La Torta degli Addobbi

L’arte di saper cucinare costituiva per le massaie bolognesi, in dialetto le arżdåure, una parte non trascurabile della dote. Questo significava che una brava arżdåura doveva saper preparare almeno i cardini della cucina bolognese: la sfoglia di pasta all’uovo con il matterello, il profumato ragù di carne – la cónza, come dicevano i vecchi – e il brodo. Seguivano a ruota le tagliatelle asciutte, i tagliolini e passatelli in brodo, le lasagne, i tortelloni e i tortellini, poi la carne al forno con patate e verdura cruda, il bollito misto con salsa verde e verdure al burro imbiancate di parmigiano filante.

Un posto minore dentro al baule della massaia emiliana veniva occupato dai dolci. Al termine di un pranzo festivo costituito da robuste vivande, sembravano quasi degli intrusi.

I classici dolci al termine di un pranzo bolognese erano quindi, preferibilmente, quelli al cucchiaio come il fior di latte, le pere e prugne all’alkermes, la zuppa inglese e le pesche al forno. Cose semplici, gustose, d’antico sapore.

Facevano parte della dote delle brave massaie altri dolci tradizionali. Delizie apparentemente semplici, più o meno rustiche, che entrano con più difficoltà negli stomaci già riempiti di ricche portate: la torta di tagliatelle, le sfrappole, i sabadoni, le raviole, il certosino, gli zuccherini, la torta di riso, le mistocchine, le tagliatelle fritte, la ciambella dura e tenera, la pinza… Alcuni di questi erano legati a festività o ricorrenze: le raviole si cucinavano per San Giuseppe, il certosino per Natale, gli zuccherini per gli sposalizi, le tagliatelle fritte e le sfrappole si preparavano per Carnevale.

Anche la torta di riso è un dolce da sempre collegato ad una ricorrenza precisa, la Festa degli Addobbi. Pressapoco nel 1470, il cardinale Gabriele Paleotti istituì questa importante festa cittadina che si ispirava all’antica processione per il Corpus Domini.

Ogni anno, cinque parrocchie della città celebravano la Festa degli Addobbi secondo una cadenza decennale. I festeggiamenti culminavano nella processione che si sviluppava per le strade appartenenti alla Parrocchia.

Il nome di Festa degli Addobbi derivava dal fatto che le finestre sulle strade venivano ornate, per cinque giorni, con bei drappi damascati e tappeti. Gli Addobbi, appunto, I parrocchiani spargevano, inoltre, fiori lungo il percorso della processione, costruivano apparati trionfali e altre scenografie nelle piazze e piazzette, esponevano quadri. Si fasciavano le colonne dei portici con dei velluti preziosamente ricamati e lungo il percorso della processione, venivano distesi dei veli da un lato all’altro della strada. La sera sulle finestre, sui balconi, si esponevano candelabri e lumini accesi. C’era una vera competizione tra una Parrocchia e l’altra, nella ricca Bologna di un tempo, per rendere più sfarzosa la festa sotto i portici e per le strade.

Era una vera festa di popolo, una festa con le porte delle case aperte per accogliere parenti e amici ai quali si offriva il lambrusco e la torta di riso, denominata “Torta degli Addobbi”. Una specialità solo di Bologna.

Napoleone Bonaparte dileguò in un baleno questa ricorrenza e fu ripristinata, seguendo toni minori, nel 1818.

A questo punto facciamo qualche considerazione sulla Torta degli Addobbi prima di fornire le ricette.

Essendo un dolce popolare, non esiste una sola ricetta autentica ma tante ricette con sensibili varianti nella quantità degli ingredienti. Quella depositata presso la Camera di Commercio, che qui riporto, pretenderebbe di dare un crisma d’ortodossia ad un qualcosa che esiste solamente in termini di innumerevoli vulgate.

La Torta degli Addobbi non appare particolarmente bella, ma è una prelibatezza ricca e squisita.

Apparentemente semplice nella fattura, occorre pazienza per fare bene questa torta.

Solitamente io inizio la prima fase di lavorazione prima della cena poi lascio fermo l’impasto per una notte e l’intera mattina successiva e, infine,  cuocio in forno nel pomeriggio.

Dopo la cottura, è bene che la torta rimanga ferma per un giorno o due, meglio al fresco, affinché il raffinato gusto della torta si esalti al massimo. La regola empirica è che più giorni passan e più diventa buona.

