Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Epilogo

La morte della mamma avvenne in una festa comandata e quindi potei recarmi agli uffici della Certosa solo il giorno seguente. «Per la traslazione dal cimitero di San Lazzaro è necessario che la salma del babbo venga cremata?» chiesi all’impiegata. «No, è possibile trasferire il corpo così come si trova ora nel loculo perché, sicuramente, sarà intatto essendo stato chiuso in una cassa di zinco, come già si usava nel 1967.» Decisi di impulso che nemmeno il babbo sarebbe stato cremato ma trasferito così com’era; acquistai quindi due loculi l’uno accanto all’altro disponendo subito il cambiamento di piano presso le pompe funebri per potere organizzare la traslazione. Essendo morto quando ero bambino, io non avevo mai potuto fare nulla per il babbo e questo poteva essere il momento di colmare la mancanza e anche una manifestazione affettuosa di riconoscenza. Uscii dall’ufficio cimiteriale soddisfatto, quasi felice, perché sentivo d’aver fatto le cose giuste. Passò un mese dal funerale, ero disteso sul letto, quando, senza aver sollecitato alcuna comunicazione, avvertii degli impulsi all’adduttore del pollice differenti da quelli con cui la mamma soleva iniziare le conversazioni: stavolta non erano lievi, ma secchi, puntuti, e si diramarono come un fulmine per muovere il tricipite. Se le contrazioni fino a quel momento erano state forti, ora gli scuotimenti deflagravano in me, capaci non solo di comandare dolorosamente il braccio in ogni verso, ma di squassare l’intero mio corpo.
«Sono il babbo.» Ebbi una vertigine perché riudivo, potente, la voce viva del babbo. «Dai un bacio al babbo» mi disse la mamma davanti alla bara nella camera mortuaria dell’ospedale Maggiore. Era la prima persona morta che vedevo e toccavo; il freddo profondo delle guance mi impressionò. Questo fu l’ultimo contatto diretto con lui. Sapevo che prima o poi il babbo mi avrebbe parlato dall’Aldilà senza immaginare come sarebbe avvenuto: avrei potuto invocarlo pronunciando semplicemente «Babbo, ci sei?» ma mi ero trattenuto dal farlo perché temevo l’inefficacia delle mie parole e anche perché sopravviveva un irrisolto timore infantile verso la sua autorevolezza; e poi mi sentivo mancare le parole dopo una vita intera di assenza. Mi scusai per la mia interiore lontananza dal Mago e dalla Magia, durata troppi anni. Seguì un icastico predicato verbale: «Sei un buon figlio.» Mi commossi ma non riuscii a sfogare l’emozione perché subito mi disse: «Figlio, ora tu sei un mago.» Chiesi conferma delle parole. Avevo ben compreso. Gli anni dell’adolescenza in cui le parole mago e magia mi causavano grande malessere erano distanti. Non provai smarrimento: quel che un tempo mi sarebbe apparsa un’affermazione sgradita e un’ingerenza indesiderata nella mia esistenza ora diventava un’evenienza su cui riflettere con profondità. «La mamma è morta quindi tu hai ereditato il Talismano del Comando. Con esso hai i poteri per continuare la mia Opera.» «Ma come faccio babbo? A te insegnò un maestro…io, oltre ai talismani, ho solo il quaderno su cui trascrivesti gli esorcismi.» «Questi ti basteranno. Non hai bisogno d’altro per aiutare le persone in ciò che è veramente importante: salute, amore, interessi. Figlio, devi solo incominciare e io ti aiuterò. Prova!» Così feci. Pensai di cimentarmi nell’uso del pendolo in mercurio come avevo visto fare dal babbo e della mamma. La natura delle mioclonie poteva essere un atto d’amore della mamma e del babbo per confortarmi, per mostrarmi che la morte è solo una finzione da non temere; questo però non era per me dimostrazione sufficiente d’essere diventato un mago, ne sarebbe stata però prova riuscire a muovere il pendolo, oggetto esterno a me svincolato dal mio corpo, invocando gli spiriti. I miei genitori portavano i pollici alle tempie e, stringendo