L’ombra della Rocchetta (10-Epilogo)

Una decina di anni fa, la mamma s’affacciò sorridendo nella mia stanza con in mano una gonfia busta gialla. «Ho trovato in fondo all’armadio questa. Contiene le fotografie che il babbo si faceva lasciare dai clienti per togliere il malocchio o per dare fortuna». Sfogliai più di duecento fotografie invecchiate. «Hai riconosciuto qualcuno?». «No, nessuno». «Per forza, hai guardato troppo distrattamente. Osserva queste fotografie per bene». Riconobbi immediatamente i volti e in un batter di ciglio capii. «Mamma, dunque la Mâta aveva ragione?». «Sì. Avevamo in casa le fotografie che voleva indietro…Le fotografie della Iolanda e della sua famiglia! Ma chi se lo ricordava più…morto il babbo, infilai queste fotografie nella busta alla rinfusa. Se mi fosse venuto in mente, per evitare i fastidi che abbiamo passato, gliele avrei subito restituite venticinque anni fa!». «Non fartene una colpa. Se accadessero ora, le azioni della Mâta rientrerebbero nel reato di stalking quindi facilmente condannabili con la reclusione per diversi anni senza troppi arrampicamenti sugli specchi da parte dell’avvocato. È andata così…Tu e queste fotografie c’entrate molto poco con la Mâta. Un caso psichiatrico…aveva bisogno di perseguitare. La sua malattia cercava un bersaglio e poi ha costruito intorno a te una storia. La sua storia». «Quando preso ho in mano queste fotografie ho sentito dei brividi per la schiena, una specie di scossa elettrica. E mi è riaffiorata in mente tutta la verità ormai morta e sepolta! Come ho potuto dimenticare…perché non ho collegato? Eppure ho una buona memoria e sono fisionomista…quante angustie avremmo evitato!», percuotendosi la fronte con il pugno. Le presi le mani. Piangeva. La abbracciai. «Ma ora raccontami i tuoi ricordi». «Ebbene, la madre della Mâta veniva dal babbo insieme alla Mâta e alla gemella, la Fioretta, per farle segnare». «Ti ricordi perché le portò dal babbo?». «Non stavano bene». «Probabilmente la madre aveva già notato qualcosa che non andava nella testa della Mâta e dell’altra. Chiese aiuto al babbo, il migliore dei maghi, per evitare di rivolgersi allo psichiatra. Meglio togliere il malocchio delle cure in un manicomio!», congetturai. «Ma quanti anni avevano le gemelle?». «Nove, dieci anni. E sai come arrivarono dal babbo? Ti ricordi quando tu ed io andammo dalla Contessa Fadda in Strada Maggiore? La madre della Mâta e la Iolanda erano le cameriere della Contessa. Andando avanti indietro per la casa, forse anche per curiosare, la madre vide che io facevo le carte alla sua padrona…». «E fu dunque la Contessa a inviare la madre dal babbo per risolvere il malessere delle figlie?». «Sì, la Contessa conosceva bene i poteri di tuo babbo». Quindi, ancora bambino, avevo conosciuto anch’io la madre della Mâta e la Iolanda in casa della Contessa, ovvero Iris Boriani, l’ultima erede del Conte Mattei: la madre aprì la porta, mi offrì i cioccolatini in salotto mentre la mia mamma faceva le carte alla Contessa invece Iolanda era la ragazza che pettinava il gatto d’angora in cucina. «La madre della Mâta venne in casa nostra almeno per tre volte perché le segnature, come sai, vanno ripetute. E portò al babbo le fotografie degli altri figli, fra cui quella della Iolanda, per fargli controllare con il pendolo se qualcun altro avesse il malocchio…quindi la Mâta vide il babbo usare il pendolo. Aveva visto il vero! Tuo padre ebbe la colpa di non aver restituito le fotografie dopo aver eseguito gli esorcismi…». Mi mancarono le parole. «Se il babbo fosse stato meno zaccolone ci saremmo evitati guai, lacrime, paure e non avremmo speso quel mare di soldi…Che Dio l’abbia in gloria». E si fece il segno della croce mandandogli un bacio con la mano per farsi perdonare. «Il babbo conobbe mai personalmente la Contessa? Mi ricordo solo che parlavano ogni giorno per telefono». «La conobbe qualche anno prima. Ma non con il passaparola delle persone grate per il bene ricevuto. Hai presente il Mercantone di Vergato, Primo Stefanelli, e sua moglie?». «Come no? Ricordo bene il negozio di mobili vicino alla stazione e la moglie che spennava le galline a gambe aperte, seduta davanti all’entrata. E ricordo che da lui acquistaste la nostra camera da pranzo». «E che faceva parte del mobilio della Rocchetta Mattei…E che la moglie di Primo Stefanelli acquistò la Rocchetta…». «Quindi Primo Stefanelli indirizzò dal babbo la Contessa perché aveva bisogno delle sue facoltà?». «No, la storia andò molto diversamente…». Stefanelli, possedendo tanti soldi con la moglie Elsa Sapori, intese acquistare la Rocchetta per trasformarla in un luogo di divertimento, con albergo, ristorante e bar. Sapeva, però, che il Conte Mattei era un personaggio molto strano e che alla fine della vita andò fuori di testa. Poiché il Conte si trovava tumulato nella cappella all’interno del castello, Stefanelli, molto superstizioso, intendeva conoscere se lo spirito del Conte, dopo la trasformazione della Rocchetta in attrazione turistica, gli si fosse rivoltato contro e se gli avesse portato scalogna. Anche la Contessa, unica erede di Mattei, depositaria dei suoi segreti, aveva interesse di sapere se lo spirito avesse approvato la vendita della Rocchetta e se il via vai di turisti con bambini avesse arrecato offesa al sonno eterno del Conte. Nutrendo cieca fiducia verso mio babbo, Stefanelli lo chiamò a Riola di Vergato, prima di procedere all’acquisto del castello, per una consulenza molto particolare. «Tuo padre entrò in contatto con l’anima del defunto in presenza della Contessa, di Stefanelli e di sua moglie. E pure io ero presente a quella seduta spiritica». «Lo spirito quindi non si oppose, visto che la moglie del Mercantone acquistò la Rocchetta», conclusi io. I ricordi della mamma chiarirono ogni cosa. Le varie sorti dei personaggi – il Conte Mattei, Mario Venturoli, Giovanna Maria Longhi, Iris Boriani, Primo Stefanelli, mio babbo, Angela Fiocchetti, la mamma, ed io – erano state concatenate dal destino in una sola storia all’ombra della Rocchetta! E mio babbo, il Mago, nel bene e nel male, volente o nolente, ne fu il deus ex machina. «Cosa devo ora fare di queste fotografie?». «Stracciale».

