Tre millantatori all’Opera – Scantarellatore senza stoffa

Un giorno, agli inizi di luglio, tappati per l’ora di canto nel salotto con le finestre chiuse per non infastidire i vicini, Mantovani mi mise in agitazione. «Volevo dirti che la Bonarelli mi ha chiesto di cantare a Cervia, in piazza. Un concertino per la fine d’agosto. Avevo intenzione di fare debuttare Rufo e Gabriele. Potresti cantare anche tu, se sarai pronto. Come compenso c’è una mangiata di pesce dopo lo spettacolo».

Donatella Bonarelli era la pianista del Circolo Lirico, detto da noi ‘La casa del cane’. Una pianista monocratica perché decideva in tutto e per tutto il programma dei concerti che si tenevano ogni domenica pomeriggio e qualche festa comandata. Le avevamo affibbiato il soprannome l’Immarcescibile Bonarelli oppure, in breve, ‘L’Immarcescibile’. Se non avesse avuto i capelli tinti con la cocciniglia per gli aperitivi analcolici e gli occhiali tempestati di brillantini, la Bonarelli si sarebbe assomigliata a Romano Prodi come una goccia d’acqua, perfino nel timbro rauco della voce e nei modi da curato di campagna.

«Mio babbo mi ha sempre detto di stare dalla parte degli operai», diceva la Bonarelli ma, quanto a generosità, il suo portafoglio non seguiva i saggi insegnamenti paterni, essendo assai tirata. Come spesso accade tra gli artisti di moderato fulgore.

La sola prospettiva di quel concerto a Cervia, l’averlo solo nominato, m’aggiunse in meno di un batter d’occhio sudore di strizza al sudore per il caldo e sentii anche quelle fitte alla pancia che tormentarono il povero Mantovani durante la Turandot areniana.

Avrei voluto partecipare a quel concerto solo per non sentirmi da meno rispetto agli altri due ma, contemporaneamente, non avrei mai voluto su di un palco per la paura di trovarmi innanzi alla folla di spettatori. Un contrasto inconciliabile da opera metastasiana.

Avvertii, con certezza matematica, assoluta, che il canto non apparteneva al mio essere. Per un po’, avevo dimenticato che per l’opera lirica ero un misero cantante da stanza da bagno senza pubblico. Uno scantarellatore senza pretese.

Lo studio del canto era stata solo un’opportunità per consolidare le nuove amicizie, nuovi legami.

Non potevo nemmeno nascondermi che, se fossi stato escluso da quella festa in piazza con Rufo e Gabriele, questo sarebbe stato uno smacco per il mio grande amor proprio. L’esclusione porta con sé un poco di umiliazione.

Avrei voluto salvare capra e cavoli.

Come riuscire a non fare senza rinunciare? Senza dire?

Decisi di attendere sperando con tutte le mie energie che il concerto fosse andato con le gambe all’aria per un qualsiasi intoppo del caso. Un temporale, una dissenteria generale!

«Fai che non si faccia, fai che non si faccia, faccia che non si faccia», ripetevo dentro di me con la speranza che qualche santo ascoltasse e mi facesse una grazia.

Passò l’intero mese di luglio senza che Mantovani avesse alcuna conferma dall’Immarcescibile.

Venne anche agosto. Rufo se ne andò in vacanza ma, purtroppo, sarebbe ritornato giusto in tempo per il concerto.

Dopo Ferragosto decisi, così, di telefonare a Mantovani senza far parola del concerto, un apparente saluto di cortesia.

«Sai che la Bonarelli non mi ha ancora chiamato per il concerto? Pensavo di farti cantare un’aria facile facile dal Parisotti…Caro mio ben. Faremo annunciare che stai debuttando». Avrei dunque cantato.

Non posso soffrire quest’arietta, spesso cantata come primo brano musicale per scaldare la voce:

Caro mio ben

Credimi almen

Senza di te

Languisce il core

Mi dissi:

«Caro mio ben durante una festa in piazza mentre cuociono piadine e friggono salsicce con le cipolle? Spero che mi venga una laringite».

E poi ho sempre odiato gli annunci che giustificano la salute di un cantante.

«Si avvisa il gentile pubblico che stasera il tenore Tizio canterà il ruolo di Sempronio nonostante la sua indisposizione. La Direzione di questo Teatro ringrazia sentitamente il signor Tizio per la collaborazione».

Io ho sempre pensato che chi è ammalato debba starsene a letto! Così come un allievo scarso è bene che studi prima di farsi compatire in pubblico. Annunciare che un cantante sta debuttando, così come annunciare l’indisposizione per un altro in carriera, significa mettere le mani avanti, è come dire:

«Se farà schifo compatitelo ma non fischiatelo. E portate pazienza», oppure

«E mo’ so’ tutti c… vostri!»