La torta di riso, inoltre, è pesante per via dell’umidità che deve conservare anche dopo svariati giorni. Guai mai se risulterà asciutta.

Per la cottura è bene sempre utilizzare uno stampo metallico assai spesso.

Questi sono gli ingredienti delle tre varianti che propongo.

Ricetta depositata alla Camera di Commercio di Bologna

Latte, 1 litro

Riso, 200 gr

Zucchero caramellato, 200 gr

Zucchero vanigliato, 100 gr

Tuorli d’uovo, N.3

Uova intere, N.3

Mandorle 100 gr

Un bicchierino di mandorla amara

Cannella, una stecca

Chiodi di garofano

La buccia grattugiata di un limone

Un pizzico di sale

Quattro o sei amaretti, facoltativi

Ricetta della signora Lena

Questa ricetta fu data a mia madre da una vicina di casa che mi aveva visto nascere. La signora Elena, da tutti chiamata Lena. Aveva gestito una trattoria sotto casa mia, in Via Galliera, ed era la sorella del proprietario della Trattoria ‘Da Vito’, la trattoria degli artisti, dove andavano Francesco Guccini, Lucio Dalla, Ron, Andrea Mingardi, Giorgio Gaber, Red Ronnie.

Latte, 1 litro

Mandorle, 150 gr

Riso, 150 gr

Cedro candito, 100 gr

Zucchero vanigliato, 50 gr

Amaretti, 100 gr

Zucchero, 100 gr

Uova, N.6

La mia ricetta

Trascrivo ora la ricetta che di gran lunga prediligo. Il risultato è un dolce particolarmente raffinato, quasi da alta cucina. Si trova nel bellissimo libro dal titolo «La cucina di Bologna» di Alessandro Molinari Pradelli (figlio del grande direttore d’orchestra Francesco Molinari Pradelli).

Latte 1 litro

Riso originario, 100 gr

Zucchero vanigliato, 100 gr

Zucchero semolato, 400 gr

Mandorle dolci, 100 gr

cedro candito, 100 gr

Amaretti, 50 gr

Tuorli d’uovo, N.6

Albumi, N.4

Mezzo bicchiere di liquore alla mandorla amara

La scorza grattugiata di un limone

Un pizzico generoso di sale

La preparazione è la seguente:

Portare all’ebollizione il latte, quindi aggiungere il riso, una presa di sale, la buccia grattugiata di un limone. Abbassare la fiamma e fare cuocere fino a che il latte sarà totalmente assorbito.

Nel frattempo tostare le mandorle sbucciate e poi sminuzzarle grossolanamente. Tagliare il cedro a cubetti. Tritare gli amaretti ed ammorbidirli con mezzo bicchiere di liquore alla mandorla amara.

Poco prima di togliere il riso dal fuoco, caramellare lo zucchero nelle quantità prescritte. Quindi incorporare il caramello al riso cotto, poi aggiungere lo zucchero semolato, le mandorle tritate e il cedro candito. Lasciare che il composto si raffreddi e quindi aggiungere le uova intere e i tuorli, amalgamando con energia.

Coprire il tegame e lasciare riposare per almeno dodici ore.

Il giorno dopo, imburrare lo stampo metallico e cospargerlo di pan grattato. Versare il composto nello stampo e cuocerlo a 160 gradi, per almeno quarantacinque minuti. La torta sarà cotta quando, punzecchiando al centro con uno stuzzicadenti, esso uscirà asciutto. Togliere, allora, la torta dal forno e versarvi il liquore alla mandorla amara a volontà, fino a che ne assorbirà. La torta di riso deve essere ubriacata di questo liquore. A me piace aggiungere anche un poco di alkermes.

Lasciate che la torta si raffreddi e riponetela in frigorifero per almeno un giorno.

Non va tagliata a fette, ma si devono formare delle losanghe, al centro di ognuna si pianteranno degli stuzzicadenti per facilitarne la presa.

La Torte degli Addobbi deve essere gustata con le dita.

Tre millantatori all’Opera – Il soprano ferrarese (Parte seconda)

«Come ti paiono i miei consigli? Sono nel giusto?», chiese Carmencita Romana pensando d’aver illuminato il destino vocale di Rufo.

«Mah… Veramente ora mi sento molto disorientato davanti a tante cose nuove, così differenti rispetto a quanto Mantovani mi ha insegnato», rispose Rufo. «Dovrò pensare molto su quello che mi hai indicato».

