La morte fu più benigna della malattia avendo concesso alla mamma la possibilità, per tanto tempo dispersa, di esprimere appieno i propri pensieri: i miei muscoli diventarono la sua bocca, le contrazioni erano voce viva, forte, chiara, ricca di timbro, in cui ritrovavo i suoi toni. Come avviene nelle trascrizioni per solo pianoforte di una sinfonia composta per orchestra in cui il timbro degli strumenti viene perduto ma il discorso musicale e il senso della partitura originale è completamente intelligibile, così nelle conversazione ritrovavo l’essenza della mamma, ovvero la sua coscienza. Vi era il limite della lentezza nel formare le parole attraverso il mio braccio che, però, veniva compensata dalla mia collaborativa intuizione. Le contrazioni muscolari assai decise, forti, spettacolari, perfino impressionanti per chi avesse assistito alle conversazioni con la mamma, avevano probabilmente lo scopo di farmi intendere che la causa non stava in me ma esterna a me ed erano tali per contrastare la mia necessità di spiegare, dileguare, ogni semplice stato d’animo appena titubante e accettare l’evidenza della realtà. E se talvolta mi comparivano dei pensieri inaspettati che anticipavano le risposte la mamma prontamente ripeteva le parole con mioclonie potenti perché mi fosse chiaro da chi provenivano. Alla domanda se avessi potuto dialogare attraverso la scrittura ottenni la risposta netta che le contrazioni muscolari sarebbero state il solo modo di comunicare con l’Aldilà e tale sarebbe permaso anche in futuro essendo la scrittura, come il pensiero, troppo connessa alla persona, ingenerando il dubbio di essere io stesso a guidare la mano. Dovevo prendere uno dei maggiori eventi della mia vita così com’era, senza volere spiegare nulla: la mia mano e il braccio erano guidati dalla persona che più avevo amato. La madre aveva rincontrato il figlio e questo l’aveva riconosciuta. Dovevo credere. L’amica che mi aveva suggerito di pregare durante il ricovero al Bellaria, avendo visto le mioclonie durante e dopo il funerale, descrisse quanto mi stava accadendo a una psichiatra di sua conoscenza: «Se il tuo amico sta bene non deve fare nulla» concluse questa escludendo con decisione l’ipotesi del contatto ultraterreno. Le mioclonie sarebbero state conseguenza, secondo la dottoressa, di un mio conflitto interiore per la mancata accettazione della permanenza nella casa di riposo; gli scuotimenti non erano dovuti alla mamma o, comunque, a un’entità immateriale ma a una mia reazione sia al difficile passato che al percorso nell’elaborazione del lutto non ancora completato. La mia psiche avrebbe convertito quindi dolore e conflitto in una mamma ricreata dalla mia mente e questa, per dare consistenza alla mia illusione, inviato impulsi al mio braccio permettendomi di intrecciare conversazioni tra il mio io cosciente e un’altra parte dissociata di esso che inconsapevolmente avrebbe operato nel ruolo di una persona morta; e secondo la psichiatra, poiché non soffrivo di alcun disagio o disturbo, avrei potuto convivere con questa dissociazione per sempre. Sarebbe stata, dunque, una particolare modalità di lutto con la quale, anziché proseguire per un nuovo cammino da solo, continuavo a camminare su una vecchia strada ricreando in me un compagno di viaggio scomparso: la mamma incorporea. Mi parve, rispetto alla semplicità di quanto stava accadendo, una spiegazione macchinosa che escludeva, tra l’altro, non conoscendola, la mia stuporosa vita trascorsa insieme ai miei genitori. Nell’elaborare il lutto iniziai a vagare disordinatamente in differenti stati d’animo; compiuto un passo avanti ritornavo indietro disorientato perché talora mi sentivo nella stessa contrizione in cui mi trovavo poco prima della morte della mamma. Le persone veramente importanti generano una ferita che non necessariamente guarisce e, se questo avviene, rimane una cicatrice interiore. Lontano dai momenti di tristezza mi domandavo: «Ma che razza di lutto è mai questo se posso parlare con la mamma?» Se la mamma non era stata ma era ancora avrei dovuto cessare di provare dolore perché una mamma incorporea, ma vera, mi parlava in un’altra maniera e sempre mi accompagnava, anzi avrei dovuto ritenere questo una grande fortuna desiderabile da molte persone, inducendomi a considerare l’elaborazione del lutto definitivamente conclusa. Non era così: la nuova presenza incorporea della mamma attraverso le mioclonie, se da un lato mi rasserenava, dall’altro, allorché vedevo la sua poltrona vuota oppure avvertivo il desiderio di ascoltare la sua vera voce, non era sufficiente per scavalcare le mestizie del lutto. Mi mancava la presenza fisica. Avevo la memoria e l’abitudine dei sensi quali nemici. L’invisibile e il visibile, estranei per loro natura, paiono toccarsi rivelandosi il primo nel secondo in varie maniere inaspettate non rilevanti d’acchito, epifanie che non dimostrano alcunché ma sono certezza valida per il nostro animo. Al ritorno da una visita alla mamma in casa di riposo, ebbi la strana percezione di non essere solo in automobile, che il sedile accanto a me fosse occupato. A causa del vicino Mercato della Piazzola, non possedendo un’autorimessa, pareva arduo trovare un posto libero nei pressi di casa mia. Trovai, invece, un posto vuoto proprio davanti al portone del mio palazzo. Mi venne spontaneo dire sorridendo «Grazie, mamma!» e subito rammentare una specie di suo rito scaramantico, ogni volta per la stessa situazione, consistente nel lamentarsi che tutti venivano in centro con l’automobile e parcheggiavano sottraendo posti ai residenti. E come il senno di Orlando fuggì sulla Luna, non molto diversamente mi rappresentai che un’aura vitale e psichica fosse fluita dall’ingiuria occorsa al cervello della mamma raggiungendo il suo luogo naturale, cioè quello accanto a me, il più consono a lei, e avesse pronunciato le frasi facilitatrici. Dopo la morte della mamma, la piccola circostanza di trovare parcheggio al momento giusto si inverò numerose volte trasformandosi in una ricorrente e ripetuta coincidenza rivelatrice: mi piacque pensare che non erano coincidenze prive di significato perché esse richiamavano costantemente le medesime, precise, situazioni passate e che proseguivano nel presente; inoltre la ripetuta sincronicità tra la liberazione del parcheggio pochi istanti prima di ogni mio passaggio sembrava voler affermare «Io ci sono.»
(Continua)