(Fine)

L’ombra della Rocchetta (9)

Un pomeriggio, la Mâta si attaccò al citofono, suonando ossessivamente per la restituzione delle fotografie. Quindi si infilò nell’androne, salì le scale e prese a suonare il campanello del cancello d’entrata. In quel momento mi trovavo ignaro nella palestra di fronte. La mamma, non potendo mettersi in contatto con me, telefonò all’avvocato per avere aiuto. Questi chiese a sua volta l’intervento dei Carabinieri. La Mâta proseguì a suonare per svariati minuti e poi se ne andò allorché la dirimpettaia, chiamata dalla mamma, si affacciò alla finestra proprio di fronte alla nostra porta. L’avvocato, accompagnato dalla moglie, lui piccolo e mingherlino sovrastato da lei grande e corpulenta, venne in palestra per avvertirmi che la mamma non si sentiva bene, aggiornandomi sulla nuova bravata della Mâta. Corsi in casa senza nemmeno cambiarmi e, poiché trovai la pressione sanguigna piuttosto alterata, somministrai alla mamma i soliti medicinali con l’aggiunta di qualche goccia di ansiolitico. E così si riprese giusto in tempo per raccontare i fatti appena avvenuti ai Carabinieri, guidata dall’avvocato. La Mâta non aveva cessato di mandarci l’inquietante pubblicità modificata con pronostici astrologici e mortifere parole. Su una busta ricevuta da poco, contenente un catalogo di vendita per corrispondenza, aveva cancellato destinatario e indirizzo con un pennarello nero. Però, osservando la busta di sghimbescio sotto una luce, tutto poteva essere letto agevolmente. Ebbene, la pubblicità era stata inviata proprio alla Mâta e così scoprimmo che abitava in un edificio comunale dalle parti di Via San Donato. Un dormitorio. L’avvocato fece allora partire un’altra querela contro la Mâta. Il nostro obiettivo, l’ottenimento della terza condanna non sospendibile, pian piano si avvicinava, salvo la sorpresa, per noi amara, di un eventuale condono giudiziario. Un sabato mattina verso le nove e trenta, ero in casa, qualcuno suonò il campanello dal portone d’entrata in maniera assai sgarbata. Chiesi innervosito al citofono chi fosse. Come risposta ebbi un’altra suonata. Intuii chi fosse e scesi per averne conferma. Incontrai un vicino rumeno sulle scale e gli chiesi se avesse visto una donna al citofono. Sì, c’era una donna grassa dalla faccia mongoloide e spiritata, con in mano un bel randello. Rientrai in casa di corsa e, mentre la Mâta suonava ossessivamente, chiamai la Polizia. Il rumeno, un cinico impiccione, quindi testimone perfetto, ritornò sotto il portico per godersi lo spettacolo. La Mâta non pareva avere intenzione d’andarsene. Dopo aver suonato per qualche minuto, ci raccontò il vicino, prendeva a camminare avanti e indietro per il portico come una belva in gabbia, impugnando il randello. Sperava di incontrare la mamma oppure me, presi dall’esasperazione, ed affrontarci in strada. Fortunatamente i poliziotti arrivarono in fretta e, indirizzati dal solerte vicino, fermarono la Mâta. Tenendo un oggetto contundente, un’arma, i poliziotti le intimarono di consegnare il bastone. E questa che fece? S’incamminò per un’imprevedibile strada del destino: la Mâta s’imbizzarrì brandendo per bene il bastone sulle teste dei poliziotti. Fu presto disarmata e la rinchiusero in automobile mentre due di loro salirono in casa nostra per avere dei comprensibili chiarimenti. Raccontammo i fatti di quella mattina e mostrammo tutte le scartoffie giudiziarie accumulate contro la Mâta per dimostrare l’entità delle molestie che avevamo subito per quindici anni. La mamma scoppiò in un pianto disperato. I poliziotti, raccolta la deposizione, ci