L’ombra della Rocchetta (6)

Il giorno successivo, la mamma rimase basita. Pianse, s’adirò, bestemmiò. E si calmò quando le dissi che, dopo aver riordinato il macello sulle scale, mi sarei recato alla Caserma dei Carabinieri di Porta Lame per sporgere una denuncia-querela contro la Mâta.
Prima di quella serata balzana avevamo solamente presunto un collegamento tra i tormenti e la Mâta; c’erano anche tanti testimoni che potevano dare atto del notevole disturbo telefonico causato, ma nessuno di essi sapeva chi fosse quella donna, nessuno ne avrebbe potuto collegare il volto alla voce. Inoltre, se da un lato la sorella Carla aveva confermato l’identità di quell’incubo, dall’altro lato mai avrebbe mosso un dito contro l’Angiolina. E poi la Mâta era fuggita di casa, irreperibile.
Finalmente i nuovi fatti constatati dai carabinieri si collegavano ad una persona in carne ed ossa, ben identificata, per giunta in presenza di un testimone oculare.
Depositata la denuncia-querela seguirono solo pochi giorni di tregua ma poi la Mâta riprese a molestarci, e così continuò per diverso tempo perché, avendo depositato la denuncia senza l’ausilio di un avvocato, l’iter giudiziario avanzava con lentezza.
Sbagliai a non rivolgermi prima ad un legale ma in quel periodo avevo troppe cose da pagare: la ristrutturazione della nostra casa a cui si aggiunsero le spese legali per una insussistente richiesta di danni da parte di un vicino, il nuovo arredamento e la causa legale per alcune tristi questioni famigliari. Fiumi di denaro.
Alla fine fui obbligato a rivolgermi ad un avvocato perché quella donna diabolica non arretrò nella pazzia e, soprattutto, perché ogni sua azione causava alla mamma pianto, ansia e prostrazione. La Mâta era diventata per la mamma un’ossessione, sentiva di difendersi dalle accuse di assassinio perché le prendeva sul serio, dimenticando che erano invenzione di una folle. La carnefice stava trascinando con sé la vittima. Povera mamma!
Occorreva quindi spezzare in fretta questa pericolosa concatenazione.
Ci rivolgemmo ad un energico penalista pieno di tic ma con idee molto chiare: il risarcimento di denaro e la prospettiva della galera raddrizzavano pure i matti.
L’avvocato rintracciò dunque la mia denuncia-querela il cui corso era stato fermato dall’amnistia del 1990 che estingueva, in generale, una serie di reati commessi prima del 24 ottobre 1989. Ovviamente tutte le vicende accadute in quella maledetta serata del 1987 sulle scale di casa mia, per effetto dell’amnistia, sarebbero passate in cavalleria se la Mâta non avesse continuato ad infastidire con le sue pazzie non solamente me e mia madre, ma anche i nostri vicini e i nostri parenti, aggravando la propria posizione. In tal modo l’avvocato presentò una nuova denuncia-querela, vanificando l’estinzione dei precedenti reati; riprese quindi vita e vigore quella da me depositata poiché le amnistie in generale non operano in presenza di azioni recidive aggravate o reiterate.
Il legale scrisse due nuove denunce, da parte della mamma e mia, che richiamarono quella precedente, aggiungendo a supporto le registrazioni telefoniche della Mâta e del palermitano Salvatore. Designò i testimoni fra cui il prezioso amico venuto in aiuto dopo le bravate del 1987, l’unico in grado di stabilire il nesso tra la voce e la persona della Mâta.
Le ricerche dell’avvocato portarono alla luce una cosa singolare. I carabinieri caricarono la Mâta in automobile. Molto probabilmente, dopo essere stata condotta in caserma, fu presto rilasciata. Forse consigliata dai carabinieri, oppure seguendo il proprio demone, si recò all’Ospedale Maggiore e il medico del Pronto Soccorso certificò che la Mâta aveva delle lesioni all’addome per le percosse da me subite. Ma quali percosse? L’unico contatto diretto fu lo spintone nel pianerottolo sottostante. Nulla di più. Nulla in grado di causare alcuna lesione, tanto meno all’addome. Mi sarebbe parso più verosimile se il medico avesse dichiarato un raffreddamento causato dall’acqua fredda, oppure una congiuntivite per la farina e il vino finiti negli occhi!