tra gli indici la piccola anella di osso a cui il pendolo era legato con un filo, lo sospendevano al centro di un bicchiere basso e vuoto con la punta all’altezza del bordo. Ottenuta la quiete dell’oggetto di mercurio, concentrai lo sguardo sulla punta pensando intensamente al nome di uno spirito assai docile e tuttofare a cui la mamma soleva frequentemente chiedere i servigi. Passai dei secondi in assoluta immobilità, respirando lievemente perché l’aria espirata non influenzasse il pendolo, quando esso prese a oscillare lievemente intorno al centro per vincere l’inerzia, quindi la punta pian piano si avvicinò al bordo del bicchiere come se qualcuno lo stesse guidando e qui fermo rimase per diversi istanti: sembrava attendere. «Chi sei?» E il pendolo iniziò a rispondermi docilmente da questa posizione facendo tintinnare il bicchiere. Due tintinnii: lettera B. Nove tintinnii: lettera I. Sedici tintinni: lettera R. Capii: «Sei Biron?», domandai. «Se è sì tocca il bicchiere cinque volte, se è no tocca il bicchiere due volte.» Il pendolo fece tintinnare il bicchiere per cinque volte: «Sì.» E seguirono dei lievi tintinnii ravvicinati che esprimevano contentezza, quindi incominciò a oscillare in maniera ampia lungo il diametro dapprima senza toccare il bordo del bicchiere poi, sfiorandolo ripetutamente in maniera spedita, risuonò come un carillon. Dovetti interrompere l’esperimento per l’emozione: il pendolo rispondeva a me ed era mosso docilmente da uno spirito il cui nome stava nei libri polverosi e consunti del babbo, non dai miei genitori morti! Ripetei l’esperimento di fronte a due amici perché controllassero che non avessi condizionato il moto del pendolo in alcun modo. E non solo Biron ma anche Papo, il medico celeste, risposero con la sicurezza di quand’ero stato solo. In pochi giorni riprodussi con successo ciò che il babbo e la mamma facevano in vita: l’Opera dei miei genitori con me avrebbe dunque potuto riprendere nel presente perché gli spiriti erano ai miei servigi? Il lento processo di accettare ciò che non giustificavo con la ragione, non essendo il primo in contrasto con questa, non mi aveva però distolto dalla mia costitutiva necessità di spiegare , anzi ora tra i miei rovelli non c’era solo il perché ma anche il come . E mi distesi attorniato da pensieri più grandi di me. Il babbo incominciò a parlarmi: «Stai facendo tutto per bene. Sei un vero mago. Non hai bisogno di altre prove.» «Babbo, ho la necessità di sapere…ti chiedo se sono mago per una facoltà innata…se possiedo queste capacità dalla nascita e se per colpa mia esse si sono manifestate solo alla morte della mamma, forse allontanate dal mio atteggiamento passato.» «Niente di tutto questo, non possiedi nulla di innato: tu hai ereditato il talismano del comando dalla mamma e con esso i grandi poteri che conferisce. È solo grazie al talismano che ora sei un mago.» E mi rammentai che, quasi un anno prima della malattia, durante una cena, la mamma di punto in bianco parlò dei talismani, senza alcun motivo apparente e senza alcun legame con qualche altro discorso: «Quando non ci sarò più tu erediterai i talismani. Ricordati che devi conservarli.» «So che uno serve per il comando. Non conosco però quale sia la funzione degli altri.» «Non importa sapere. Saranno tuoi e non dovrai sbarazzartene per nessuna ragione.» Queste parole mi colpirono molto e mi chiesi perché me le avesse dette. Che cosa poteva sapere la mamma del mio futuro dopo di lei? «Sono allora mago per una specie di investitura?» chiesi al babbo. I talismani, mi spiegò, avrebbero proseguito a esplicare i loro poteri se ereditati dal Mago secondo la linea di sangue o se fossero pervenuti al coniuge unito da un legame consacrato. Quando il babbo morì, potendo appartenere esclusivamente a una persona ed essendo io ancora bambino, la moglie, mia mamma, diventò