La vendetta della Meneghini. Quasi una parabola

Si sa che le tifoserie liriche sottostanno alle medesime regole di quelle ideologiche: entrambe concepiscono dispute, talvolta artificiose, contro un nemico designato.

Le blandizie verso ciò che piace sono banali. Sequenze di peana elogiativi, ovvero pensieri privi di interesse, ovvero dolciastri luoghi comuni.

La presenza di un nemico, invece, costituisce un’azione vivificatrice per l’ingegno. L’intelligenza, se c’è, dà il meglio di sé quando cerca parole acuminate.

I nemici, quindi, sono più utili degli amici perché danno un senso alla vita. Fanno stare bene.

Quindi, se non si ha un nemico è meglio crearselo.

Il nemico può essere di due generi.

Il primo è quello del nemico consapevole di essere “il nemico”. Uno attacca, l’altro si difende e viceversa. L’inimicizia tra i due contendenti è chiara e riconosciuta da entrambi. Pensiamo ad una guerra per il petrolio, ad una guerra di liberazione o per avere il dominio del mondo. Si pensi, pure, a quanto avviene in un duello per vendicare un torto subito o, situazioni più rassicuranti, alla maggior parte dei giochi che si basano sulla presenza di un nemico – da guardia e ladri fino alla canasta dove le due parti si sfidano segnando i punti sul blocchetto di carta indicando “noi” e “loro”.

Nel mondo delle tifoserie, da quelle ideologiche fino alle calcistiche – quelle che si formano da una passione – si annida un secondo tipo di nemico.

In questo caso, il nemico è inconsapevole e senza colpe, una guerra unilaterale senza combattimenti. Il nemico non sa di essere nemico perché magari è già morto. Si verifica, poi, una sorta di guerra all’inverso: chi viene individuato come nemico è, in realtà, colui che subisce le ostilità.

Ovunque ci sono nemici del secondo tipo: cattolici contro protestanti, settentrionali contro “marocchini” o “terroni”, guelfi contro ghibellini, bolognesi contro ferraresi, modenesi contro bolognesi, juventini contro interisti, bigotti di chiesa contro comunisti mangiapreti, Berlusconi contro comunisti, Renzi contro D’Alema e viceversa.

Anche nell’opera lirica ci sono i nemici del secondo tipo: wagneriani contro verdiani, callasiani contro tebaldiani, genceriani contro callasiani. E perfino genceriani contro tutti!

Proprio come in ogni tifoseria, i fans del grande soprano Leyla Gencer progettano artatamente aspre battaglie contro un nemico designato: Maria Callas.

Lo scopo di questa di disputa? Costoro sostengono che la Callas sia stata un’usurpatrice del trono spettante alla Gencer.

Quindi la fama della Callas? Pubblicità, battage giornalistico.

Il perfetto genceriano sminuirà, minimizzerà, l’arte della Greca e magnificherà quella della Turca.

Un episodio croccante su come può agire il genceriano perfetto, puro e duro, lo fornì un tal Aurelio quando, alla fine del 1977,  mi invitò a casa sua con Tullio per fare il confronto tra le registrazioni dal vivo, a quel tempo rare e preziose, dell’Anna Bolena scaligera con la Callas e Simionato con quella che la Gencer registrò nello stesso anno per la Rai, sempre con la Simionato, entrambe dirette da Gianandrea Gavazzeni.

Da fan sfegatato di Leyla Gencer – a quel tempo in chiaro declino vocale – pure Aurelio aveva il bisogno compulsivo di affermarne la superiorità rispetto a Maria Callas, che chiamava «La Meneghini».

Aurelio compariva di quando in quando nel negozio sotterraneo della signora Salizzoni. Era un flemmatico bancario sulla quarantina, tanto azzimato quanto affettato. Possedeva una sola espressione facciale indossata alla mattina insieme al doppiopetto. Muoveva solo i muscoli delle labbra a culo di gallina, lentamente. Aveva vocali strette ed esse sibilanti, un po’ per essere fine e un po’ per camuffare la cadenza meridionale.

Aurelio viveva in una bella casa nei pressi dei Giardini Margherita con la moglie segaligna che ricordava Olivia, quella di Braccio di Ferro. Arrivammo e quella ben presto si assentò per andare a trovare la madre al piano di sotto, felice che altri si cuccassero per qualche ora quella borsa del marito.

