Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte diciannovesima

Cosicché arrivò l’alba scura di un difficile giorno invernale all’inizio del 1955. Pochi camminavano per strada, la vita si rivelava per la luce che filtrava attraverso gli spiragli delle imposte socchiuse. La neve ghiacciata durante la notte dava la sensazione di calpestare acuminate punte vetrose scricchiolanti. Il Mago e la mamma salirono su di un taxi con due valigie contenenti abiti e oggetti necessari per i giorni di compimento dell’ Opera. L’automobile partì con un rombo profondo verso le montagne.
Dopo una sessantina di chilometri la vettura si fermò a Vimignano davanti a un podere collinare con una casa di pietra secolare. Gli ospiti, Celso e Mafalda, questa una parente alla lontana del babbo, conoscevano senza particolari la ragione per cui, di tanto in tanto, lo ospitavano nella loro casa. I due contadini sapevano che il babbo avrebbe procurato il bene ad altri e tacevano secondo il riserbo dei montanari. I miei genitori dimoravano in due stanze indipendenti a piano terreno che davano sulla calma del bosco.
Arrivò l’imbrunire e il Mago prese fuori dalla valigia un foglio di pergamena, lo srotolò sul tavolo e vi scrisse con la china nera. Dispose in cima al foglio sei boccette aperte di china differentemente colorata con tante cannette munite di pennino metallico a destra e a sinistra della pergamena.
«Durante la notte mi assenterò e rimarrai completamente sola. Ho chiesto a Celso e a Mafalda di allontanarsi fino alla mattina di domani. Qualunque cosa succeda, qualunque cosa sentirai, non dovrai uscire assolutamente dalla camera da letto. Proverai paura ma, non temere, all’interno di questa stanza non ti succederà nulla, nessuno ti farà del male. Se vuoi posso darti delle gocce per calmarti. Dovrai pensare a me con tutte le tue forze, con tutta l’anima tua…ho bisogno della tua forza. Sarà una dura prova.» E la mamma rifiutò i barbiturici: non voleva essere assente da sé stessa.
Per il compimento della sua opera, il Mago aveva scelto un crocevia solitario, dove si incontravano tre sentieri in mezzo ad un bosco di querce vicino ad una vena d’acqua cristallina che si disperdeva tra sterpi e foglie, luogo in cui misteriose forze naturali amplificavano l’efficacia delle sue magie. Le nubi s’erano dileguate prima del mezzogiorno. Il cielo terso, abbagliante, intensamente turchino, presagiva una gelata notturna; il Mago, aiutato da Celso,  nel pomeriggio avevano liberato dalla neve il sentiero che dalla casa conduceva al crocevia.
Passata la mezzanotte calzò scarpe grosse, indossò il pesante cappotto, un cappello, e una sciarpa; chiuse la cigolante porta di entrata quindi raggiunse il crocicchio tra le querce con una lampada al carburo che diffondeva una luce gialla e una robusta zanetta in legno per non scivolare lungo il percorso. Sull’imbrunire aveva legato un capretto comprato da Celso a un tronco e riparato dal freddo con dei cartoni.
Il Mago accese un fuoco su cui gettò una manciata di incenso mentre pronunciava un esorcismo. Con un pugnale indiano tagliò la gola alla bestia, l’appese a un albero a testa in giù per raccoglierne il sangue che lo versò sulle fiamme senza spegnerle; sempre mormorando delle formule rituali, il Mago con mano sicura scuoiò la piccola vittima del sacrificio e mise la pelle in una sacchetto. E quindi si incamminò verso la casa di pietra.
Il peso della paura gravava sulla mamma impedendogli di avvertire la stanchezza del giorno trascorso. Nessun sedativo l’avrebbe indotta alla calma e ancora meno al sonno; sentiva che quella situazione era una sfida in cui intendeva vincere. Accese una lampada e si sedette su una poltroncina, immobile, con le mani aggrappate ai braccioli, non riusciva a pensare di distendersi né voleva camminare lungo la stanza per evitare di avvicinarsi alla soglia della stanza, la cui porta era stata lasciata aperta dal Mago.
In un batter di ciglio sembrò che la casa non avesse più pareti di pietra solida; la mamma si trovò in mezzo ad una gelida tempesta di vento, il freddo giunse fino alle ossa ma rimase immobile controllando il tremore dei brividi. Sentì la stanza accanto riempirsi di esseri, cavalieri a cavallo di quelle folate che non poteva vedere ma di cui percepiva chiaramente la presenza. Il vento cessò. Tutto svanì lasciando il vuoto.
Il babbo con le mani ancora sporche di sangue si precipitò a controllare lo stato della mamma, immobile sulla poltrona, in attesa del suo ritorno. Solo allora principiò a tremare sia per il freddo che per sfogare la tensione interiorizzata e il babbo la coprì dicendole:
«Bruna, sei stata brava, mi hai dato tanta forza», baciandola sul capo.
E il babbo raggiunse il tavolo nella stanza accanto: trovò le cannette posate in cima alla pergamena e, sotto alle richieste che il Mago aveva scritto durante il pomeriggio, vi erano sei firme di colori differenti non con alfabeto umano ma con quello celeste.
L’Opera era stata accettata.

