Una regina a Bologna

In epoche diverse, lontane da oggi, camminando per Bologna, si sarebbero potuti incontrare personaggi di gran rango come re, regine, geni e avventurieri.

Ricorderemo per prima la regina Cristina di Svezia e i tre giorni che trascorse a Bologna, seconda città della Cristianità, tappa obbligata per arrivare a Roma. L’avvenimento iniziò il giorno 26 novembre 1655, un venerdì.

Chiunque abbia in mente la fascinosa Greta Garbo ne La regina Cristina, doppiata con la voce melodiosa di Tina Lattanzi, sappia che tra tra la regina della celluloide e quella reale non correva alcuna somiglianza.
Nel film v’era un’allusione ai capelli corti della vera Cristina – invero, li portava addirittura alla maschietta – e agli abiti di foggia maschile, assai poco regali, frequentemente indossati dalla Regina. Per la Hollywood degli anni trenta, epoca di attrici belle e fatali, l’immagine di Cristina fu reinventata di sana pianta. Oppure, per rendere il personaggio storico al meglio, si sarebbe dovuto ricorrere all’istrionica Bette Davis.

Nel libro Vita barocca del 1913, Corrado Ricci fornì una sapida descrizione della Regina, seppur prendendola alla larga, partendo dal padre:

«La pelle bianchissima, l’occhio azzurro e grande, la barba di un colore biondo chiaro, quasi cinereo, procurarono a Gustavo Adolfo re di Svezia, ultimo dei Vasa, il soprannome di Gigante di neve. Eppure l’unica figlia che ebbe da Maria Eleonora da Brandeburgo, nacque e crebbe pelosa, con voce dura e grossa, quasi di maschio». Così era Cristina di Svezia, in poche righe di grande efficacia.

Noi possiamo aggiungere che, alla nascita, nel 1626, le levatrici e i genitori furono perfino dubbiosi nel determinare il sesso della piccolina.

Sarà abile perché ci ha ingannati tutti” chiosò il re Gustavo Adolfo. Cristina gli successe all’età di sei anni, ma ebbe il potere solo dodici anni dopo. Nel frattempo Cristina crebbe secondo un’educazione da principe ereditario, assecondando le sue attitudini non particolarmente muliebri: esercizi fisici, equitazione – cavalcava come un uomo, non all’amazzone – uso delle armi e caccia. Il cancelliere e istitutore Axel Oxenstierna aggiunse a questo un’accurata istruzione che prevedeva lo studio del latino, il greco, la teologia, la filosofia, la storia, lo studio della lingua tedesca, olandese, francese, italiana, i rudimenti di ebraico ed arabo. Si applicava moltissimo, per più di dieci ore al giorno. Questi semi ben presto germogliarono e diventarono piante rigogliose: Cristina dimostrò durante l’intera vita un profondo interesse, favorendole quale attento mecenate, per le discipline umanistiche, la letteratura, le arti e il teatro.

Stoccolma divenne così l’Atene del Nord.

Cristina chiamò alla corte perfino Cartesio perché le impartisse i suoi insegnamenti. Si tramanda che la Regina convocasse il filosofo alle cinque del mattino. Bizzarrie coronate. Le levatacce durante il rigido inverno svedese procurarono al pensatore una polmonite per la quale morì.

Colta, intelligente ma, per l’epoca e per l’alto Ufficio, assai bizzarra: Cristina camminava come un uomo, vestiva come un uomo, calzava scarpe da uomo, sedeva come un uomo, mangiava, beveva come un uomo. E nonostante che la bellezza non fosse sua prerogativa, amò in maniera libertina una quantità di donne e di uomini, fra questi, a Roma, il Cardinale Decio Azzolini. La Regina ebbe però un solo vero amore in tutta la sua vita e questo fu per una donna, la bella contessa Ebba Sparre, sua dama di compagnia alla corte di Stoccolma.