Da un armadio, una specie di arredo da sagrestia con l’interno illuminato, rivestito di un lucido damasco color porpora, quasi un tabernacolo contenente grandi calici e piatti dorati, Aurelio prelevò il nastro a bobina dell’Anna Balena con la Callas.

Ascoltammo qualche pezzo cantato dalla Greca maledetta.

«Sentite qua come oscilla La Meneghini!»

«Perché la chiami sempre Meneghini?» ridacchiò Tullio «così sembra una milanese».

«È stata un’opportunista che ha sfruttato il marito per fare carriera. Un’arrivista senza scrupoli. La sua stella è sorta grazie a Meneghini, con Onassis è tramontata, i suoi soldi le hanno strozzato la voce…», rispose Aurelio e continuò:

«Gli acuti sono striduli, stridii di un’aquila»

«E come oscilla! Avranno dovuto puntellare la sala del Piermarini», fece Aurelio tappandosi le orecchie con le mani.

Fermò il registratore e, avviandosi verso l’armadio, disse risolutamente:

«Scusate, non so voi, ma io non ne posso più degli strilli di questa strega»

E concluse:

«Che vociaccia»

Io tacqui perché avevo immediatamente capito che, di fronte a quel fanatico, dire qualcosa a favore della Callas mi avrebbe creato una situazione difficilmente risolvibile. Nemmeno avrei potuto contare su Tullio perché anche lui digeriva poco la Greca e vistosamente assentiva ad ogni minchiata anticallasiana che usciva dalla bocca del nostro ospite.

Ed Aurelio, con un sorrisino compiacente, mancava una strizzatina d’occhio, fece:

«Rifacciamoci ora la bocca, anzi, le orecchie con Leyla…roba per palati sopraffini». Manco ci avesse offerto una bevuta di Veuve Clicquot del 1893.

Con solennità di un officiante, fece per prendere la bobina ma la mano si bloccò. In meno di un batter d’occhio salì in piedi su una poltrona e cominciò a emettere degli urli strazianti e disperati, sembrava impazzito: aveva visto un ragno. Spaventatissimo, tremante, sudato, bianco come un cencio lavato.

La Callas era morta da poco e io pensai che l’apparizione del ragno non fosse stata una coincidenza. Mi immaginai un’affusolata mano greca con le unghie laccate, fragrante di Malabrah, deporre il ragno nell’armadio in quel preciso momento. E comunque, senza interventi soprannaturali, quella situazione al nostro genceriano cadeva come un abito cucito su misura.

«Ben ti sta» pensai «magari una vespa t’avesse anche punto la lingua»

Forse per solidarietà tra anticallasiani, o perché affiorò il suo animo di buon samaritano democristiano, Tullio trovò un giornale e sbloccò la penosa situazione spiaccicando l’odioso animale sul vivace damasco.

L’aracnofobico Aurelio, fino a quel momento fuori controllo, scese dalla poltrona dopo avere avuto da Tullio la rassicurazione che l’insetto era diventato poltiglia. Immediatamente dopo il nostro amico genceriano, non più in preda al terrore, rientrò nella sua inamidatura, e continuò con la triturazione della nemica Callas a favore della celestiale Gencer.

Come se nulla fosse successo.

Ammettendo taumaturgiche capacità vocali della Gencer, quella sera si ebbe la prova che esse non avevano efficacia alcuna nella cura dell’aracnofobia dei suoi fans.

Un altro amore per Turandot

La singolarità del negozio ”Dischi Salizzoni“ consisteva nell’avere due entrate opposte, essendo situato dove il Sottopassaggio si sdoppiava in percorsi paralleli. Per il resto era anonimo e poco attraente come tutti i negozi sotterranei.

Vendeva prevalentemente musica  leggera e rock ad una clientela di passaggio, senza troppe pretese. I cultori della musica classica non avrebbero mai trovato  opere rare o  edizioni succulente, quelle che facevano bella mostra alla Casa del disco o da Bongiovanni, negozio sormontato perfino dalle insegne del Toson d’oro e i blasoni dei reali spagnoli, al posto dell’Osteria dei Tre Re. Glorianna, la proprietaria, sopperiva allo scarso assortimento ordinando i dischi classici sistematicamente mancanti, che giungevano però senza fretta. Ai pochi giovani in cerca di musica classica, la negoziante faceva dei consistenti sconti perchè coltivassero più assiduamente la propria passione.