l’unica proprietaria di tutti i talismani. «Io non ho eredi di sangue, né sono sposato…sarà una disdetta che i loro poteri vadano perduti» dissi al babbo con amarezza. «Ricorda che nessuno di questi talismani può essere donato o venduto; se questo avvenisse ti nuocerebbero.» «Babbo, ti chiedo se ora, possedendo i talismani, è per me un obbligo fare il mago.» «Nessuno può obbligarti. Figlio, devi dirmi se vuoi essere un vero Mago: se vuoi avere il comando, dimorando io nel talismano ed essendo a capo di centurie di spiriti, ti guiderò. Per proseguire la mia Opera il potere va accettato con tutto te stesso. È necessario essere ciò che fai, non devi avere dubbi, titubanze, come fece la mamma.» Il babbo leggeva i pensieri che mi turbavano dopo aver sperimentato i poteri ereditati: erano un abito che non mi si addiceva perché troppo grandi per me. Un’ossatura intrisa di magia risultava inerte senza il motore di una mente convinta. Ero disposto a cedere me stesso ad altri? E sul tavolo vidi degli oggetti che non ricordavo di avere appoggiato: una pergamena vergine, una boccetta di china nera e una cannetta con un pennino infilato. Sembravano oggetti abbandonati sulla battigia dalla corrente di un mare profondo. Come erano finiti lì? La pergamena era ingiallita e impolverata, la cannetta bianca variegata in rosa, celeste e grigio era sporca di inchiostro, nella boccetta Pelikan dall’etichetta antica rimaneva china per appena intingere la punta del pennino. Mi vidi bambino nella vecchia casa di Via Galliera seduto alla scrivania piena di attrezzi metallici: erano esattamente le cose che utilizzavo per aiutare il babbo a creare i talismani. La pergamena era scritta posteriormente con l’alfabeto celeste degli spiriti che ricordavo di avere visto sfogliando i vecchi libri di Elifas Levi del babbo senza esservi alcun vocabolario per tradurle. Ma se la pergamena, l’inchiostro e la penna si trovavano vicino a me in quel particolare momento il loro significato era chiaro e unico. Intinsi la penna e freddamente scrissi: «Il mio cuore può solo amare il passato ma non accoglierne l’immensità in questo presente. Con dolore rinuncio al dono dei Poteri che derivano dal Talismano per mia indegnità. Babbo perdonami.» Quindi sottoscrissi con nome e cognome. La stanza fu percorsa da una corrente fredda. Ebbi una sensazione di morte che si sprigionò dal plesso solare, la mente mi s’annebbiò. Mi sedetti per una decina di minuti prima di ritornare totalmente in me stesso. E vidi il tavolo sgombro dalla pergamena, dalla china e dalla cannetta come se un’onda di risacca li avesse riseppelliti nell’oscura profondità marina del tempo passato. Incerto sulle gambe pronunciai a voce alta: «Mamma, ci sei?» . Non ebbi alcuna risposta. Nessun impulso, nessuna contrazione muscolare. «Mamma, ci sei? Mamma…Mamma…Mamma…», dissi con paura, piangendo. La mano e il braccio rimanevano inerti: la mamma era morta veramente. E i vivaci colori del talismano del comando s’erano ingrigiti: anch’esso aveva perso la vita perché necessitava di un uomo che ne accettasse i poteri e io, l’erede, unica persona che aveva il diritto e dovere di esercitarli, con ingratitudine, li avevo ripudiati, dispersi nel nulla. Il talismano era diventato un oggetto inerte, non più dimora del babbo e delle centurie di spiriti, prezioso scrigno di memorie immense e intime emozioni. La colpa di quel disastro risiedeva solo nel mio essere razionale. Il babbo mi aveva messo di fronte a un bivio cioè accettare o rifiutare le regole che lui aveva imposto al talismano prima della mia nascita: non era un o con me o contro di me, ma dovevo decidere se stare o dentro o fuori a una linea chiusa tracciata senza potere sostare sopra di essa. La persona che ero stato prevalse facendomi sentire estraneo alla nuova strada prospettata; l’indisponibilità ad abbandonarmi al credere