Ancor più sapida rispetto a quella di Ricci è la descrizione di François Maximilian Misson, scrittore francese esiliato di credo protestante, nel suo Nouveau voyage d’Italie pubblicato nel 1691, avendola veduta tre anni prima a Roma: «Ha più di sessant’anni, è di piccola statura, troppo grassa e corpulenta. Il suo complesso, la voce ed il volto sono quelli di un uomo. Ha un naso grande, grandi occhi blu, sopracciglia bionde ed un doppio mento con alcuni peli di barba. Il suo labbro superiore si sporge di poco. I suoi capelli sono color nocciola chiaro, e sono lunghi appena un palmo di mano; li porta dritti e non acconciati. Sorride spesso. Sarà difficile immaginarvi i suoi vestiti: una giacca da uomo, di satin nero, che le raggiunge le ginocchia, tutta abbottonata, con una maglietta nera molto corta, e scarpe da uomo, assieme ad una serie di nastri neri a mo’ di cravatta, il tutto accompagnato da una cintura nera stretta allo stomaco che ancor più rivela le sue rotondità».

Si può considerare a favore della sessantenne Cristina che l’età non più verde ed un passato colmo di esperienze abbiano intensificato la scarsa avvenenza di quand’era più giovane.

Perché Cristina dimorava a Roma? La Regina abdicò nel 1654 a favore del cugino Carlo X, lasciando Stoccolma per iniziare un tortuoso esilio tra Paesi Bassi, Austria, Italia e Francia che si concluse a Roma. L’abdicazione fu il risultato della concomitanza di differenti fattori: da un lato, più attratta dalle sue passioni intellettuali ed artistiche che dagli affari di stato, la Regina effettuò alcune scelte politiche ed amministrative sgradite a molti svedesi, dall’altro lato scivolò, in una crisi religiosa che culminò nell’abiura della religione protestante per abbracciare la fede cattolica. Roma fu la città che predilesse sopra tutte; abitò a Palazzo Farnese, e qui ebbe rapporti non sempre cordiali con i vari papi per via di un carattere forte e comportamenti anticonvenzionali.

Da tempo i bolognesi non vedevano una testa coronata in carne e ossa. L’ultima volta era avvenuta il 5 novembre 1529, quando Carlo V re di Spagna giunse a Bologna per la sua incoronazione ad imperatore in San Petronio per mano del Papa Clemente VII, diventando Bologna, per diversi mesi, il centro dell’Occidente e luogo di solenni fasti.

Più di un secolo dopo, i bolognesi non stettero a lesinare sui festeggiamenti per il fine settimana barocco di Cristina. Seppur fosse un’ex regina e nonostante le difficoltà causate dalla decimazione della peste manzoniana del 163O, Bologna diventò una baraonda festante.

Cristina di Svezia entrò in città con un seguito di ben duecento quarantasette cavalli e duecento cinquantacinque accompagnatori.

La carrozza – preceduta da un corteo di moschettieri, di alabardieri e poi di corazzieri – era tappezzata di stoffa rossa ricamata con filo d’oro, tirata da tre coppie di cavalli bianchi. E poi in mezzo vi era un trono.

Molteplici salve d’artiglieria, tutt’intorno una moltitudine di trombe, tamburi, mazzieri, uomini a cavallo. E fuochi d’artificio, vanto di Bologna in tutta Europa per spettacolarità e fasto.

Folla ovunque, trattenuta a forza dagli alabardieri.

Discesa dalla carrozza, la nuova devota cattolica s’avviò verso l’Arcivescovo, sotto un baldacchino bianco sorretto da otto cavalieri con mantelli neri ornati di ermellino. Dietro di loro, i canonici. La Regina s’inginocchiò su di un cuscino e l’arcivescovo le fece baciare un crocifisso.

In Piazza Maggiore, tra molti trofei, fu edificato un teatro per assistere ad un memorabile hastiludium, un torneo d’arti marziali senz’altro gradito alla Regina. E pare che l’Accademia dei Filomusi avesse eseguito la cantata Carillo tradito di un tal musico Francesco Bonini. Si tenne in suo onore un gran ballo nella Sala d’Ercole in Palazzo d’ Accursio. Corrado Ricci narra che Cristina si presentò con una «parrucca bionda riccia, spalmata di manteca e cosparsa di cipria, un fazzoletto al collo di punto genovese con nastro aranciato, come il giubbetto giavellotto guernito d’oro e d’argento. Uguale ricchezza di guarnizione copriva interamente la sottana bigia».