Cos’era avvenuto, escludendo l’ipotesi che il medico avesse dichiarato e certificato il falso in un atto pubblico? Chi le aveva procurato quelle lesioni? Questo rimase un mistero.
La Mâta quindi sporse contro di me una denuncia-querela attraverso l’ospedale, d’ufficio, per percosse e lesioni, reato di non irrilevante gravità, più grave delle sue molestie. L’amnistia però agì anche nei miei confronti, estinguendo totalmente il reato contestato poiché, a differenza della Mâta, non avevo commesso recidive o reiterazioni. Ma sta di fatto che non l’avevo assolutamente percossa: mi sarei dovuto paradossalmente difendere da accuse per un reato non commesso!
Dopo che l’avvocato depositò le denunce, poiché il tempo della giustizia non si misura in giorni, la Mâta potè ancora sguazzare comodamente nei suoi intenti con nuove forme di disturbo.
Ricevemmo la telefonata di un impiegato dell’anagrafe del Comune di Grizzana. Intendeva avere dei chiarimenti su di una strana ed assurda richiesta per ottenere l’estratto di nascita della mamma, visto che sarebbe servito per il calcolo dell’ascendente. Così era scritto. Incredula, la mamma rispose all’impiegato di non rilasciare alcun certificato e di mandare una fotocopia della richiesta. Questa era stata scritta e firmata di pugno della Mâta su presunta delega della mamma.
E cominciarono a pervenire anche tante lettere non firmate recanti folli farneticazioni astrologiche che prospettavano a mia mamma un cupo futuro di sfortuna, sofferenza e morte. I fogli, le buste, erano scritti con una biro ultra nera: la calligrafia, i segni e i disegni, tutto veramente inquietante, dimostravano lo stato mentale alterato del mittente apparentemente sconosciuto. L’ anonima autrice, in ogni lettera, sempre sottolineava che la destinataria, mia mamma, era l’assassina responsabile della morte di Iolanda Fiocchetti.
Non solo la follia caratterizzava le azioni disturbatrici della Mâta ma anche ingenuità a mala pena infantili.
Passò un po’ di tempo che il disturbo postale subì un cambiamento. Anziché lettere vere e proprie, inviava a mia mamma della pubblicità in busta che modificava ritagliando il destinatario e scrivendo il nome della mamma con l’indirizzo. Sempre sulla busta scriveva le sue mortifere farneticazioni astrologiche e tracciava inquietanti scarabocchi menagramo. E spediva il suo orribile manufatto senza provvedere all’affrancatura, così ci toccava pure di pagare per ricevere quelle lettere.
Nel frattempo la ristrutturazione della nuova casa finalmente era terminata ed avevamo lasciato la vecchia casa. Là erano rimasti solamente tre coinquilini. L’anziana vicina che disgraziatamente s’affacciò dalla porta richiamata dalla confusione sulle scale, durante la serata in cui chiamai i Carabinieri, diventò una nuova vittima della Mâta, e gli altri due subivano le conseguenze delle sue pazzie. I nostri incolpevoli ex vicini di casa continuarono a subire le visite notturne dei pompieri chiamati dalla Mâta per fughe di gas, oppure le visite di ambulanze per telefonate al 118.
Le nuove malefiche cartacce, che ben presto gonfiarono una bella cartella, con le nuove azioni disturbatrici costituirono il valido motivo per presentare una terza denuncia-querela.
Tutto sarebbe finito sulla cattedra di un giudice.

(Continua)

L’ombra della Rocchetta (5)

Anche la Mâta cambiò, come succede a tutte le persone di questo mondo, ma secondo un’evoluzione decisamente peggiorativa.
Principiò a urlare le proprie farneticanti pretese e accuse con tono minaccioso, ci derideva storpiando i nostri nomi ma senza reali offese o alcuna parola sconcia.