informarono di quanto era accaduto in strada. Dopodiché portarono la Mâta in Questura. «La Fiocchetti è nei guai», disse lapidariamente l’avvocato. «Ho ripetuto più volte all’Ispettore di Polizia che le bastonate non erano destinate ai poliziotti ma ad una signora di sessantasette anni. E se, uno di questi giorni, ho chiesto all’ispettore, la Fiocchetti riuscisse nel proposito di sfondare la testa alla signora, su chi ricadrebbe la responsabilità della mancata prevenzione dell’azione? Ho fornito l’indirizzo che si legge di sbieco da quella lettera intimidatoria; abbiamo visto che effettivamente dorme in una struttura comunale e che la Fiocchetti è già stata seguita dagli assistenti sociali. Ora dovremo pretendere che intervenga anche uno psichiatra». «La Matta dunque non andrà in galera?», chiese la mamma delusa. «Per ora no. Le faranno una perizia psichiatrica, si parla di non irrilevanti disturbi mentali… psicosi, schizofrenia, deficienza. Probabilmente otterrà un’infermità di mente per cui verrà seguita sia da medici che da assistenti sociali. Insomma sarà controllata perché non possa più nuocere». «Quassta, bòja d un giùda, a n péga mâi, riesce sempre a farla franca!», sbottò mia madre piccata, desiderosa di vendetta. «Per come si sono messe le cose, sarà molto difficile che vada in carcere. Ma, a questo punto, la partita si è trasformata con la comparsa attiva di nuovi soggetti che la devono tenere d’occhio. Qualunque cosa succeda, sapremo ora con chi prendercela». Per innumerevoli giorni discussi con la mamma che quella soluzione era da considerarsi benedetta: la Mâta era di fatto una matta ed avrebbe continuato a infastidirci chissà per quanto tempo ancora, avremmo dovuto presentare nuove querele, affrontare nuovi processi e sborsare altro denaro e… Fino a quel momento, avevamo speso ben quattordici milioni di lire senza ottenere il nostro vero obiettivo, la tranquillità. Riscontrammo con piacere che le molestie cessarono ben presto. Ogni tanto trovavamo nella buchetta postale qualche lettera astrologicamente modificata oppure ricevevamo qualche scampanellata dal portone in strani orari, forse qualche burlone ma io, in realtà, pensavo che fosse stato l’indice della Mâta. Inezie. Fu avvistata nei pressi di Via Frassinago da un testimone nel grande processo. E iniziammo a incontrarla pure noi, al supermercato con la sorella gemella, a guardare nel vuoto seduta sulle panche del Burger King di Via Ugo Bassi. Mai ci riconobbe. E in una mattina del 2001 ci fu l’ultimo incontro ravvicinato con la Mâta. Mi trovavo a casa in ferie per cui la mamma non si trovò ad affrontare una curiosa situazione. Il parroco di una chiesa non distante da casa nostra suonò al portone chiedendo di parlare con la mamma per trovare un lavoro alla Mâta. Risposi di attendere e scesi le scale di corsa. La Mâta era con lui. Il parroco mi chiese, con mitezza, perché la mamma non intendesse aiutare la donna. Perché non fare una buona azione, un’opera caritatevole, se avesse potuto? Risposi con concetti che non esprimevano cristiana carità ma guerra, eventualmente anche contro di lui. Spiegai per sommi capi la situazione e, con tono alterato, dissi che se non fossero andati via immediatamente avrei chiamato i carabinieri. Per fare capire le mie intenzioni, mostrai per bene il telefono cellulare stretto in mano. Il parroco allora mi salutò in fretta e furia strattonando la Mâta per portarla via con sé. Così terminarono le prodezze di Angiolina Fiocchetti, la Mâta. L’animo della mamma ritrovò definitivamente la serenità.

(Continua)

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