Cristina inoltre partecipò a un pranzo con nobildonne mascherate, assistette a messe nella cattedrale di San Pietro e in San Petronio, rese omaggio alla Madonna di San Luca; assecondando i propri interessi per le scienze, visitò le wunderkammer del Museo naturalistico di Ulisse Aldovrandi e incontrò l’illustre astronomo Giovanni Domenico Cassini.

Insomma, la permanenza a Bologna della ex regina fu colma di impegni e di incontri.

Verso Piazza Maggiore, al numero 18 di Via Galliera, il numero 577 secondo la vecchia numerazione ante 1871, quasi innanzi al portone della mia vecchia casa natale, si incontra il sontuoso Palazzo Tanari. Tanto sontuoso che il 28 novembre 1655 la Regina si ritirò a Palazzo Tanari ospite del Gonfaloniere pro tempore, il conte Giovanni Niccolò Tanari. La costruzione di questo solenne edificio principiò nel 1632, terminando nel 1671, sedici anni dopo i fatti che stiamo narrando.

Il giorno successivo riprese il viaggio verso Roma. Il 25 dicembre, l’illustre donna sarebbe stata accolta trionfalmente in San Pietro dal Papa Alessandro VII per raccogliere la sua professione di nuova fede cristiana ricevendo tutti i sacramenti.

Diventò Cristina una brava cattolica?

Fu questa conversione una vittoria di Santa Romana Chiesa contro lo scisma eretico protestante?

Solo apparentemente: Cristina fu invero una cattolica assai sui generis aggiustando i decreti papali seguendo proprie regole, spesso piene di eccessi e di molteplici peccati, anche mortali. Soleva dire che “Non sono una cattolica da palcoscenico”.

D’altra parte abbandonò anche un trono perché donna troppo libera per essere regina.

Cristina, la Regina di Roma, qui morì il 19 aprile 1689. Le spoglie imbalsamate furono ospitate in un sarcofago delle Grotte Vaticane della Basilica di San Pietro.

Là si trovano tuttora.

Tre millantatori all’Opera – Il soprano ferrarese (Parte seconda)

«Come ti paiono i miei consigli? Sono nel giusto?», chiese Carmencita Romana pensando d’aver illuminato il destino vocale di Rufo.

«Mah… Veramente ora mi sento molto disorientato davanti a tante cose nuove, così differenti rispetto a quanto Mantovani mi ha insegnato», rispose Rufo. «Dovrò pensare molto su quello che mi hai indicato».

E Carmencita Romana rispose comprensiva, perfino materna:

«Hai ragione, deve essere così, certe cose te le devi sentire dentro, dapprima in testa poi finiranno nella gola. Anch’io avevo studiato come stai facendo tu, ma qualcosa non andava. Al Conservatorio ho incontrato una nuova insegnante che mi ha aperto nuovi orizzonti cambiandomi l’impostazione. Ora mi trovo bene, sento di essere padrona della mia voce. Se vuoi posso seguirti negli studi…ci terrei».

Con repentina metamorfosi abbandonò il fare materno ed uscì dal bozzolo una farfallona che parlava alla maniera di Tina Lattanzi allorché doppiava la divina Greta Garbo:

«Carissimi ragazzi, per tutto il pomeriggio abbiamo discusso di canto ed ascoltato il nostro bravissimo Ruffi…ma non avete sentito ancora la maestra. Oggi non sono, però, molto in forma sapete com’è…problemi femminili! Quanto sono borse queste benedette donne!». E poi aggiunse bamboleggiando:

«Vi potrei fare ascoltare, se vi va naturalmente, la registrazione di un mio saggio al conservatorio in cui cantai il finale del primo atto della Traviata…cooon or-che-stra… E c’era perfino il tenore fuori scena! Come al teatro».