E Carmencita Romana rispose comprensiva, perfino materna:

«Hai ragione, deve essere così, certe cose te le devi sentire dentro, dapprima in testa poi finiranno nella gola. Anch’io avevo studiato come stai facendo tu, ma qualcosa non andava. Al Conservatorio ho incontrato una nuova insegnante che mi ha aperto nuovi orizzonti cambiandomi l’impostazione. Ora mi trovo bene, sento di essere padrona della mia voce. Se vuoi posso seguirti negli studi…ci terrei».

Con repentina metamorfosi abbandonò il fare materno ed uscì dal bozzolo una farfallona che parlava alla maniera di Tina Lattanzi allorché doppiava la divina Greta Garbo:

«Carissimi ragazzi, per tutto il pomeriggio abbiamo discusso di canto ed ascoltato il nostro bravissimo Ruffi…ma non avete sentito ancora la maestra. Oggi non sono, però, molto in forma sapete com’è…problemi femminili! Quanto sono borse queste benedette donne!». E poi aggiunse bamboleggiando:

«Vi potrei fare ascoltare, se vi va naturalmente, la registrazione di un mio saggio al conservatorio in cui cantai il finale del primo atto della Traviata…cooon or-che-stra… E c’era perfino il tenore fuori scena! Come al teatro».

«Io pensavo che facessi un repertorio più antico. Moriamo dalla curiosità di sentirti, Carmencita Romana, vero?», disse Rufo interpretando anche i miei pensieri.

«Ça va sans dire», risposi io con entusiasmo pensando di rivolgermi alla Dama delle Camelie. D’altra parte il mio ruolo era, come sempre, di quello che apparentemente ne sapeva, anche in casa Barioni.

L’amico cantante ritrovò il buon umore e il suo sorriso allorché la madre della Carmencita Romana riapparve con la sua fiamminga di zuppa inglese. Sembravamo essere ritornati dei ragazzini  pieni d’allegria durante la ricreazione.

La Barioni, assentatasi per qualche minuto, ritornò nel tinello con un registratore a cassetta Philips pressoché nuovo. Sembrava tolto fuori dall’imballaggio, quasi l’avesse acquistato per quell’occasione.

La simpatica signora si era seduta insieme a noi per ascoltare la registrazione della figlia.

«Uuuuuh, che imbranata…io sono negata per far funzionare questi maledetti aggeggi. La tecnologia non dimora nella mia casa. Abborro, abborro la tecnologia», e assestò una bella risata con dei picchiettati da soprano leggero.

Armeggiò goffamente con i tasti, una sfida tra le dita rubiconde ma energiche e un elettrodomestico riottoso. Dopo qualche istante il registratore cessò di resistere uscirono i suoni.

La Barioni lo collocò al centro del tavolo perché stesse al centro delle nostre attenzioni.

È strano! è strano! in core

Scolpiti ho quegli accenti!

«Bene! Bello!», commentammo con espressioni e gesti di approvazione, annuendo rivolgendoci un po’a destra e un po’ a sinistra.

Ah, fors’è lui che l’anima

Solinga ne’ tumulti

Godea sovente pingere

De’ suoi colori occulti!

Caro lettore devi sapere che, proprio qualche settimana prima degli avvenimenti finora narrati, partecipai al Circolo Lirico ad una gara, organizzata da un noto baritono bolognese, in cui si dovevano indovinare i nomi di quaranta tenori. Tutti cantavano la stessa romanza, E lucevan le stelle. Ebbene, ne indovinai trentotto su quaranta. Tutto questo per dire che avevo facilità nel ricordare timbro, stile e certe caratteristiche dei cantanti d’opera. Ed anche una di riconoscere le registrazioni.

Ascoltando la voce registrata della Barioni, alla fine del recitativo, mi balenò chiara l’idea che avesse una singolare somiglianza con quella di Anna Moffo. Ascoltai, analizzai, ogni nota successiva come un investigatore che non cerca prove ma i fatti reali.

Già a metà della romanza ero giunto alla conclusione che non si trattava di una semplice somiglianza con Anna Moffo. Quella voce non apparteneva alla Barioni. Quella era proprio la voce di Anna Moffo! Ne ero convinto al cento per cento. Non v’era, inoltre, alcun errore musicale, tutto perfettamente a tempo, non si udiva alcun rumore di pubblico, la registrazione suonava chiara e limpida, come solo può avvenire con un’incisione discografica.

Insomma, stavamo ascoltando la stessa registrazione che Tullio, in buona fede, mi fece ascoltare per magnificare la bravura di Evelina.