Piccolina e minuta, la Glorianna aveva degli occhi malinconici alla Edith Piaf. Esprimevano mitezza. Il suo animo, in effetti, si manifestava gentile e paziente con tutti, perfino con una mia compagna di classe, la Corinna Strocchi, in grado di fare perdere la pazienza anche a un santo. Io pensavo che la signora Salizzoni fosse tormentata dalla mia amica. Una vittima, insomma.

Sempre sorvegliata nello spendere il denaro e contando sugli extrasconti per gli studenti, la Corinna acquistava esclusivamente le opere nel sottopassaggio, ma ad ogni cavata di papa e, per questo, ogni compera diventava un avvenimento che subivamo tutti. I dischi dovevano essere assolutamente perfetti. Ma la perfezione non sembrava mai lambire i dischi venduti dalla signora Salizzoni alla Corinna: questa infatti, ogni volta lamentava che le opere producevano fruscii, crepitii, dei pic e dei pac. I rumori comparivano ovviamente a casa della Corinna, e scomparivano allorché la signora Glorianna ascoltava con il proprio giradischi per controllare i difetti. Era il fruscìo fantasma.

La Corinna scaricava, allora, la colpa sull’apparecchio della negoziante:

«Eeeeeh, ma lei c’ha un pick-up troppo pesante. Per forza che non sente i rumori!»

E la Salizzoni di rimando:

«Forse avrà lei una puntina vecchia. Da quanto tempo è che non la cambia? E pulisce i dischi con un panno elettrostatico?»

Con questa manfrina dei fruscii, la Corinna riuscì a farsi cambiare la Carmen diretta da von Karajan per ben tre volte senza essere mandata a ramengo.

La negoziante sudò freddo, rassegnandosi al peggio, allorchè la Corinna fu posseduta dalla passione wagneriana: con L’anello del Nibelungo la perfezione si sarebbe dovuta estendere a ben diciannove dischi! La venditrice esperta affidò la propria sorte alla nota qualità della gialla Deutsche Grammophon.

In una città di sinistra, a quei tempi ancora molto ideologizzata, la signora Glorianna si professava anticomunista. Aveva civile riserbo nell’esprimere le proprie idee controcorrente, essendo temprate dall’opportunismo del commerciante.

Capitava che facesse qualche battuta sulla giunta cittadina, ostaggio dei compagni: vedeva ovunque informatori mandati dal Palazzo Comunale e proprio tra i pensionati incontinenti del sottopassaggio, stanziati a pochi metri dalle latrine pubbliche, si annidavano le spie del signor sindaco.

La signora Glorianna mi prese a benvolere come una zia, dopotutto parevo un nipote perfetto per tutti i tipi di zie, con quella faccia da bravo ragazzo studioso che mi trovavo, sempre vestito in maniera elegante, e con la passione per la musica classica.

Nonostante che il mio cuore battesse politicamente a sinistra, non essendo un indiano metropolitano, né sostenevo gli espropri proletari con sampietrini per svuotare i negozi, la signora Glorianna aveva una considerazione molto indulgente sulle mie idee, pensando che fossi solo influenzato da professori filocomunisti.

Una volta le uscì dalla bocca qualche parola in più:

«Scommetto che lei ha un professore comunista…», disse ammiccando

«Credo di sì. Quello di filosofia penso che sia comunista. Iscritto al PCI», risposi.

«Vede? Ho ragione io allora!» e continuò:

«Passerà, passerà…Certe idee passeranno come passano morbillo e varicella quando i bambini vanno all’asilo o alle elementari. Al liceo, invece, gli adolescenti sono contagiati dalla propaganda dei professori di sinistra»

«Il suo è l’entusiasmo giovanile dello studente che legge tante cose…quando sarà più grande, e penserà con la propria testa, cambierà idea. Vedrà, vedrà!»

Giocai allora una briscoletta nascosta:

«Ah! Dimenticavo… Abbiamo un altro professore comunista… quello di religione»

La Glorianna sgranò gli occhi. E continuai:

«Deve essere addirittura un extraparlamentare. Viene a scuola con eskimo, chitarra e saccoccia».

«Quanti anni ha?», chiese lei.

«Non so. E’ giovane, si è laureato da poco in lettere. Tutte le ragazze sono innamorate di lui, dicono che è anche bello»

«E cosa ci fa con la chitarra?»