«Io pensavo che facessi un repertorio più antico. Moriamo dalla curiosità di sentirti, Carmencita Romana, vero?», disse Rufo interpretando anche i miei pensieri.

«Ça va sans dire», risposi io con entusiasmo pensando di rivolgermi alla Dama delle Camelie. D’altra parte il mio ruolo era, come sempre, di quello che apparentemente ne sapeva, anche in casa Barioni.

L’amico cantante ritrovò il buon umore e il suo sorriso allorché la madre della Carmencita Romana riapparve con la sua fiamminga di zuppa inglese. Sembravamo essere ritornati dei ragazzini  pieni d’allegria durante la ricreazione.

La Barioni, assentatasi per qualche minuto, ritornò nel tinello con un registratore a cassetta Philips pressoché nuovo. Sembrava tolto fuori dall’imballaggio, quasi l’avesse acquistato per quell’occasione.

La simpatica signora si era seduta insieme a noi per ascoltare la registrazione della figlia.

«Uuuuuh, che imbranata…io sono negata per far funzionare questi maledetti aggeggi. La tecnologia non dimora nella mia casa. Abborro, abborro la tecnologia», e assestò una bella risata con dei picchiettati da soprano leggero.

Armeggiò goffamente con i tasti, una sfida tra le dita rubiconde ma energiche e un elettrodomestico riottoso. Dopo qualche istante il registratore cessò di resistere uscirono i suoni.

La Barioni lo collocò al centro del tavolo perché stesse al centro delle nostre attenzioni.

È strano! è strano! in core

Scolpiti ho quegli accenti!

«Bene! Bello!», commentammo con espressioni e gesti di approvazione, annuendo rivolgendoci un po’a destra e un po’ a sinistra.

Ah, fors’è lui che l’anima

Solinga ne’ tumulti

Godea sovente pingere

De’ suoi colori occulti!

Caro lettore devi sapere che, proprio qualche settimana prima degli avvenimenti finora narrati, partecipai al Circolo Lirico ad una gara, organizzata da un noto baritono bolognese, in cui si dovevano indovinare i nomi di quaranta tenori. Tutti cantavano la stessa romanza, E lucevan le stelle. Ebbene, ne indovinai trentotto su quaranta. Tutto questo per dire che avevo facilità nel ricordare timbro, stile e certe caratteristiche dei cantanti d’opera. Ed anche una di riconoscere le registrazioni.

Ascoltando la voce registrata della Barioni, alla fine del recitativo, mi balenò chiara l’idea che avesse una singolare somiglianza con quella di Anna Moffo. Ascoltai, analizzai, ogni nota successiva come un investigatore che non cerca prove ma i fatti reali.

Già a metà della romanza ero giunto alla conclusione che non si trattava di una semplice somiglianza con Anna Moffo. Quella voce non apparteneva alla Barioni. Quella era proprio la voce di Anna Moffo! Ne ero convinto al cento per cento. Non v’era, inoltre, alcun errore musicale, tutto perfettamente a tempo, non si udiva alcun rumore di pubblico, la registrazione suonava chiara e limpida, come solo può avvenire con un’incisione discografica.

Insomma, stavamo ascoltando la stessa registrazione che Tullio, in buona fede, mi fece ascoltare per magnificare la bravura di Evelina.

Due soprani, in luoghi e tempi differenti, millantarono credito e bravura utilizzando, all’insaputa l’una dell’altra, la stessa registrazione di Traviata assai nota.

A distanza di pochi anni, la brava e famosa, Anna Moffo prestò la voce a due millantatrici. Una singolare stranezza.

E chissà quanti altri cantanti al mondo avranno mai orchestrato simili fanfaronate?

Questo stratagemma è come se la Barioni avesse invitato Gualtiero Marchesi a cena spacciando per proprie le pietanze acquistate in rosticceria, magari sporcando i tegami per rendere meglio credibile la finzione.

La figlia e la madre seguivano la registrazione ad occhi chiusi, concentrate, quasi in estasi, commentando la musica con le sole espressioni del volto ed accompagnando la melodia con la mano. Erano uno spettacolo.

