Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte nona

Le carte del Mago per leggere il destino si chiamavano Navalde ed erano assai differenti dai tarocchi, ancestrali e lontani echi del misterioso Libro di Thot: esse non avevano Semi, Onori, Trionfi e Matto ma rappresentavano le persone, gli animali, gli oggetti, le situazioni, gli stati d’animo più ricorrenti nell’esistenza umana; come i tarocchi avevano doppio significato, quello evidente rappresentato dall’immagine stessa, e uno traslato, metaforico, che dal particolare si elevava al generale, e quindi ogni carta, come gli Arcani dei Tarocchi, era anche un simbolo. Essendo state create prima della Grande Guerra seguivano l’Art Nouveau; le immagini di talune carte ricordavano la frivolezza di certe cartoline che pubblicizzavano un’acqua di colonia o una stazione termale.
Il Mago stese le Navalde sul tavolo per il lungo perché Aurora ne cavasse nove pensando intensamente a sé, agli altri, al suo presente, al tempo passato, al suo desiderio di conoscere il futuro, e le depose alla propria destra. Il rito – di questo si trattava perché contemporaneamente il Mago mormorava degli esorcismi in un concentrato silenzio e per tale motivo nei giorni del Giovedì Santo e del Venerdì Santo si asteneva da questo esercizio – voleva che per quattro volte, dopo avere mischiato e fatto tagliare il mazzo rimanente, il Mago disponesse le carte sul tavolo in quattro colonne da sinistra a destra, prendendo quelle che incrociavano ad angolo retto una carta speciale ogni volta aggiunta su cui vi era scritto semplicemente Io con il sole appena sorto su un placido mare; l’immagine ricordava quella del Partito Socialdemocratico ma per la lettura delle carte rappresentava la persona consultante. Le carte così selezionate a mano a mano s’aggiungevano alle nove iniziali. Il mucchietto mischiato e ancora tagliato dal consultante veniva disposto da sinistra a destra su quattro colonne. Un numero massimo di appena ventisei carte, compreso l’Io, rappresentava il corso del destino che aveva guidato le mani di Aurora e quelle del Mago con gesti non aleatori.
La piccola distesa di carte descriveva un arco temporale di non oltre tre lune. Per la lettura, il Mago seguiva una concatenazione da sinistra verso destra oppure dal basso verso l’alto; le carte a sinistra o sotto l’Io rappresentavano il passato, le altre il futuro; dicendo in testa, in fianco, nel cuore, cosa calpesta, che cosa abbraccia, le quattro carte che incrociavano l’Io riguardavano l’intimo sentire di Aurora. Anche i quattro angoli della stesa erano esplicati come gli angoli della casa che descrivevano l’ambito, la prossimità esistenziale della persona.
E il Mago vide quanto la miseria, la famiglia, un padre e una madre ammalati, il fratello nullafacente, avessero condizionato la giovane Bruna; dapprima annuì con gli occhi arrossati ma, quando il Mago vide che aveva vissuto una storia d’amore da poco finita con una morte, Bruna scoppiò in singhiozzi.
«Sono nata con la luna messa per traverso…ho una famiglia da poco…tanta miseria, ho avuto il vaiolo e durante la guerra sono stata tra la vita e la morte per un’intossicazione. Mio padre non lavora e non sta bene con la testa, mia madre è ricoverata da molti mesi in un sanatorio lontano per tubercolosi dovuta agli stenti. Avevo incontrato un moroso…ed è morto in uno stupido incidente. Ora me lo sogno ogni notte, un cadavere con la testa fracassata, sanguinante…sembra perseguitarmi senza che io abbia la minima colpa. Ho diciannove anni e vorrei sapere che cosa ho mai fatto di male per meritarmi tutto questo!» Il Mago la calmò con un tono affabile, modificando quello abitualmente perentorio e la scura metallicità della voce. Le carte prevedevano per Bruna un futuro migliore: se fosse intervenuto il Mago, vedeva la guarigione per la madre, poi un generale miglioramento finanziario e per la ragazza sarebbe giunto l’amore quindi il matrimonio. E il Mago promise che il mese successivo avrebbe portato, per Bruna e per la madre, delle sostanze benefiche con cui fare tre abluzioni integrali ogni sette giorni. Le cose sarebbero migliorate in fretta, disse senza tentennamenti. Erano parole certe.
Bruna chiese al Mago quale fosse il compenso per le sue opere.
«Nulla, signorina… Verrà il momento in cui mi pagherà.»
«Vorrà dire che la prossima volta la inviterò in casa mia per mangiare i tortelloni», rispose per sdebitarsi con un franco sorriso. Sulla soglia, stringendole la mano, il Mago si avvicinò al volto della ragazza e la baciò sulla guancia. Riccardo fece un bell’azzardo perché, a quell’età era ancora piuttosto selvatica, Bruna impiegava un istante per stampare un manrovescio sulla faccia di un uomo che si fosse preso la libertà di una confidenza indesiderata; non ebbe invece alcuna reazione, pensò che quel gesto fosse stata una cortesia, una manifestazione d’affetto paterno. Bruna salutò con gioia il Mago, pensando che grazie a lui la cattiva sorte l’avrebbe abbandonata e ottenuto un poco di pace per la propria anima, colpita dalla sicurezza con cui le aveva prospettato un avvenire migliore.
«Quella ragazza diventerà mia moglie», disse il Mago, serrata la porta.
Ma Emma non lo prese sul serio: «Eh, cosa dite, Riccardo? A voi piace sempre scherzare… potrebbe essere almeno vostra figlia!»
«Vedrete, vedrete», ripetè come se l’impresa da compiere fosse quella di aggiungere zucchero per ottenere una bevanda vellutata dal pungente caffè e chiuse l’argomento con Emma.
«Diventerà mia moglie», ripetè gioiosamente nel pensiero come se i fili delle loro sorti avessero già iniziato a intrecciarsi in una trama comune.