«Fa cantare pezzi religiosi arrangiati come nella messa beat, e poi Guccini, De Andrè, Dylan. Cantano soprattutto le femmine, anche la Corinna»

«E quando non cantate?»

«Ci parla di Dio, di Gesù, di Marx, di capitalismo, sfruttamento, lavoro, terzo mondo, mai di partiti politici»

E allora la Glorianna:

«Mo’ sorbole!  Sta a vedere…che dietro a questo professore prenderei una barca anch’io. La prossima volta che passa, farò il terzo grado a Corinna…», chiudendo la questione dei comunisti con divertita furbizia.

Se nei bar è possibile incontrare degli avventori che per ore stanno a far chiacchiere o guardare la gente senza bere nemmeno un caffè o un crodino, così la signora Glorianna ospitava alcune persone, sempre le stesse, con diversi gradi di stranezze, dei perditempo che non compravano mai nulla, nemmeno un quarantacinque giri di Gianni Morandi.

Tra queste c’era senz’altro la Corinna che, considerando la giovane età, dimostrava grande talento naturale per le stranezze. Ma almeno lei qualche disco, seppur saltuariamente, lo acquistava.

Conobbi uno strano – o meglio, imparai a riconoscerlo più che a conoscerlo – signore benestante sulla sessantina. Entrava dalla Glorianna, si appoggiava ad una scansia e lì rimaneva con lo sguardo fisso. Una statua grezzamente intagliata nel legno con gli occhi uguali ai bottoni del paltò. Si chiamava Amedeo Masetti, così disse la Glorianna. Un uomo assai laconico, trisillabico. Poiché nessuno ci presentò, i nostri discorsi andavano a mala pena oltre i saluti, esaurendo in fretta la sua disponibilità quotidiana di sillabe. Per questa educata maleducazione mi sentivo spesso imbarazzato e, allora, per mettere in pace la coscienza, pronunciavo un impersonale Salve rivolto a tutti e a nessuno. La grande stranezza di Amedeo Masetti era che collezionava esclusivamente i dischi del Rigoletto. Nient’altro. E’ facile immaginare che la sua raccolta si fosse completata in breve tempo.

La signora Glorianna alzava gli occhi al cielo quando, ogni giorno, entrava un appiccicoso pugliese conosciuto solo per nome, Pino. Raccontò una sola cosa della sua vita privata: possedeva un disco della Traviata con Maria Malibran! Un solo racconto e, per giunta, una balla. Scelse male il soprano. Maria Felicia Malibran, infatti, se ne andò poco prima che Verdi iniziasse a comporre opere, quasi vent’anni prima della Traviata e assai prima dell’invenzione del grammofono.

L’uomo aveva sempre al seguito un figlio nullafacente, mellifluo quanto lui, sui diciotto anni. Non sembrava un fulmine di intelligenza, forse renitente alla scuola, e forse era venuto al mondo per partenogenesi dal momento che né l’uno né l’altro parlava mai della rispettiva moglie o madre.

Anche la professione del pugliese era avvolta dal mistero. Decidemmo con la Glorianna che fosse cameriere di ristorante, indossando sempre pantaloni e mocassini neri con una camicia bianca.

Pino si manifestò furbo e intrigante con un piano preciso a favore del figlio. Tessette una tela tra cui la signora Glorianna rimase intrappolata.

Il negozio Salizzoni era condotto normalmente dalla proprietaria e, all’occorrenza, arrivava il rinforzo della sorella. Con il passare dei mesi, Pino e il figlio, senza che la Glorianna avesse mai chiesto nulla, iniziarono a servire la clientela come veri commessi. La mite negoziante non ebbe mai il coraggio di dire nulla. Per qualche tempo mancai di passare nel negozio del sottopassaggio e mi sorpresi assai vedendo che la signora Glorianna aveva assunto stabilmente il figlio di Pino come commesso. Pensavo che le fossero antipatici come a me. Forse mi sbagliai. Così preferii non approfondire.

Diedi il nomignolo di Teschietto ad un tizio senza nome con cui facevo conversazione. Il suo volto, ovviamente, era smunto, scavato e molto segnato, con gli occhi fuori dalle orbite e una sfavillante dentiera prominente che spuntava dalle labbra violacee. Il colore della pelle ricordava quello dell’epatite virale acuta. Parlava generalmente, con una voce che proveniva dal sottoscala,  di cantanti scomparsi. Tra tutti prediligeva Apollo Granforte, la cui valentìa vocale, secondo Teschietto, era commisurata e dovuta, non solo metaforicamente, alle gonadi del cantante particolarmente sviluppate. Vox populi, vox Dei.