Ebbi così modo di comunicare con Rufo. Nascosto dal tavolo, gli diedi un colpo con il piede, e poi ci scambiammo delle veloci occhiate eloquenti.

Pure lui aveva fatto lo stesso riconoscimento.

Per due punti passa una retta. Si ha la certezza.

Rufo fece solo un gesto con il capo per dire:

«Su, avanti, ascoltiamo!» e chiuse gli occhi pure lui.

Avremmo potuto fare una gigantesca frittata.

Il rondò di Violetta, se cantato davanti a un pubblico, fa spellare le mani per gli applausi fin da prima che l’orchestra finisca di suonare.

Qui nulla.

Il silenzio.

«E allora, cari amici, che ve ne pare?», chiese la Barioni spalancando gli occhi raggianti.

Parevano dire:

«Sono brava, vero?»

A questo punto, quasi per divertimento, perdemmo ogni freno nel parlare e iniziammo a farle dei complimenti strampalati, sparando non so quante sciocchezze con allegra disinvoltura. D’altra parte che avevamo da perdere? In qualche maniera ci dovevamo guadagnare la porta d’uscita.

Applaudimmo.

«Bravissima, eccezionale!»

«E che voce! Che timbro!»

«Ma che interprete!»

«Le agilità sono perfette!»

«Meglio della Callas, Caballé e Sutherland…e meglio anche della Olivero!»

«Un’esecuzione di riferimento. Dovrebbe rimanere tra gli annali della lirica»

«Troppo buoni, troppo buoni miei cari, tutti apprezzamenti che non merito», rispose ‘la soprano’ con attoriale modestia.

«Ma scherzi Carmencita Romana? Con tutto il cuore. Sei stata eccezionale», aggiunse Rufo con convinzione.

«Eeeeeh sì, sono stata veramente bravina, ma si può sempre fare di meglio», commentò la Barioni con falsa modestia.

La simpatica madre ad ogni nostro complimento assentiva commossa, aggiungendo impressioni e ricordi sulla serata, perché lei si trovava tra il pubblico muto.

Non capivo più nulla.

Avevamo davanti a noi due possibilità: o stava davanti a noi una curiosa coppia, una millantatrice ed una bugiarda, forse due mezze matte, oppure il mio orecchio e quello di Rufo erano caduti in errore.

Ma noi, purtroppo, non stavamo sbagliando.

S’era fatto tardi. Carmencita Romana e Rufo si sperticarono in una serie di reciproci convenevoli e di reciproche promesse, fino a che sentimmo aprire la porta dell’ingresso.

«Oooh, aspettate che vi presento la mia figliola Amina Gilda…Amina Gildaaa, vieni qua che ti presento dei miei amici di Bologna», urlò la Barioni.

Entrò una spilungona secca sui dodici anni, un po’ acneica ed androgina, non bella. Presto avrebbe perso quel po’ di gradevolezza che il buon Dio le aveva elargito.

Dall’espressione pareva evidente che non aveva alcun interesse a conoscerci. Un’interlocutrice senza parole con gli rivolti verso il pavimento.

E la madre con orgoglio:

«Bella ragazza, vero? E’ l’immagine di suo babbo. Da me ha preso solamente il dono della voce. Lei però diventerà un mezzosoprano o un contralto. Stiamo studiando le arie del Parisotti». Amina Gilda si limitò ad annuire guardando in basso mentre s’arricciava tra le dita il bordo della maglia fatta a ferri dalla nonna.

«E non vi ho detto che anche maman cantava? Quando andava a lavorare come mondina alla Rizza di Bentivoglio era la canterina migliore, quella con la voce più intonata e potente. Insomma, costituiamo una famigliola di cantatrici».

Prima di uscire di casa la Carmencita Romana, a lungo, strinse tra le sue mani quelle di Rufo:

«Mi raccomando Ruffi, pensa a coltivare la tua voce. E’ bellissima…ma occorre la tecnica. Se vuoi studiare con me, sai bene quello che devi fare…»

Uscimmo dalla deliziosa casetta a due piani di Via Erbe.