Mantovani aggiunse:

«Qualche giorno prima del concerto verrai da me per preparare la romanza e mettere a posto le ‘erre’… Faremo lezione a gratis. Le prove prima dei concerti non non si pagano. Non sono micca come quella plumona della Bonarelli, io. Quella chiede dei soldi per le prove dei concerti organizzati da lei…ti farebbe pagare anche per andare a spandere acqua in casa sua. Ma con me non la spunta micca, sai. Andremo insieme da quella strega a gratis».

Trascorsa un’ora, mi telefonò Rufo dal luogo delle vacanze.

«Sai qualcosa da Mantovani? Devo ritardare il ritorno di qualche giorno…gli dirò che non riuscirò ritornare in tempo per il concerto. E poi debuttare all’aperto proprio durante una festa di paese…ti pare una bella cosa?»

Sentivo la voce lontana e disturbata, ma intesi bene quel che mi interessava. Mi sarei messo a ballare per la gioia.

«E se anche Gabriele…», pensai in preda ad un presentimento pieno di speranze. Lo chiamai al telefono.

Parlava a stento. Il giorno prima gli era scoppiata una tonsillite con delle belle placche per tutta la gola. Febbre a quaranta da curare con sei giorni almeno di antibiotici e tachipirina a volontà.

«Che peccato! Avrei proprio cantato volentieri. E poi c’era la mangiata di pesce…Oggi telefonerò al maestro. Anche se guarissi in tempo, non me la sento proprio di cantare all’aperto. Se mi si raffreddasse il sudore addosso rischierei una ricaduta».

Gabriele era il beniamino di Mantovani e lo preferiva di gran lunga a Rufo. Il maestro diceva sempre che se questo aveva la voce bella e potente, una bella presenza, l’altro sapeva dire belle frasi, faceva le mezze voci e soavi filature.

«La voce non ha la stessa qualità di quella di Rufo, ma Gabriele sa cantar bene e sa ruffianarsi il pubblico. L é un artèsta».

Non mi dolsi per le placche all’erede di Tito Schipa.

«Mors tua vita mea», pensai, senza scrupoli e con sincera contentezza. Dopotutto nessuno era mai morto per un banale mal di gola. A mia conoscenza, almeno. E poi, con la scusa di lenire il dolore alle tonsille, si rimpinzava di gelati dalla migliore gelateria. Quasi un chilo al giorno.

Il concerto a Cervia era nato evidentemente sotto una stella infausta.

Subito dopo aver saluto Gabriele mi chiamò Mantovani inalberato oltre ogni misura.

«Che pezzente la Bonarelli! Voleva darmi solo ottantamila lire per quattro arie e tre duetti! Mi ha detto che non ci sono soldi…Neanche la metà della metà di quello che prendo. Almeno darmi il rimborso della benzina e dell’autostrada…e poi voleva venire in macchina con me. ‘Sta bèla gnòca non apre mai il portafoglio per le spese del viaggio. Non ho micca bisogno di cantare a gratis per i suoi begl’occhi. E sai cosa mi ha anche detto? Che avrebbe chiamato Livraghi! Ed io le ho riattaccato il telefono. Ho fatto bene?», starnazzò al telefono.

«Certo Floriano, non ha una sola ragione…ma ne ha mille», risposi soffiando sul fuoco, se mai ce ne fosse stato bisogno. Mi sentivo Jago.

Le vicende intorno allo sfortunato concerto a Cervia non finirono qui.

Il giorno dopo Mantovani mi telefonò strepitando come un falco in volo:

«Allora sai che pugnetta m’ha fatto Cla brótta schiva d una pòrza d una cocott d un cûl strazè della Bonarelli? Da due settimane Cervia è stata riempita di cartelli che riportano un concerto con Pericle Livraghi e tre suoi allievi… E’ il nostro concerto! Quella busonaccia stava in due paia di scarpe e ha fatto di tutto perché fossi io a rinunciare…si è inventata tutto. Una falsa. Figurati se Livraghi si sposta per ottantamila lire!»

«Chi le ha riferito di quei cartelli?», gli chiesi.

«La signora Romea, una nostra vicina che ha una casa là, a cui avevo detto di venirmi a sentire in piazza. Mi ha chiamato ieri sera per sapere quando avrei cantato. La Bonarelli mi ha fatto fare una brutta figura anche con la Romea…», rispose sempre surriscaldato.

«L’ho mandata a fare dei gioielli sui viali!»

Si chiuse la parentesi del concerto a Cervia sotto un fugace temporale di grevi parole al posto della grandine.