Passava dal negozio un soprano del Teatro Comunale ormai prossimo alla pensione, anche due volte al giorno, a seconda delle prove. Si chiamava Clelia Vannini. Aveva il fisico da boiler dell’arzadoura bolognese, essendo alta sul metro e cinquanta con un seno prosperoso su un fisico senza fianchi. La piccola testa ovale era sormontata da dei capelli appena ingrigiti, acconciati con una crocchia tenuta insieme da pettini. I grandi occhi spiovevano a lato e il naso aquilino anelava congiungersi con le labbra che atteggiava con un’espressione severa o schifata. Viveva con la mamma non troppo lontano da casa mia. Diceva di essere un soprano drammatico e d’avere come cavallo di battaglia nientemeno che In questa reggia dalla Turandot di Puccini e l’aria d’entrata della Lady Macbeth di Verdi.

Aveva un carattere esuberante e gioviale. Simpatica. Bastava darle un po’ di corda e conversava su tutto, con chiunque.

La signora Vannini raccontò senza troppe pruderie un episodio che altre donne avrebbero tenuto nascosto.

Mi fece:

«Non ho mai voluto tanti uomini attaccati alla stanella. Sa?».

La cosa non mi stupì. Pensai che nemmeno quand’era giovane potesse vantare una particolare bellezza.

Cantò a mezza voce, a proposito del suo essere zitella,

«Nessun m’avrà», dalla romanza in cui eccelleva.

Spiegò che prese la decisione di tagliare i ponti con gli uomini dopo essersi innamorata di un cantante lirico, omosessuale noto a tutti, tranne che a lei. La storia della principessa di gelo scongelata non ebbe un lieto finale e, quindi, la piccola Turandot si rinchiuse in una ghiacciaia sentimentale  da cui mai più uscì. Così almeno disse l’interessata.

«Pericle Livraghi…L’avrà senz’altro sentito cantare al Comunale».

«Stia bene attento, perché quello cerca i ragazzi come lei».

Livraghi e la Azzaroni si conobbero da un maestro di canto e, dopo qualche tempo, presero a vedersi anche fuori dall’ambito lirico.

Non rimanevano mai soli perché Livraghi sempre portava con sé un terzo incomodo, un professore di lettere.

«Gentile, una cara persona, molto colto…ma sempre tra i piedi. Pericle mi invitava fuori all’opera, al cinema, alla prosa. Ad ogni appuntamento si presentava con questo. Alla fine diventai, per forza, amica anche con lui».

Andavano in giro a far gite tutti e tre insieme allegramente. Arrivarono perfino a Parigi.

«Che bel viaggio e che nostalgia per quei tempi spensierati, che risate! E poi eravamo giovani…»

A Versailles il professore si storse un piede e dovette sedersi.

«Non può immaginare la scenata di Pericle al professore perché non riusciva a reggersi in piedi! Voleva vedere il Trianon a tutti costi. Si mise a fare i capricci. Battè i piedi per terra. Così andammo a visitarlo io e lui…mano nella mano»

«E poi?» chiesi divertito.

«Trovammo un angolino con poca luce e…mi diede un bacino sulla guancia. Ma non pensi che…non andammo oltre. La cosa finì lì, insomma»

Mi prese da una parte e sussurrò coprendosi la bocca:

«Era un busone»

«Ma ha capito chi è?»

Intervenì, allora, la signora Glorianna:

«Clelia, ma che cosa sta raccontando, che dice? E poi la smetta di annoiare questo povero ragazzo con la solita gnola»

La signora Vannini continuò invece sottovoce.

«Mi prese in giro, io ero la sua copertura».

Chiesi:

«Come fece a capire che…»

«Aaah, se fosse stato per me non l’avrei mai capito. Quant’ero ingenua, una gnocca…però quanto ci divertivamo! Come stavamo bene! Un bel giorno mia mamma trovò nella buchetta una lettera anonima a lei indirizzata. La frase più gentile fu: Tua flglia fa pena quando regge il moccolo a quei due busoni. Capisce anche lei che dovetti allontanarmi, mia madre si sentiva lo zimbello della gente. Dei vigliacchi. Invidiavano la mia felicità».