Le tre donne in fila sulla soglia, davanti al portocino, rimasero in attesa che l’automobile si mettesse in moto. E ci salutarono con la mano finché non svoltammo per Corso Porta a Mare.

Non avevamo molto da dire.

Lo strano pomeriggio appena trascorso con la Barioni sembrava una replica di una commedia già vista con altri attori.

Rufo ruppe il silenzio con un riso cattivo mollando un pugno rabbioso sul volante:

«Che maledetta baldracca è ‘la so-pra-na’ Carmecita Romana!»

Non risposi e quello si stizzì:

«E avanti, parla, dì qualcosa. Hai sempre qualcosa da dire. Proprio ora ti è venuta improvvisamente la muta?».

«Dico solo che è stato un incontro inutile. Lo hai voluto tu», dissi con un tono volutamente saccente, cosa che faceva sempre innervosire il tenore.

E aggiunsi:

«Gli insegnamenti di Mantovani rispecchiano la sua persona. Sono semplici ma chiari. Non mi sembra però che ti stia insegnando cose sbagliate. È evidente che la Barioni ti vuole come suo allievo e che, per averti, deve mettere in cattiva luce Mantovani. Ha agito come un medico quando visita un nuovo paziente. Per fare colpo, questi dirà sempre che il medico precedente ha sbagliato per intero la diagnosi. Il problema è un altro»

E mi volsi diretto verso gli occhi di Rufo.

«Ruffi, parliamoci chiaro: quella casa ospita tre matte»

«Sarà come dici tu però le osservazioni della Barioni vengono ripetute da tanti altri maestri di canto, riempiono le classi di canto dei Conservatori», mi rispose lui.

Dovevo distruggere la Barioni:

«Io, però, non darei mai credito ad una millantatrice, ad una ladra di voci, ad una culona un po’ squilibrata. L’unica sua referenza è un rondò rubato pezzo rubato alla Moffo, come ha fatto Evelina, spacciandosi per un soprano professionista dal luminoso futuro…».

«È vero. Sarà anche una culona millantatrice squilibrata, una matta…e se però avesse, in fondo, qualche ragione? Se io sbagliassi? I pazzi spesso dicono la verità. E poi lei ha ripetuto quello che molti insegnanti in giro mi potrebbero dire. Tutto sommato gli insegnamenti di Mantovani, a questo punto, costituirebbero solo la faccia invisibile della Luna»

Le parole della Carmencita Felicita avevano lasciato un segno:

Il mio velen lavora, fa dire Arrigo Boito al proprio Jago.

Ed anche l’olio nel motore della rossa carabattola che ci stava riportando a Bologna stava lavorando meglio del peggior veleno.

Improvvisamente incominciò ad uscire del fumo dal cofano dell’automobile e ne invase l’abitacolo.

Passarono brevissimi istanti, sufficienti per fermare il veicolo sulla corsia d’emergenza dell’autostrada, aprire gli sportelli e scappare lontano, che la macchina prese fuoco con un rombo profondo.

Il fumo nero si ritorceva su stesso in barocche colonne barocche, screziate di fiamme voraci e distruttive.

Qualcuno, un’anima pietosa, ci mandò il pronto intervento.

Nel frattempo il destino elargì anche un discreto acquazzone.

Spente le fiamme, quel che avanzava della povera Ascona rossa comunicava solo tristezza e infinita desolazione. E finalmente sentimmo i brividi e i tremori della paura invadere tardivamente ogni parte di noi.

Era sera inoltrata e ci trovammo di nuovo a Ferrara semibagnati, in attesa di un treno proveniente da Venezia per ritornare a casa, distrutti dalla stanchezza, dalle emozioni vissute.

Al bar della stazione ferroviaria, mangiando gli ultimi panini al prosciutto rifiutati da tutti quelli che ci avevano preceduto, mi rivolsi a Rufo e con cinica cattiveria gli chiesi:

«E se la tua amica culona portasse anche sfiga?»

(Fine)

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