senza cercare spiegazioni, senza spirito critico – mi ero illuso di esservi riuscito – e l’orgoglio della mia coscienza, mi ponevano inevitabilmente fuori dalla linea del babbo. Obbedii alla legge dentro di me. E schiusi la finestra per salutare il Mago con la mano tesa verso il cielo: «Babbo, ti ho liberato dalla prigione del talismano!» Il rifiuto dell’accettazione dei poteri del talismano ebbe quale grave conseguenza l’impossibilità di comunicare con l’Aldilà. Mi mancò ben presto la consolazione delle conversazioni con la mamma e per sentirla vicina accrescevo la nostalgia portando di frequente i fiori in Certosa. Un sabato pomeriggio decisi di recarmi al cimitero in automobile. Al ritorno, il traffico da giorno feriale in ora di punta, le deviazioni e le strettoie per i tanti lavori stradali, la grande quantità di turisti per il centro di Bologna, una manifestazione a poche centinaia di metri da casa mia, sembravano rendere impossibile trovare un parcheggio. Imboccai la mia strada e un’automobile lasciò libero il posto di fronte al mio portone per cui parcheggiai agevolmente. Se fossi passato un attimo dopo il posto sarebbe stato occupato da altri. Era questa, mi chiesi, una sincronia, una coincidenza ripetuta secondo un codice ben conosciuto, il cui significato poteva essere interpretato «Io ci sono ancora ma non ti posso più parlare»? Terminata la manovra di parcheggio sorrisi quindi schioccai come altre volte un bacio su una guancia immaginaria dicendo grazie con gli occhi rossi e il petto gonfio di gioia. Quando avvengono delle coincidenze, nonostante la mia razionalità, le registro nella mente; non ricavando alcuna certezza, esse mi rimandano al dubbio. Ogni cosa del mondo anche la più certa, una montagna, un oceano, la vita e la morte, dovrebbe indirizzarci verso il dubbio, essendo il vero meno vero della verosimiglianza.

(Fine)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quarantaquattresima

Qualcuno dei partecipanti al funerale mi suggerì di osservare l’evoluzione dei fenomeni in cui ero deuteragonista per un arco di due anni, ragionevole lasso temporale necessario a elaborare il lutto nonché per verificare se le mioclonie e i contatti con la mamma si fossero consolidati o affievoliti, se non perfino dissolti quali manifestazioni transitorie. «Devi dare tempo al tempo», mi fu detto. Ma quale tempo? Il tempo dell’Aldilà è identico a quello dei viventi? Tutti percepiscono la maggiore accelerazione del tempo a mano a mano che ci si allontana dalla giovane età; si potrebbe pensare che per i morti esso diventi ancora più veloce cosicché a un loro minuto corrisponda un giorno dei vivi. O forse il tempo è una rappresentazione ingannevole. Il modo di comunicare della mamma si era evoluto velocemente; dacché nei primi giorni consisteva in contrazioni muscolari incontrollabili esso si temperò in affettuose e confortanti conversazioni. «Io non sono morta… Sarò sempre vicino a te» diceva per lenire il malessere dell’assenza. «Sono accanto a te»: e così a teatro la poltrona accanto, spesso rimaneva libera, era occupata dalla mamma, manifestando la sua presenza, così come il gradimento per lo spettacolo, con leggere contrazioni di soddisfazione, sorridenti e complici. In un giorno di mia cupezza la risposta e il tono consolatori cambiarono improvvisamente, come se un pittore con poche pennellate avesse mutato la luce autunnale di un panorama già completato in una chiara e cristallina: «Basta piangere…Io sono viva, sono viva, viva!», le contrazioni muscolari furono particolarmente forti, nette, assertive, perché sentissi nella mia carne la certezza della sua vita attuale. Dire «Non ho denaro» non significa essere in povertà perché la ricchezza potrebbe consistere nel possedere ori, gemme, fabbricati, terreni, pozzi petroliferi, miniere senza avere un centesimo nel portafoglio o in