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte diciottesima

Verso le Mura, oltre il canale di Reno ancora non tombato, innanzi alle solenni colonne del barocco Palazzo Tanari che aveva ospitato per una notte la regina Cristina di Svezia, Via Galliera molto si restringeva per cui il pieno sole dell’estate la illuminava perpendicolarmente solo per poche ore insinuandosi nell’angustio spazio tra i vecchi edifici che si opponevano; sotto i portici, la penombra diffusa sottraeva, ingrigiti in essa, fisicità agli uomini, per riacquistarla all’improvviso inondati dal bagliore dello slargo della Piazzetta di San Giuseppe. Passata questa strettoia, al numero 37, stava il portone alto, cigolante, nero come fuliggine, del palazzo dove io nacqui e dove ho abitato per trentatré anni, i cui batacchi in bronzo da secoli ossidati, teste di leoni antropomorfi che ricordavano i mostri di Bomarzo, guardiani di una loggia lunga e tetra per il tempo, fissavano con uno sguardo allucinato chi sostava innanzi a loro come mostri scolpiti da una civiltà ignota prima della nascita della città; varcata la soglia, a destra e a sinistra, si incontravano due coppie di lesene seguite da pochi gradini sotto un ampio arco che davano su di un secondo androne e, in fondo, una porta scura conduceva a delle cantine catacombali, solidi rifugi antiaerei durante la Guerra, da cui proveniva un tiepido tanfo muffo. Accanto alla cantina, un ampio arco conduceva ad una salita di ottantotto gradini interrotta da due spaziosi pianerottoli, il primo cupo, spettrale, il secondo più luminoso; le scale a mano a mano che portavano ai piani superiori si rischiaravano, troncandosi ripide contro alla porta della nostra casa. Da bambino, se ero solo, percorrevo la loggia di corsa, salivo e scendevo con passo veloce le scale cantarellando a voce alta per darmi un tono perché la loro tetraggine mi inquietava.
Le alte finestre della nostra abitazione, con la cima a falce di luna, si affacciavano a mezzogiorno su un mare di coppi rossi che ricoprivano a perdita d’occhio i vecchi edifici tra la Via dell’Indipendenza e Via de’ Falegnami addossati come libri di poco conto strettamente stipati su una scansia appesa a un muro. Da un balcone verso oriente colmo di piante si vedeva il retro di un cinema-teatro, l’Arena del Sole, sul tetto del quale si ergeva un gruppo statuario che rappresentava la sagoma alata di un androgino Apollo ricciuto con una pensosa Tragedia e un’ispirata Poesia sedute a lato. Si intravvedeva anche un chiostro, quel che rimaneva del convento delle Domenicane, su cui era stato edificato il teatro, a cui s’abbarbicavano innumerevoli rami vigorosi di edera. Nei giorni assolati, fiumane abbacinanti di luce si riflettevano dagli alti soffitti a vela sulle pareti della casa, sullo scricchiolante pavimento venivano di assi stuccate, come nell’atelier di un pittore.
Il babbo e la prima moglie Alda iniziarono ad abitare quella casa agli inizi del 1942 insieme a Palmina, la ragazza affidata alla loro tutela, che fu poi mia madrina quando fui battezzato. Rimasto vedovo la casa rimase in balia di sé stessa: era cosa rara che, a quei tempi, un uomo curasse la casa ma nemmeno Palmina lo fece poiché non era una casalinga accurata.
Arrivata a Bologna, la mamma assunse la conduzione della casa con decisione, atteggiamento ereditato dalla nonna Caterina: non tollerando confusione e sporcizia, dipinse pareti e mobili, verniciò finestre, lucidò pavimenti, lavò vetri e tendine, spolverò, riordinò ogni cosa. Per qualche tempo Palmina osteggiò la mamma non solo per questo ma anche perché non vedeva di buon occhio l’irruzione di una donna così giovane nella vita del babbo e, di riflesso, nella sua, quasi un’usurpatrice del posto vuoto lasciato dalla mite Alda.
Proprio in quei mesi scoppiava il caso di Fausto Coppi e la Dama Bianca, cioè Giulia Occhini. Entrambi erano coniugati, colti in flagranza del reato di letto tiepido, la donna fu denunciata dal marito per adulterio e abbandono di tetto coniugale, scontò quindi tre mesi di carcere e poi fu disposto per lei il domicilio coatto. Al popolare ciclista, che si era separato consensualmente dalla moglie pur non essendo ancora previsto in Italia il divorzio, andò un poco meglio con una condanna a due mesi di carcere e il ritiro del passaporto. E l’opinione pubblica, già contro la donna per avere traviato un campione popolarissimo, fu ulteriormente montata addirittura dalle folgori di Papa Pacelli. I miei genitori non furono meno temerari: la mamma, avendo vent’anni, non aveva ancora raggiunto la maggiore età che, allora, era fissata al compimento dei ventuno anni e, prima del matrimonio, convissero more uxorio per quasi due anni, una situazione rischiosa per tempi intrisi di perbenismo ipocrita, del si fa ma non si dice.
Il nonno Aristide si limitò a dire:
«La Bruna ha la lingua lunga…le donne si difendono con lingua. Ricordatevi di portarle sempre rispetto.»
E la nonna Caterina, più seria che faceta, puntò il dito verso mio padre:
«Vó avî stariè mî fiôla…» cioè voi avete stregato mia figlia. Ma finì subito poiché in tal modo avrebbe avuto una figlia in meno da sistemare e il babbo si mostrava anche generoso.
La nonna Steria si trovò davanti una ragazza bella, esuberante ma affettuosa, con un sorriso accattivante. L’anziana donna esortò la mamma a ponderare il suo futuro:
«Al s arcôrda, sgnuréina, che lî l é żåovna e che mî fiôl l à träntazénc ân pió ed lî», si ricordi signorina che lei è giovane e che mio figlio ha trentacinque anni più di lei. Non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello rivolgersi al babbo: sapeva che tentare di convincerlo per qualcosa era uno spreco di tempo.

(Continua)

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