Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte diciassettesima

Il vino fece terminare il pranzo in allegria, cosicché nessuno dei familiari di Bruna ebbe la lucidità necessaria per pensare al perché Riccardo fosse lì. E nemmeno alla ragazza venne in mente altro pensiero che il pranzo era una modesta remunerazione per l’Opera del Mago cioè per la lettura delle carte e le sostanze esorcizzate.
Bruna e, in ospedale, la madre avrebbero dovuto fare tre abluzioni settimanali massaggiando il corpo con il liquido ottenuto dalle cartine del Mago:
«Vedrà che subito dopo sua mamma verrà dimessa…Avrò così la soddisfazione di stringere la mano a sua mamma. E pure per lei, signorina, le cose incominceranno ad andare meglio…La aiuterò perché quel giovane non venga più a tormentarle i sogni», disse a Bruna in casa di Emma.
Le cartine dei bagni servivano per la salute, il denaro e la buona sorte ma non alleviare i sogni di Bruna dall’intrusione delle immagini paurose dell’incidente di Giuseppe. La liberazione della Sampîra le aveva donato solo poche notti di serenità ma poi Bruna riprese a sognare il ragazzo insanguinato e a udirne la voce implorante:
«Aiutami Bruna, tu che mi ami.»
Sull’imbrunire, Bruna guidò allora il Mago sul luogo dove era avvenuto il mortale incidente, all’incrocio della discesa con la Via Porrettana. Mormorò un esorcismo tenendo le mani intorno al capo della ragazza e così grazie a esso Giuseppe trovò per sempre la pace senza mai più discendere nei sonni di Bruna; la testa si sgombrò dai pensieri colpevoli, ritornò l’allegria, la voglia di ridere come una volta. Pensando a Giuseppe il ricordo del suo volto e della voce erano lontani, immagini sfocate, echi flebili, provava affetto senza emozione; non riviveva il passato ma sperava per sé un veloce futuro di buone cose.
E come il Mago aveva detto, poco dopo i bagni con le cartine portate in ospedale da Bruna, la salute di Caterina in fretta migliorò tanto che nel giro di poco tempo fu dimessa dall’ospedale. Anche la fortuna di Bruna aveva preso un altro sentiero perché ora si trovava nei pensieri del Mago. Di Riccardo. Di mio babbo.
Il lungo ricovero non aveva minimamente intaccato il carattere pugnace di arżdåura montanara: riprese in mano lo scettro provvisoriamente consegnato a Bruna quale figlia maggiore, non ritenendo adeguato il marito Aristide nella conduzione della famiglia, a cui non aveva ancora perdonato il tardivo ritorno a casa dopo la Guerra e, ancora meno, il disturbo nervoso che riteneva una debolezza inaccettabile per un capofamiglia. La gestione del poco denaro, anzi della povertà familiare, ritornò di sua esclusiva competenza; solo Anselmo, l’unico figlio maschio, riusciva a farle aprire il borsellino.
Nel giro di poco, però, si impose nella famiglia una persona che, per via della intrinseca autorevolezza, spodestando la bisbetica Caterina dalla cima della piramide familiare. E quella persona, ovviamente, fu Riccardo, verso il quale Caterina provava gratitudine perché le aveva fatto ritrovare la salute:  intensificò le visite a Vergato e penetrò in breve nella famiglia di Bruna con la naturalezza dell’aria che si espande nel petto essendo necessaria per la vita; si impose con bonomia e per la risolutezza, per l’affetto che si manifestava anche attraverso la generosità materiale, aiutando la famiglia a superare le difficoltà in cui ancora si trovava, aspetto che smussò le asperità della nonna; inoltre, essendo donna acuta di ingegno, sgamò le reali intenzioni, i sentimenti, di Riccardo per la sua bella figlia maggiore.
E dall’essere una Carmen ribelle che si diverte a fare perdere la testa a decine di giovani senza loro concedere nulla, oppure una gatta che gioca crudelmente con i topolini per buttarli via, Bruna diventò una giovane donna innamorata di un uomo maturo, proprio secondo quanto sperava per sé, a dispetto delle convenzioni e delle consuetudini. In questo i miei genitori erano simili tra loro.
Il babbo assunse il ruolo di mazziere lasciando giocare la prima mano alla mamma: la sensibile maggiore età lo induceva a un comportamento di prudenza ma, al contempo, voleva una manifestazione dell’intimo sentire della mamma per lui. A Vergato, si era stanziata una comunità di zingari. Per questo popolo la richiesta della mano di un fanciulla segue un particolare rito che inizia con una serenata davanti alla sua abitazione così, una sera verso le dieci della notte, due zingari ingaggiati dal babbo, con un violino e una chitarra, suonarono sotto le finestre della camera da letto, tre canzoni dedicandole alla mamma che rimase ad ascoltare dietro alle persiane con il cuore in gola.
Il giorno dopo fece di testa sua, ormai la nonna Caterina non poteva più frenarla: la mamma se ne venne a Bologna e mai più ritornò ad abitare a Vergato.