banca e se uno sconosciuto, presentandosi, dicesse «Piacere, non mi chiamo Pietro» affermerebbe una verità che non rivela il proprio nome. Così l’affermazione vaga «Io non sono morta» non esprimeva quale fosse l’effettivo stato della mamma; ben altra cosa era la chiarezza di «Io sono viva» a cui è possibile attribuire il solo significato letterale. Dove cercare dunque la mamma? Forse non esiste l’Aldilà e il nostro Esserci aderisce a quello dei morti perché non vi è alcuna separazione del corpo dall’anima ma una trasformazione in un ulteriore stato rispetto a quello solido, liquido, aeriforme e plasmatico, sconosciuto, percepibile dai sensi solo in maniera indiretta? Mi imposi di rimanere con tali congetture per sempre, di non chiedere mai alla mamma se esse fossero veritiere né di come fosse regolata la vita dopo la morte poiché preferivo l’ignoranza alla paura. Un amico, che mai aveva avuto alcun dubbio sul mio contatto con la mamma volle parlarle. Mi distesi su un divano perché previdi delle risposte con mioclonie faticose. E tali furono. La mamma deviò dal discorso principale: «Rufo, io sono viva!», disse comandando braccio e mano con lo scatto di una rondine che sfreccia sicura verso il cielo terso e turchino, raggiungendo, inebriata dal sole abbacinante, alte quote; ogni lettera della frase veniva espressa con energia sempre maggiore dal basso verso l’alto, e sempre più in alto a mano a mano che si componevano le parole, tanto da dovere tenermi ben saldo al bracciolo e appoggiare saldamente i piedi al pavimento per evitare di scivolare. La potenza delle contrazioni sembravano affermare con gioioso orgoglio che nel nuovo stato avesse conquistato la perfezione dell’essere quasi che noi, vivi, appartenessimo allo spazio e al tempo ormai per lei irreale della sua vita anteriore oppure che rappresentassimo sogni o ricordi nel suo nuovo presente. Non replicai per la stanchezza e l’amico non poté fare altro che commuoversi. Capii che le mie mestizie intristivano la mamma perché il tono delle mioclonie aveva in tali momenti minore nettezza e intensità come se il mio sentire interno fosse una sofferenza per lei. La mamma incorporea preferiva stare su discorsi lievi a cui corrispondeva sorridendo, scuotendomi la mano destra come una piccola ala battente: la lievità, la permanenza nella quotidianità, questi inaspettati toni così lontani da quelli dolenti e tristi con cui le anime morte spesso si esprimono, mi inducevano ad allontanare la tristezza accettando il passato per quello che era stato, senza pensare a quello che avrebbe potuto essere senza compiersi. Basta con pensieri elicoidali, ritorti intorno a se stessi; basta con pensieri inconcludenti che riportano alla posizione iniziale; presi piuttosto a ragionare insieme a lei, a chiedere semplici consigli e qualche indicazione per la giornata proprio come facevo qualche anno prima. Non mi interessava conoscere alcunché del futuro: meglio l’incertezza, meglio la meraviglia o il disappunto dell’imprevisto. Come l’acqua aggira gli ostacoli e segue le vie più brevi, così il linguaggio della mamma si semplificò rendendo più agile la nostra comunicazione con gesti che accompagnano il comune parlare. A volte, anziché la risposta essere formata con contrazioni muscolari per formare le lettere dell’alfabeto, accadeva che, al loro posto, le risposte si esaurivano in un moto della mano, in un gesto che non capivo, all’apparenza senza alcun significato; e la mamma, ripetendo io la domanda, rispondeva con il codice alfabetico da me fino a quel momento utilizzato perché comprendessi. Ma un giorno improvvisamente mi si aprì la mente allorché, per una risposta che avrebbe dovuto essere o si o no, la mano si piegò a martello e, alternando, per tre volte si mosse in su e per tre volte in giù: era come la mamma avrebbe fatto annuendo con il capo. Feci la prova