Seguirono assidue telefonate di un vecchio dalla voce gracchiante e marcato accento palermitano. Questi si presentò per nome, Salvatore, e si qualificò amico della Mâta, improponibile mediatore. Questo tizio, oltre alla solfa delle fotografie, richiedeva che la mamma procurasse un lavoro alla Mâta. Questa donna dunque riuscì a trovare un proselita! Come poteva avvenire che qualcuno le potesse dare credito? Le chiamate provenivano da un luogo chiuso poiché sentivamo intorno ai due solo silenzio. Con chi abitava dopo la fuga da via Frassinago? La Mâta conviveva con questo palermitano?
Salvatore si dileguò dopo qualche mese ma, perché i pazzi non risultassimo noi, in previsione di una denunzia, ne avevo registrato le telefonate, così come facevo con quelle della Mâta. Le farneticazioni riempirono una ventina di musicassette.
La Mâta si limitò a questo? No.
Era dotata di una certa creatività. La Mâta sembrava ricevere suggerimenti direttamente da un diavolo poiché trovava sempre nuove strade per infastidirci e nuocerci.
E una notte verso le due il campanello di casa suonò una, due, tre volte… L’insistenza faceva pensare a qualcosa di molto grave, urgente, e ci trovammo costretti ad aprire il portone della strada, non possedendo il citofono. Si presentarono alla porta un medico e due infermieri con una barella. La mamma ed io ci trovammo nella scomoda situazione di dichiarare che la chiamata al 118 non era stata assolutamente effettuata da noi e che il centralino avrebbe potuto trovare riscontro di questo. Forse uno scherzo a scapito nostro. Assicurammo infine che in casa stavamo tutti bene.
E un’altra notte, arrivarono i pompieri per una fuga di gas. E poi i carabinieri per un furto in casa.
Queste manfrine si ripeterono più volte, infastidendo anche un’anziana vicina di casa. La Mata fu la mandante di quegli ambaradan notturni? Fu lei a fare le varie telefonate? Ne avevamo la certezza ma non potevamo dimostrarlo. Davanti ad un giudice non servono delle plausibili congetture. Scrisse Pasolini nel 1974, riferendosi a tutt’altro contesto: Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
E prese a infastidire mia zia a Vergato.
E telefonò alla scuola media dove insegnavo, sempre a Vergato, spifferando le farneticazioni sul mio conto e della mamma.
E finalmente giunse il gran momento.
Durante una domenica del 1987 la Mata ed io ci incontrammo a quattr’occhi.
Mi trovavo in casa da solo. La mamma, essendo andata a trovate la nonna, quella sera non sarebbe ritornata da Vergato.
Verso le diciotto sentii una scampanellata inaspettata. Non attendevo alcuna persona e quindi non aprii il portone d’entrata.
Seguirono tante altre lunghe, insistenti scampanellate.
Una persona sola poteva essere l’autore di quel copione.
Un presentimento mi spinse verso la porta d’entrata che per metà aveva un vetro traslucido. C’era una persona.
Guardando attraverso lo spioncino vidi, per la prima volta, la Mâta!
Fui preso contemporaneamente da agitazione e sovreccitazione. Dovevo fare qualcosa.
Mi balenò in testa l’idea di recarmi in cucina per colmare d’acqua una pentola smaltata molto grande da rovesciare sulla Mâta. Abitando all’ultimo piano, una ripida rampa di scale si troncava contro alla porta di casa mia: avrei quindi avuto la Mâta all’altezza giusta per un magnifico, perfetto gavettone. Aprii la porta all’improvviso versandole in faccia una ventina di litri d’acqua fredda. La Mâta non riuscì a scansarsi nemmeno di un millimetro. Se la prese tutta.
In fretta serrai la porta.
Mi sentivo vendicato e soprattutto sentivo di aver vendicato la mamma per le sofferenze patite fino a quel giorno. E subentrò in me l’euforia.
La Mâta, però, si attaccò al campanello della porta più ossessivamente di prima.