(Continua)

 

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte seconda

Alfredo non aveva denaro; nessuno, nemmeno il figlio, dimostrava interesse per lui, solo mio babbo. Abitava nel mio stesso palazzo in un tugurio, un basso ripostiglio, un’intercapedine tra due piani, a cui si accedeva per traverso da due gradini, dove era costretto, lui abbastanza alto, a camminare curvo; senza controsoffitto, senza luce elettrica, di giorno la luce veniva da una piccola finestra rettangolare e quando imbruniva da una candela stearica in una bugia metallica smaltata; i mobili erano un tavolo, una sedia impagliata, una branda, un piccolo armadio e una stufetta elettrica. Non aveva cucina né servizi igienici: si cuoceva il pasto in casa nostra (acquistava essenziali spartani alimenti a poco prezzo e senza marca, pasta, tonno, conserva di pomodoro, olio, fagioli presso una cooperativa di consumatori, progenitrice di un attuale colosso che da tempo ha perso di vista gli scopi delle origini di mutualità) così come veniva a svuotare il pitale ed espletare gli altri bisogni corporali; per la cura del corpo si recava in un bagno diurno in via dell’Indipendenza, di cui è rimasta memoria solo nel pavimento dinanzi all’entrata, accanto al cinema Metropolitan che, anch’esso, non esiste più. Amava tanto i libri, presi in prestito dalla biblioteca popolare vicino a casa nostra, leggendo appoggiato al tavolino sotto la finestra oppure a lume di candela.

Una permanente foschia di sigaretta, cupa atmosfera densa da sembrare di un altro pianeta, rendeva difficoltosa entrando la respirazione e faceva lacrimare gli occhi. E le inseparabili sigarette, sesto dito della mano destra, furono il comune filo di destino che legò il babbo ad Alfredo: giorno dopo giorno l’acre fumo bluastro li condusse, a una settimana di distanza, alla morte, il primo per infarto cardiaco, l’altro per complicazioni dell’enfisema polmonare.

Sia Riccardo che Alfredo furono determinanti nella nascita della mia passione per la musica, in particolare modo per l’opera lirica, raccontandomi le trame, descrivendomi le scene, comprandomi i dischi seguendo ognuno i propri gusti musicali: mio babbo prediligeva il melodramma romantico, per cui mi regalò La traviata, Rigoletto, Il trovatore, Norma, Otello, Carmen, mentre Alfredo, amando Puccini e il verismo, nonostante che di fatto fosse povero, trovò il modo di regalarmi La bohème, Andrea Chenier e Cavalleria Rusticana. Anche la politica li trovava divisi in discussioni inconciliabili essendo Alfredo comunista mentre mio babbo socialdemocratico. Avevano vissuto il fascismo e subito l’inquietudine divisiva della sinistra italiana.

Ritornato dalla guerra Riccardo, sopravvissuto alla Spagnola, iniziò il lavoro di fumista insieme al cognato in una bottega nei pressi del Canale di Reno, in Borgo delle Casse, quella che sarebbe diventata, in anni fascisti, via Roma e poi, in epoca repubblicana, via Guglielmo Marconi. Tutta la zona fu interessata da imponenti sventramenti che dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, per cui dell’edificio, sicuramente modesto, dove era situata la bottega, si ha memoria solo nelle piante catastali.

Riccardo aveva sposato Alda, che tutti chiamavano Aldina, una ragazza più anziana di un anno: lei donna assai mite e religiosa, lui donnaiolo impenitente e inquieto, costituirono una coppia che nonostante tutto durò per più di trent’anni, fino alla morte di lei nel 1952. Aldina non potè avere figli in seguito a un incidente stradale; i due non si persero d’animo e con affettuosa generosità crebbero sette bambini assegnati alla loro tutela. Uno di essi, un suo grande ritratto stava appeso ai muri di casa, ricorreva nei discorsi del babbo, Cicci, ma il cui vero nome era Silvano; era un bambino molto intelligente, eccelleva a scuola tanto che il babbo, appassionato di arte medica, avrebbe sperato per lui, una volta diventato grande, una carriera come chirurgo. Il destino non fu benevolo con Cicci poiché se ne andò in cielo poco più che decenne, infrangendo i sogni di mio babbo. I ricordi ricorrenti su Cicci probabilmente insospettirono mia mamma che gli espresse chiaramente quanto pensava: «secondo me Cicci era tuo figlio» e lui di rimando «sta’ zitta, tu sei quella che sa tutto!» Evitare di rispondere ha un significato più pregnante di una risposta pertinente. A sostegno del pensiero della mamma aggiungo che, non essendo persona ricca, perché mai Riccardo avrebbe dovuto accollarsi il sacrificio di pagare gli studi universitari a un ragazzo avuto in tutela se non vi fosse stato un motivo nascosto rilevante come un legame di sangue?

La mia dada Mina fu l’unica dei figli affidati a Riccardo e ad Alda che conobbi e le ero affezionatissimo; il suo vero nome era Palmina. Esistono persone costantemente perseguitate dalla cattiva sorte e Mina fu una di queste: finì la sua vita in un sanatorio lontana dal marito, senza potere vedere, stringere, baciare la propria bambina.

(Continua)

 

You cannot copy content of this page