riformulando la domanda dimodoché la risposta corretta fosse negativa, e la mamma ruotò in maniera decisa la mano a destra e a sinistra per tre volte: era no. Alla richiesta di conferma della risposta, il no si ripeté in modo uguale. E apparirono altri movimenti di risposta; per comprenderli dovetti rappresentarmi la mamma viva, pensare ai suoi gesti, a come essi accompagnavano l’intonazione e commentavano le frasi, a come esprimevano intenzioni ed emozioni: che cosa ci vuoi fare? , ma che cosa dice quello? , ciao!, pazienza! E talvolta leggeri impulsi tra pollice e indice non suscitati da alcuna domanda precedevano una semplice frase composta con le mioclonie del braccio: «Ti voglio bene». Null’altro. Ma se la nostalgia mi intristiva, la mano dopo essersi spalancata presto si piegava e così faceva il braccio fino ad appoggiarsi sul petto, quindi entrambi premevano contro di esso con una forza al di fuori di ogni mio controllo: la mamma mi abbracciava intensamente e a lungo. «Io sono viva», aveva detto con massima gioia, ma così sembrava aggiungere «Senti il mio abbraccio? Non vi è alcuna differenza con ciò che è stato: ancora ti conforto nei momenti difficili.»

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quarantreesima

La morte fu più benigna della malattia avendo concesso alla mamma la possibilità, per tanto tempo dispersa, di esprimere appieno i propri pensieri: i miei muscoli diventarono la sua bocca, le contrazioni erano voce viva, forte, chiara, ricca di timbro, in cui ritrovavo i suoi toni. Come avviene nelle trascrizioni per solo pianoforte di una sinfonia composta per orchestra in cui il timbro degli strumenti viene perduto ma il discorso musicale e il senso della partitura originale è completamente intelligibile, così nelle conversazione ritrovavo l’essenza della mamma, ovvero la sua coscienza. Vi era il limite della lentezza nel formare le parole attraverso il mio braccio che, però, veniva compensata dalla mia collaborativa intuizione. Le contrazioni muscolari assai decise, forti, spettacolari, perfino impressionanti per chi avesse assistito alle conversazioni con la mamma, avevano probabilmente lo scopo di farmi intendere che la causa non stava in me ma esterna a me ed erano tali per contrastare la mia necessità di spiegare, dileguare, ogni semplice stato d’animo appena titubante e accettare l’evidenza della realtà. E se talvolta mi comparivano dei pensieri inaspettati che anticipavano le risposte la mamma prontamente ripeteva le parole con mioclonie potenti perché mi fosse chiaro da chi provenivano. Alla domanda se avessi potuto dialogare attraverso la scrittura ottenni la risposta netta che le contrazioni muscolari sarebbero state il solo modo di comunicare con l’Aldilà e tale sarebbe permaso anche in futuro essendo la scrittura, come il pensiero, troppo connessa alla persona, ingenerando il dubbio di essere io stesso a guidare la mano. Dovevo prendere uno dei maggiori eventi della mia vita così com’era, senza volere spiegare nulla: la mia mano e il braccio erano guidati dalla persona che più avevo amato. La madre aveva rincontrato il figlio e questo l’aveva riconosciuta. Dovevo credere. L’amica che mi aveva suggerito di pregare durante il ricovero al Bellaria, avendo visto le mioclonie durante e dopo il funerale, descrisse quanto mi stava accadendo a una psichiatra di sua conoscenza: «Se il tuo amico sta bene non deve fare nulla» concluse questa escludendo con decisione l’ipotesi del contatto ultraterreno. Le mioclonie sarebbero state conseguenza, secondo la dottoressa, di un mio conflitto interiore per la mancata accettazione della permanenza nella casa di riposo; gli scuotimenti non erano dovuti alla mamma o, comunque, a un’entità immateriale ma a una mia reazione sia al difficile passato che al percorso nell’elaborazione del lutto non ancora completato. La mia