Che fare? Aprii d’impulso il frigorifero, presi una bottiglia di conserva di pomodoro e con essa arrossii la faccia, i capelli, gli abiti della Mâta.
E ancora suonò con rabbia.
E la inondai di vino.
E suonò ancor più rabbiosamente.
E le tirai tre uova che si ruppero spandendo il loro vischioso contenuto.
E l’ira sua aumentò.
E le versai un’intero pacchetto di farina addosso.
La Mâta non arretrò nemmeno di un millimetro come se fosse disposta a subire ogni mia schernia.
Richiusi la porta.
Dopo un breve silenzio, la Mâta prese un grosso vaso di terracotta sulle scale che scagliò rabbiosamente contro il vetro della porta fracassandolo.
Presi il coraggio di affacciarmi e subito svanì l’euforia. La Mâta sembrava fuggita, ma mi resi conto del disastro che avevo prodotto sulle scale, pazzo quanto lei. Acqua, pomodoro, vino, farina, uova, vetri rotti, tutto sparso sui gradini. Sarebbero occorse ore per pulire, in più c’era da riparare la porta d’ingresso danneggiata.
Scesi al pianerottolo sottostante.
La Mâta era ancora lì, immobile. La farina mescolata agli altri fluidi le aveva creato una maschera farcita ridicolmente con un guscio d’uovo attaccato ai capelli. Anche ripulita non sarebbe parsa, invero, di gran bellezza, occhi piccoli, suini, tracagnotta, jeans scampanati sul punto di esplodere e, poco sopra, rotoli di grasso sostenevano due grosse vesciche, tette pesanti ed oscene.
Non attendeva me, mia mamma voleva, l’assassina che aveva ucciso con un pendolo. E, soprattutto, reclamava le fotografie.
Fatto sta che nelle parole della Mâta c’era una verità: il pendolo ce l’avevamo veramente, una strana goccia cava di vetro piena di lucente mercurio, lunga poco più della falange di un pollice. Si teneva sospeso tenendo tra le dita un anellino d’osso annodato a un filo nero a sua volta annodato a un occhiello di vetro in cima al pendolo. Un oggetto che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca al migliore radioestesista poiché il mercurio donava all’oggetto grande sensibilità ai flussi energetici presenti nel cosmo e a quelli degli esseri viventi. Utilizzato prima da mio babbo e poi dalla mamma, serviva per individuare eventuali presenze di energie negative nelle persone. Fatture. Stregonerie. Malie. Malocchio.
Non era certamente un oggetto con cui potere nuocere, semmai serviva per perseguire buoni propositi; prezioso strumento rivelatore del male fatto da altri, contribuiva a raddrizzare un destino tortuoso o avverso. Con questo strumento, insomma, non sarebbe stato proprio possibile fare male ad alcuno, nemmeno tirandolo in testa con veemenza!
Su come la Mâta avesse saputo del nostro pendolo congetturammo che, nella sua cervellotica follia, avesse seguito un ragionamento logico, banale: dove si praticano le scienze occulte, la presenza di un oggetto simile appare scontata, magari non di mercurio.
Quando mi vide sul pianerottolo la Mâta prese a canzonarmi, conticino, professorino. Mi montò la rabbia, cosicché mi avvicinai dicendole sgarbatamente d’andarsene e le diedi uno spintone senza produrle alcun ondeggiamento. Rimase immobile. Ebbi l’impressione di aver spinto un pesante sacco di sabbia.
Infine prevalse la razionalità cosicché la piantai lì.
Ritornai velocemente in casa per chiamare i carabinieri. Telefonai pure a un amico che abitava non lontano da casa mia per avere un testimone.
Il mio amico arrivò con i carabinieri dopo aver incontrato la Mâta mentre vagava in lacrime avanti e indietro nella loggia d’entrata.
L’amico, essendo al corrente delle parole e delle azioni messe in opera contro mia mamma e me, mi aiutò a spiegare ai divertiti carabinieri il contorto motivo che aveva condotto a quel soqquadro. Fecero il verbale e se la portarono via.

(Continua)

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