Due soprani, in luoghi e tempi differenti, millantarono credito e bravura utilizzando, all’insaputa l’una dell’altra, la stessa registrazione di Traviata assai nota.

A distanza di pochi anni, la brava e famosa, Anna Moffo prestò la voce a due millantatrici. Una singolare stranezza.

E chissà quanti altri cantanti al mondo avranno mai orchestrato simili fanfaronate?

Questo stratagemma è come se la Barioni avesse invitato Gualtiero Marchesi a cena spacciando per proprie le pietanze acquistate in rosticceria, magari sporcando i tegami per rendere meglio credibile la finzione.

La figlia e la madre seguivano la registrazione ad occhi chiusi, concentrate, quasi in estasi, commentando la musica con le sole espressioni del volto ed accompagnando la melodia con la mano. Erano uno spettacolo.

Ebbi così modo di comunicare con Rufo. Nascosto dal tavolo, gli diedi un colpo con il piede, e poi ci scambiammo delle veloci occhiate eloquenti.

Pure lui aveva fatto lo stesso riconoscimento.

Per due punti passa una retta. Si ha la certezza.

Rufo fece solo un gesto con il capo per dire:

«Su, avanti, ascoltiamo!» e chiuse gli occhi pure lui.

Avremmo potuto fare una gigantesca frittata.

Il rondò di Violetta, se cantato davanti a un pubblico, fa spellare le mani per gli applausi fin da prima che l’orchestra finisca di suonare.

Qui nulla.

Il silenzio.

«E allora, cari amici, che ve ne pare?», chiese la Barioni spalancando gli occhi raggianti.

Parevano dire:

«Sono brava, vero?»

A questo punto, quasi per divertimento, perdemmo ogni freno nel parlare e iniziammo a farle dei complimenti strampalati, sparando non so quante sciocchezze con allegra disinvoltura. D’altra parte che avevamo da perdere? In qualche maniera ci dovevamo guadagnare la porta d’uscita.

Applaudimmo.

«Bravissima, eccezionale!»

«E che voce! Che timbro!»

«Ma che interprete!»

«Le agilità sono perfette!»

«Meglio della Callas, Caballé e Sutherland…e meglio anche della Olivero!»

«Un’esecuzione di riferimento. Dovrebbe rimanere tra gli annali della lirica»

«Troppo buoni, troppo buoni miei cari, tutti apprezzamenti che non merito», rispose ‘la soprano’ con attoriale modestia.

«Ma scherzi Carmencita Romana? Con tutto il cuore. Sei stata eccezionale», aggiunse Rufo con convinzione.

«Eeeeeh sì, sono stata veramente bravina, ma si può sempre fare di meglio», commentò la Barioni con falsa modestia.

La simpatica madre ad ogni nostro complimento assentiva commossa, aggiungendo impressioni e ricordi sulla serata, perché lei si trovava tra il pubblico muto.

Non capivo più nulla.

Avevamo davanti a noi due possibilità: o stava davanti a noi una curiosa coppia, una millantatrice ed una bugiarda, forse due mezze matte, oppure il mio orecchio e quello di Rufo erano caduti in errore.

Ma noi, purtroppo, non stavamo sbagliando.

S’era fatto tardi. Carmencita Romana e Rufo si sperticarono in una serie di reciproci convenevoli e di reciproche promesse, fino a che sentimmo aprire la porta dell’ingresso.

«Oooh, aspettate che vi presento la mia figliola Amina Gilda…Amina Gildaaa, vieni qua che ti presento dei miei amici di Bologna», urlò la Barioni.

Entrò una spilungona secca sui dodici anni, un po’ acneica ed androgina, non bella. Presto avrebbe perso quel po’ di gradevolezza che il buon Dio le aveva elargito.

Dall’espressione pareva evidente che non aveva alcun interesse a conoscerci. Un’interlocutrice senza parole con gli rivolti verso il pavimento.

E la madre con orgoglio:

«Bella ragazza, vero? E’ l’immagine di suo babbo. Da me ha preso solamente il dono della voce. Lei però diventerà un mezzosoprano o un contralto. Stiamo studiando le arie del Parisotti». Amina Gilda si limitò ad annuire guardando in basso mentre s’arricciava tra le dita il bordo della maglia fatta a ferri dalla nonna.

