la mano come se stessi sgocciolando un liquido. Appoggiai la bocca sullo scialle per insufflare per tre volte tre il fiato. Questo mi causò una forte emozione perché era quanto più colpiva durante le segnature, mi ricordava il salvamento con la respirazione bocca a bocca, oppure l’alito di vita che Dio soffiò nelle narici di Adamo: così feci io. Posi nuovamente le mani sullo scialle e ripetei per tre volte formule soccorritrici, quindi feci su esso il segno della croce con un nuovo batuffolo di cotone imbevuto di profumo benedetto. Sentii improvvisamente sprigionarsi dal petto un senso di appagamento per avere superato lo spazio e le barriere che le circostanze di quei giorni ci imponevano. Nel primo pomeriggio telefonai al reparto di terapia intensiva. Le condizioni della mamma rimanevano assai gravi. Ma come mamma…non vuoi vivere? Non vuoi più vedermi? È difficile giustificare la sofferenza, l’accanimento della sorte contro la persona che si ama di più. No, quella donna al Bellaria non poteva essere la mia mamma. Alla stessa ora del giorno precedente ripetei la segnatura e nuovamente chiamai l’ospedale. Mi rispose con emozione la neurologa: «Stiamo assistendo un miracolo! Sua madre è negativa al primo test per la Covid!» Non capii immediatamente il significato delle parole, essendo ormai assuefatto a ricevere solo brutte nuove. Scivolai in un limbo di incredulità intontita perché la gioia da settimane era fuori dal mio orizzonte. Tre settimane prima, il virologo con cui parlai quando la mamma fu ricoverata con la polmonite bilaterale mi disse: «La sua mamma è in condizioni critiche e la Covid è la cosa meno grave; sappia che faremo di tutto per salvarla.» Mi rincuorai perché erano tempi duri: pensavo che, vista l’emergenza, i vecchi più malandati sarebbero stati lasciati al proprio destino. Parlai con il virologo più volte durante il ricovero. Avvertendo la mia prostrazione, un giorno si interessò a me chiedendomi del mio legame con la mamma. In un periodo in cui erano proibiti tutti i contatti ravvicinati, pronunciò per salutarmi delle parole preziose: «La abbraccio.» E proprio il virologo gentile confermò quanto la neurologa aveva detto il giorno prima: la mamma era negativa alla Covid. «Fino a qualche giorno fa le condizioni erano disperate. Sua mamma ha deciso improvvisamente di vivere.»

(Continua)