(Continua)

Il fattore K questo sconosciuto (Parte prima)

Dare tempo al tempo: un grande proverbio. Significa che occorre sapere attendere, poco o tanto. Attendere perché le cose si sistemino, perché prendano la strada giusta. Oppure affinché si possa capire appieno il senso di quello che abbiamo innanzi, magari per trovare conferme di certe congetture.

Dopo svariati anni – nelle ultime settimane – ho capito che il Partito Democratico non è mai stato un vero partito ma poco più di un accordo elettorale per vincere Berlusconi. O meglio, questa idea mi era balenata più volte senza diventare un pensiero certo. Tramontato, come tutti speriamo, l’astro dell’ex Cavaliere, il PD sta sfaldandosi dapprima lentamente poi, nelle ultime settimane, con una netta impennata.
E’ in agguato il ritorno di una vecchia geografia politica, ben conosciuta durante la cosiddetta Prima Repubblica, con una sinistra divisa in almeno tre, quattro partiti di peso differente e caratterizzate da un caleidoscopio di sfumature ideologiche. Su questa carta geografica, il PCI, il Partito Comunista Italiano, occupava lo spazio maggiore, nell’ambito della sinistra, poi seguiva il PSI, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il Partito Social Democratico Italiano. Si aggiungeva, nell’arco parlamentare, un’area massimalista, si diceva di estrema sinistra, rappresentata, a seconda delle legislature, dal Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP), dal Partito di Unità Proletaria (PdUP), da Democrazia Proletaria (DP), fino alla Rifondazione Comunista (RC).

Io iniziai a interessarmi alla politica durante il terzo anno di Liceo, anno scolastico 1972-1973. Mi iscrissi alla FGCI, la Federazione dei Giovani Comunisti Italiani, ma non ero un integralista forse perché avevo un fondo snob che mi salvava. Il Centralismo Democratico non mi andava giù, e capitava che mi trovassi d’accordo con Lotta Continua.

Alla fine degli anni ’70, il giornalista Alberto Ronchey attribuì al Fattore K lo stantio della politica italiana, l’incapacità di rinnovarsi.

K sta per Kommunizm.

Il problema italiano era, quindi, costituito dal PCI.

Con il Fattore K, Ronchey spiegava la mancanza di reali avvicendamenti politici con la conseguenza che si potevano avere solamente governi a prevalenza democristiana. L’Italia, in quegli anni, aveva una strana anomalia rispetto agli altri paesi: circolavano troppi comunisti. I comunisti costituivano, infatti, il secondo partito, più dei socialisti e dei socialdemocratici messi insieme. Il PCI, troppo vicino all’Unione Sovietica ancora in pieno vigore, non avrebbe mai potuto partecipare ad alcun governo del Paese. Il Fattore K, maledizione o nemesi?

Il Fattore K incominciò a diventare una questione seria allorché la Democrazia Cristiana perse la sua forza elettorale e il Partito Comunista guadagnò terreno. Che fare? Si progettarono nuove geometrie, le convergenze parallele, e nuove convivenze, il compromesso storico. Ed anche la «non sfiducia».

Gli apparatchiki della Botteghe Oscure probabilmente pensarono che tutti i vecchi compagni da Festa dell’Unità esultassero in coro, uniti e compatti come in un congresso del PCUS, per la frantumazione degli ideali di una vita. E, probabilmente, pensarono che le vecchie sezioni del PCI si trovassero, davanti ai loro zerbini, lunghe code di giovani, i figli del ’77, per richiedere la tessera.

(Continua)

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