psiche avrebbe convertito quindi dolore e conflitto in una mamma ricreata dalla mia mente e questa, per dare consistenza alla mia illusione, inviato impulsi al mio braccio permettendomi di intrecciare conversazioni tra il mio io cosciente e un’altra parte dissociata di esso che inconsapevolmente avrebbe operato nel ruolo di una persona morta; e secondo la psichiatra, poiché non soffrivo di alcun disagio o disturbo, avrei potuto convivere con questa dissociazione per sempre. Sarebbe stata, dunque, una particolare modalità di lutto con la quale, anziché proseguire per un nuovo cammino da solo, continuavo a camminare su una vecchia strada ricreando in me un compagno di viaggio scomparso: la mamma incorporea. Mi parve, rispetto alla semplicità di quanto stava accadendo, una spiegazione macchinosa che escludeva, tra l’altro, non conoscendola, la mia stuporosa vita trascorsa insieme ai miei genitori. Nell’elaborare il lutto iniziai a vagare disordinatamente in differenti stati d’animo; compiuto un passo avanti ritornavo indietro disorientato perché talora mi sentivo nella stessa contrizione in cui mi trovavo poco prima della morte della mamma. Le persone veramente importanti generano una ferita che non necessariamente guarisce e, se questo avviene, rimane una cicatrice interiore. Lontano dai momenti di tristezza mi domandavo: «Ma che razza di lutto è mai questo se posso parlare con la mamma?» Se la mamma non era stata ma era ancora avrei dovuto cessare di provare dolore perché una mamma incorporea, ma vera, mi parlava in un’altra maniera e sempre mi accompagnava, anzi avrei dovuto ritenere questo una grande fortuna desiderabile da molte persone, inducendomi a considerare l’elaborazione del lutto definitivamente conclusa. Non era così: la nuova presenza incorporea della mamma attraverso le mioclonie, se da un lato mi rasserenava, dall’altro, allorché vedevo la sua poltrona vuota oppure avvertivo il desiderio di ascoltare la sua vera voce, non era sufficiente per scavalcare le mestizie del lutto. Mi mancava la presenza fisica. Avevo la memoria e l’abitudine dei sensi quali nemici. L’invisibile e il visibile, estranei per loro natura, paiono toccarsi rivelandosi il primo nel secondo in varie maniere inaspettate non rilevanti d’acchito, epifanie che non dimostrano alcunché ma sono certezza valida per il nostro animo. Al ritorno da una visita alla mamma in casa di riposo, ebbi la strana percezione di non essere solo in automobile, che il sedile accanto a me fosse occupato. A causa del vicino Mercato della Piazzola, non possedendo un’autorimessa, pareva arduo trovare un posto libero nei pressi di casa mia. Trovai, invece, un posto vuoto proprio davanti al portone del mio palazzo. Mi venne spontaneo dire sorridendo «Grazie, mamma!» e subito rammentare una specie di suo rito scaramantico, ogni volta per la stessa situazione, consistente nel lamentarsi che tutti venivano in centro con l’automobile e parcheggiavano sottraendo posti ai residenti. E come il senno di Orlando fuggì sulla Luna, non molto diversamente mi rappresentai che un’aura vitale e psichica fosse fluita dall’ingiuria occorsa al cervello della mamma raggiungendo il suo luogo naturale, cioè quello accanto a me, il più consono a lei, e avesse pronunciato le frasi facilitatrici. Dopo la morte della mamma, la piccola circostanza di trovare parcheggio al momento giusto si inverò numerose volte trasformandosi in una ricorrente e ripetuta coincidenza rivelatrice: mi piacque pensare che non erano coincidenze prive di significato perché esse richiamavano costantemente le medesime, precise, situazioni passate e che proseguivano nel presente; inoltre la ripetuta sincronicità tra la liberazione del parcheggio pochi istanti prima di ogni mio passaggio sembrava voler affermare «Io ci sono.»

(Continua)

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