Il Tempo e le Anima (A mio padre e a mia madre) – Parte trentaseiesima

Al Liceo compresi che studiando latino e matematica durante la notte rendevo meglio. Mi sistemavo nella camera da pranzo con tutte le lampadine accese come se si fosse dovuta tenere una festa da ballo perché la luce mi pareva attutire i rumori che udivo. Tutti i mobili di legno, producono normalmente qualche sporadico scricchiolio organico, tic…tac… cric… crac ma, in casa mia, questo avveniva in maniera particolare: erano talora grappoli di scricchiolii, crepitii che rimbalzavano in dialogo tra un mobile e l’altro; rumori venivano anche dal pavimento in assi di legno calpestato da qualcosa di invisibile ma pesante. Nonostante che, in questa fase della mia vita, magia e spiriti non dimorassero comodamente in me, aiutavo volentieri la mamma, e anche mi divertivo, come avveniva qualche anno prima, nella creazione di talismani per facilitare la buona sorte. Io facevo tutto il lavoro manuale secondo ciò che avevo visto con il babbo quale aiutante di bottega mentre la mamma dava la assai più importante pennellata finale e vi metteva la firma esorcizzando il talismano per asservire uno spirito alla persona che lo avrebbe posseduto. E vedevo anche volteggiare un tavolino durante le sedute spiritiche a cui la mamma mi chiedeva di partecipare per chiudere la catena medianica. E prima delle interrogazioni o dei compiti in classe la mamma mi anticipava con le Navalde ciò che sarebbe avvenuto e accettavo il suo aiuto per ottenere i migliori risultati. Come negli anni passati, i miei compagni non sapevano che lavoro facesse la mamma né che io fossi figlio di due maghi, ma la Maga, avendo acquisito notorietà, riceveva, quando ero a scuola, le mamme di alcune mie compagne a mia insaputa. Per risolvere il conflitto tra vita quotidiana e pensiero, per rendere a questo accettabili magia e spiriti, si configurarono allora nella mia mente due cassetti indipendenti e non comunicanti, uno per tutto ciò che era compatibile con la razionalità, lì stavano anche il babbo e la mamma nel loro primario ruolo di genitori, nell’altro dove infilavo tutto il resto, tutto ciò che riguardava la Magia, compreso il Mago e la Maga che mi avevano messo al mondo. Così sentivo chiaramente l’aura particolare della casa ma fingevo di non sentirla, mi obbligavo a ignorare le cause che, pur conoscevo, di certi fenomeni, chiedevo aiuto agli spiriti ma subito dopo era come se questo non fosse stato: intendevo di ingannare i miei sensi e la mia consapevolezza. Questa innaturale damnatio memoriae adolescenziale non durò invero molto. Scegliendo la facoltà universitaria disattesi le aspettative del babbo che avrebbe sperato in un figlio medico; la mamma, invece, avrebbe accettato qualsiasi mia decisione che cadde infine sulla facoltà di Fisica per avvicinarmi alle cause e alla struttura delle cose al di là delle apparenze, lontano da tentazioni metafisiche e metapsichiche. E un amico del Liceo con disturbo bipolare, iscritto alla Facoltà di Filosofia, durante una delle fasi di euforia malata che lo portavano fuori di casa, mi lesse passi da Il Capitale in cui intravvedeva delle conoscenze alchemiche, esoteriche, magiche. Osteggiai queste osservazioni sia perché le espressioni di Marx mi parevano solo metafore per drammatizzare le proprie teorie, sia perché esse andavano a rimestare in profonde questioni del mio essere non ancora ben sistemate stupendomi al contempo per la naturalezza con cui l’amico aveva introdotto questi argomenti estranei, fino ad allora, alle nostre conversazioni. Il clima di quel periodo, era il ’77, il periodo degli Indiani Metropolitani e dei carri armati nella zona universitaria, le nuove letture, le nuove musiche, l’allontanamento dalla politica attiva e la frequentazione del mio amico liceale all’inizio del suo disastro esistenziale, contribuì a erodere la base della turris eburnea di razionalità in cui mi ero arroccato. Negli ultimi giorni del 1989 la mamma e io lasciammo la vecchia casa di Via Galliera per trasferirci in quella acquistata dal babbo poche ore prima della morte, più di vent’anni prima. Questa nuova casa era muta rispetto alla casa delle meraviglie di Via Galliera, non s’udivano rumori enigmatici, non mi sentivo addosso il peso di una densa atmosfera traslucida particolare eppure, proprio qui il processo di riconciliazione si completò: i due cassetti nella mia mente presero a comunicare reciprocamente senza che nessuno dei due ambiti lontani invalidasse l’altro o prevalesse. Occorsero più di cinque lustri perché, accanto a testi di fisica, saggi filosofici e musicali, alle opere letterarie, ai cari dischi, collocassi i vetusti libri di magia appartenuti al babbo, relegati in cantina alla stregua di una messa all’indice. Subissai la mamma di domande per ottenere risposte che soddisfacessero il mio bisogno di una maggiore conoscenza del babbo e della sua Opera. La mamma volentieri mi assecondò. E agli amici e ai colleghi di lavoro che non conoscevano l’unicità dei miei genitori dicevo, come prima cosa, per aumentare il loro stupore: «È difficile essere figlio di un Mago ma essere figlio di Mago Merlino e Fata Morgana è assai improbabile ma non impossibile…Eccolo qua!». L’imbarazzo aveva ceduto il posto all’orgoglio.

(Continua)

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