«E non vi ho detto che anche maman cantava? Quando andava a lavorare come mondina alla Rizza di Bentivoglio era la canterina migliore, quella con la voce più intonata e potente. Insomma, costituiamo una famigliola di cantatrici».

Prima di uscire di casa la Carmencita Romana, a lungo, strinse tra le sue mani quelle di Rufo:

«Mi raccomando Ruffi, pensa a coltivare la tua voce. E’ bellissima…ma occorre la tecnica. Se vuoi studiare con me, sai bene quello che devi fare…»

Uscimmo dalla deliziosa casetta a due piani di Via Erbe.

Le tre donne in fila sulla soglia, davanti al portocino, rimasero in attesa che l’automobile si mettesse in moto. E ci salutarono con la mano finché non svoltammo per Corso Porta a Mare.

Non avevamo molto da dire.

Lo strano pomeriggio appena trascorso con la Barioni sembrava una replica di una commedia già vista con altri attori.

Rufo ruppe il silenzio con un riso cattivo mollando un pugno rabbioso sul volante:

«Che maledetta baldracca è ‘la so-pra-na’ Carmecita Romana!»

Non risposi e quello si stizzì:

«E avanti, parla, dì qualcosa. Hai sempre qualcosa da dire. Proprio ora ti è venuta improvvisamente la muta?».

«Dico solo che è stato un incontro inutile. Lo hai voluto tu», dissi con un tono volutamente saccente, cosa che faceva sempre innervosire il tenore.

E aggiunsi:

«Gli insegnamenti di Mantovani rispecchiano la sua persona. Sono semplici ma chiari. Non mi sembra però che ti stia insegnando cose sbagliate. È evidente che la Barioni ti vuole come suo allievo e che, per averti, deve mettere in cattiva luce Mantovani. Ha agito come un medico quando visita un nuovo paziente. Per fare colpo, questi dirà sempre che il medico precedente ha sbagliato per intero la diagnosi. Il problema è un altro»

E mi volsi diretto verso gli occhi di Rufo.

«Ruffi, parliamoci chiaro: quella casa ospita tre matte»

«Sarà come dici tu però le osservazioni della Barioni vengono ripetute da tanti altri maestri di canto, riempiono le classi di canto dei Conservatori», mi rispose lui.

Dovevo distruggere la Barioni:

«Io, però, non darei mai credito ad una millantatrice, ad una ladra di voci, ad una culona un po’ squilibrata. L’unica sua referenza è un rondò rubato pezzo rubato alla Moffo, come ha fatto Evelina, spacciandosi per un soprano professionista dal luminoso futuro…».

«È vero. Sarà anche una culona millantatrice squilibrata, una matta…e se però avesse, in fondo, qualche ragione? Se io sbagliassi? I pazzi spesso dicono la verità. E poi lei ha ripetuto quello che molti insegnanti in giro mi potrebbero dire. Tutto sommato gli insegnamenti di Mantovani, a questo punto, costituirebbero solo la faccia invisibile della Luna»

Le parole della Carmencita Felicita avevano lasciato un segno:

Il mio velen lavora, fa dire Arrigo Boito al proprio Jago.

Ed anche l’olio nel motore della rossa carabattola che ci stava riportando a Bologna stava lavorando meglio del peggior veleno.

Improvvisamente incominciò ad uscire del fumo dal cofano dell’automobile e ne invase l’abitacolo.

Passarono brevissimi istanti, sufficienti per fermare il veicolo sulla corsia d’emergenza dell’autostrada, aprire gli sportelli e scappare lontano, che la macchina prese fuoco con un rombo profondo.

Il fumo nero si ritorceva su stesso in barocche colonne barocche, screziate di fiamme voraci e distruttive.

Qualcuno, un’anima pietosa, ci mandò il pronto intervento.

Nel frattempo il destino elargì anche un discreto acquazzone.

Spente le fiamme, quel che avanzava della povera Ascona rossa comunicava solo tristezza e infinita desolazione. E finalmente sentimmo i brividi e i tremori della paura invadere tardivamente ogni parte di noi.

Era sera inoltrata e ci trovammo di nuovo a Ferrara semibagnati, in attesa di un treno proveniente da Venezia per ritornare a casa, distrutti dalla stanchezza, dalle emozioni vissute.

Al bar della stazione ferroviaria, mangiando gli ultimi panini al prosciutto rifiutati da tutti quelli che ci avevano preceduto, mi rivolsi a Rufo e con cinica cattiveria gli chiesi:

«E se la tua amica culona portasse anche sfiga?»

(Fine)

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