E sospirò.

«Dopo questo episodio, ho dato un taglio agli uomini», facendo un eloquente gesto con le mani.

«Pericle era un bell’omarino, gli piaceva vestire elegantemente. Si atteggiava a fare l’artista, l’esteta con la testa tra le nuvole…»

E aggiunse con tono pieno d’orgoglio «Sa che ebbe anche una relazione con Danny Kaye?», come se la relazione con Kaye l’avesse avuta lei o se fosse una referenza di particolare rilievo.

Ed io:

«L’attore di Hollywood? E come fece a conoscerlo?»

Poi chiesi stupito:

«Livraghi ha cantato in America?»

«No, niente America. Lo conobbe in via D’Azeglio, Pericle cantava a Palazzo Rusconi per una sfilata di moda. C’era a quel tempo, in quel palazzo, la famosa sartoria di Maria Venturi…abiti da sera bellissimi. Fu invitato a cantare delle romanze da salotto mentre passavano le mannequin… Musica Proibita, Ideale, Sogno. La sartoria aveva invitato non so quale marchesa e questa si presentò raggiante al braccio di Danny Kaye, che passava per Bologna»

E chiesi:

«Andò anche lei alla sfilata?»

«Macché, chi c’aveva i soldi per un abito elegante da stare in mezzo alla crème della società? C’erano le prime signore di Bologna! Così durante il rinfresco scoccò la scintilla tra i due».

«Il professore fece una tragedia greca. Un litigio che tremavano i muri»

«E come finì?», feci io incuriosito.

«Pericle disse che sarebbe andato fino in fondo, che avrebbe seguito il proprio destino e il proprio amore. Il professore  rispose che, se avesse continuato nel suo intento, si sarebbe buttato al piano di sotto. L’altro iniziò a ridere in maniera beffarda alla Paola Borboni. Il professore, allora, aprì la porta prese la ricorsa…e si fermò sul pavimento del pian terreno. Quattro costole incrinate, la spalla lussata e un femore rotto…»

Non riuscii a trattenere il riso.

«Se avesse aspettato una settimana non sarebbe finito al Rizzoli perché Danny Kaye prese l’aereo…senza nemmeno dire addio a Pericle dal finestrino». Il soprano del Comunale sembrò avere finito.

La signora Glorianna intercettò il mio sguardo facendosi il segno della croce.

Fui io, invece, a continuare il discorso.

«Il professore di chimica si chiamava forse Apolli?»

La signora Clelia sembrò vivificata da una scossa elettrica:

«Sì. Rolando Apolli…Lo conosce? E mi fa sgolare per un’ora?»

«Ma come fa a conoscerlo?»

«Non mi dica che pure lei…», aggiunse ridendo.

Risposi ridendo:

«Guardi che non gliel’ho mica chiesto io di raccontarmi ‘sta storia. Il professor Apolli insegnava nel mio Liceo. La Corinna è perfino andata a casa sua per delle ripetizioni di latino».

Nominata la Corinna, Turandot si calmò e fece un’espressione delusa. Sperava in  qualche cosa di sostanzioso, di qualche maldicenza piccante.

«Il professore organizzò un gruppo di studio sull’Otello. Fu lì che io e la Corinna lo conoscemmo. Non insegnava nella nostra classe. Apolli raccontò alla mia amica, andando a lezione, che conosceva tanti cantanti, in modo particolare Pericle Livraghi, un suo amico intimo»

Riprese sottovoce ma con grande concitazione:

«Macché amico intimo! Erano finocchi, se lo davano nel c…»

A quel punto la signora Glorianna, avendo sentito tutto, sbottò:

«Basta Clelia, la smetta di pronunciare queste parole! Pensa forse di vendicarsi facendo questi racconti? E’ passata tant’acqua sotto i ponti».

La Vannini sarebbe andata avanti ancora chissà per quanto.

Tagliai corto e dissi, salutando entrambe:

«Il suo racconto, signora Clelia, ha fatto quadrare un cerchio che mi portavo dai tempi del liceo».

Tornai a casa convinto che la signora Vannini avesse veramente amato Pericle Livraghi.

E l’impossibile amore della piccola Turandot era  in ghiacciaia, con lei.  Mai  svanito.

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