Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte diciottesima

Verso le Mura, oltre il canale di Reno ancora non tombato, innanzi alle solenni colonne del barocco Palazzo Tanari che aveva ospitato per una notte la regina Cristina di Svezia, Via Galliera molto si restringeva per cui il pieno sole dell’estate la illuminava perpendicolarmente solo per poche ore insinuandosi nell’angusto spazio tra i vecchi edifici che si opponevano; sotto i portici, la penombra diffusa sottraeva, ingrigiti in essa, fisicità agli uomini, per riacquistarla all’improvviso inondati dal bagliore dello slargo della Piazzetta di San Giuseppe. Passata questa strettoia, al numero 37, stava il portone alto, cigolante, nero come fuliggine, del palazzo dove io nacqui e dove ho abitato per trentatré anni, i cui batacchi in bronzo da secoli ossidati, teste di leoni antropomorfi che ricordavano i mostri di Bomarzo, guardiani di una loggia lunga e tetra per il tempo, fissavano con uno sguardo allucinato chi sostava innanzi a loro come mostri scolpiti da una civiltà ignota prima della nascita della città; varcata la soglia, a destra e a sinistra, si incontravano due coppie di lesene seguite da pochi gradini sotto un ampio arco che davano su di un secondo androne e, in fondo, una porta scura conduceva a delle cantine catacombali, solidi rifugi antiaerei durante la Guerra, da cui proveniva un tiepido tanfo muffo. Accanto alla cantina, un ampio arco conduceva ad una salita di ottantotto gradini interrotta da due spaziosi pianerottoli, il primo cupo, spettrale, il secondo più luminoso; le scale a mano a mano che portavano ai piani superiori si rischiaravano, troncandosi ripide contro alla porta della nostra casa. Da bambino, se ero solo, percorrevo la loggia di corsa, salivo e scendevo con passo veloce le scale cantarellando a voce alta per darmi un tono perché la loro tetraggine mi inquietava. Le alte finestre della nostra abitazione, con la cima a falce di luna, si affacciavano a mezzogiorno su un mare di coppi rossi che ricoprivano a perdita d’occhio i vecchi edifici tra la Via dell’Indipendenza e Via de’ Falegnami addossati come libri di poco conto strettamente stipati su una scansia appesa a un muro. Da un balcone verso oriente colmo di piante si vedeva il retro di un cinema-teatro, l’Arena del Sole, sul tetto del quale si ergeva un gruppo statuario che rappresentava la sagoma alata di un androgino Apollo ricciuto con una pensosa Tragedia e un’ispirata Poesia sedute a lato. Si intravvedeva anche un chiostro, quel che rimaneva del convento delle Domenicane, su cui era stato edificato il teatro, a cui s’abbarbicavano innumerevoli rami vigorosi di edera. Nei giorni assolati, fiumane abbacinanti di luce si riflettevano dagli alti soffitti a vela sulle pareti della casa, sullo scricchiolante pavimento venivano di assi stuccate, come nell’atelier di un pittore. Il babbo e la prima moglie Alda iniziarono ad abitare quella casa agli inizi del 1942 insieme a Palmina, la ragazza affidata alla loro tutela, che fu poi mia madrina quando fui battezzato. Rimasto vedovo la casa rimase in balia di sé stessa: era cosa rara che, a quei tempi, un uomo curasse la casa ma nemmeno Palmina lo fece poiché non era una casalinga accurata. Arrivata a Bologna, la mamma assunse la conduzione della casa con decisione, atteggiamento ereditato dalla nonna Caterina: non tollerando confusione e sporcizia, dipinse pareti e mobili, verniciò finestre, lucidò pavimenti, lavò vetri e tendine, spolverò, riordinò ogni cosa. Per qualche tempo Palmina osteggiò la mamma non solo per questo ma anche perché non vedeva di buon occhio l’irruzione di una donna così giovane nella vita del babbo e, di riflesso, nella sua, quasi un’usurpatrice del posto vuoto lasciato dalla mite Alda. Proprio in quei mesi scoppiava il caso di Fausto Coppi e la Dama Bianca, cioè Giulia Occhini. Entrambi erano coniugati, colti in flagranza del reato di letto tiepido, la donna fu denunciata dal marito per adulterio e abbandono di tetto coniugale, scontò quindi tre mesi di carcere e poi fu disposto per lei il domicilio coatto. Al popolare ciclista, che si era separato consensualmente dalla moglie pur non essendo ancora previsto in Italia il divorzio, andò un poco meglio con una condanna a due mesi di carcere e il ritiro del passaporto. E l’opinione pubblica, già contro la donna per avere traviato un campione popolarissimo, fu ulteriormente montata addirittura dalle folgori di Papa Pacelli. I miei genitori non furono meno temerari: la mamma, avendo vent’anni, non aveva ancora raggiunto la maggiore età che, allora, era fissata al compimento dei ventuno anni e, prima del matrimonio, convissero more uxorio per quasi due anni, una situazione rischiosa per tempi intrisi di perbenismo ipocrita, del si fa ma non si dice. Il nonno Aristide si limitò a dire: «La Bruna ha la lingua lunga…le donne si difendono con lingua. Ricordatevi di portarle sempre rispetto.» E la nonna Caterina, più seria che faceta, puntò il dito verso mio padre: «Vó avî stariè mî fiôla…» cioè voi avete stregato mia figlia. Ma finì subito poiché in tal modo avrebbe avuto una figlia in meno da sistemare e il babbo si mostrava anche generoso. La nonna Steria si trovò davanti una ragazza bella, esuberante ma affettuosa, con un sorriso accattivante. L’anziana donna esortò la mamma a ponderare il suo futuro: «Al s arcôrda, sgnuréina, che lî l é żåovna e che mî fiôl l à träntazénc ân pió ed lî», si ricordi signorina che lei è giovane e che mio figlio ha trentacinque anni più di lei. Non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello rivolgersi al babbo: sapeva che tentare di convincerlo per qualcosa era uno spreco di tempo.

(Continua)

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