Trascorso qualche giorno, L’Immarcescibile Bonarelli invitò Mantovani ad una Festa dell’Unità:

«Andrò a cantare per i papaveri» rise soddisfatto. E tutto riprese come prima, come altre volte.

Caro lettore, il mese di agosto del 1980 però non terminò senza lasciare un segno definitivo: sia le scantarellate casalinghe che le lezioni di canto avevano per me le ore contate.

Avvenne che dopo la telefonata di Mantovani seguì quella di Tullio:

«Novitàaaa?»

Gli narrai ciò di cui l’avevo tenuto all’oscuro, il concerto a Cervia. Ci facemmo due risate alle spalle di Mantovani e dell’Immarcescibile.

«Ti va di fare una scantarellata? Potremmo fare Suoni la tromba intrepido»

Perché non avrei dovuto? Non scantarellavamo insieme da diversi mesi. E, soprattutto, Tullio non mi aveva ancora sentito nella nuova veste baritonale. E poi, ormai, quanto mi poteva interessare il suo giudizio?

Trascorse poco più di mezz’ora e

driiiiinnn,

Tullio suonò alla porta, curioso di sentirmi più di una scimmia appassionata di lirica.

Feci per prima Ah per sempre io ti perdei, i soliti Puritani, quasi il prezzemolo della corda baritonale.

Il cavilloso sgranò i chiari occhi felini senza fare le smorfie a cui mi ero abituato.

Non capendo il significato dell’espressione, gli chiesi:

«Allora, cosa te ne pare?».

Il giudizio fu abbasyanza positivo. Così almeno mi parve.

«Sei molto cambiato… Gli acuti vanno meglio, e il timbro non è per niente tenorile, anzi… Un vero baritono».

A mia volta sgranai gli occhi.

«Non mi credi?», mi chiese Tullio.

«Perché non registri, così ti rendi conto?»

Caro lettore, perché non avrei dovuto registrarmi? Anzi sarebbe stato bene averlo fatto prima. Fino a quel giorno non mi ero mai registrato, non avevo quindi mai ascoltato la mia voce con l’orecchio degli altri.

Posi il registratore sul tavolo ed accesi.

Scelsi di cantare l’aria che rappresenta l’apice della baritonalità, l’Eri tu dal Ballo in maschera di Giuseppe Verdi, la disillusione di un uomo innamorato e tradito.

Ce la misi tutta per cantarla nel miglior modo possibile ed ebbi cura nelle intenzioni interpretative.

Eri tu che macchiavi quell’anima,

La delizia dell’anima mia…

…È finita, non siede che l’odio

E la morte nel vedovo cor!

O dolcezze perdute, o speranze d’amor!

Al termine mi sarei quasi detto:

«Bravo!»

Decisi di ascoltare immediatamente la registrazione. Riavvolsi la musicassetta, premetti play, e… dopo qualche secondo interruppi la riproduzione del nastro. Solo qualche nota.

Chiesi a Tullio:

«La registrazione rende fedelmente la mia voce?»

E lui:

«Sì è abbastanza fedele. Perché?»

Ed io:

«Nulla, nulla. Preferisco ascoltarla da solo, con calma. Ti spiace?»

Fece spallucce senza capire. Oppure capì e stette al mio gioco.

Ci sfogammo con il duetto dei Puritani tra baritono e basso, con la trascinante cabaletta Suoni la tromba intrepido.

Sembravamo entrambi soddisfatti.

Ancora due chiacchiere, parlammo del più e del meno, ancora qualche risata su Mantovani e Donna Fernanda, mangiammo qualche biscotto con una bevanda fredda e se ne andò.

Rimasi solo con il registratore. Mi sentii come se mi fossi dovuto specchiare per la prima volta dopo un intervento di chirurgia plastica.

La mia voce non era come avrei voluto che fosse.

Non solo non mi piacqui ma mi trovai inascoltabile.

Per dirla in breve, mi sembravo un bue lamentoso, fisso e stonato con dizione confusa. E le ‘erre’…erano tremende.

La descrizione finisce qua perché il brutto è facile da rendere.

«Se ora mi dicono che sono migliorato…chissà come sarò stato quando cantavo da tenore!». Sorrisi per tutte le cose che avevo pensato di Tullio. Ed io pensavo che, oltre ad essere sgarbato, fosse il malafede!

Mi convinsi che non avevo alcuna attitudine per il canto.

Valevano anche per me le parole che il professore di Analisi I rivolse ad un mio collega di astronomia al termine di un esame infelice mentre gli restituiva il libretto universitario senza voto:

«Lei mi ricorda un violinista a cui mancano le mani. Ora, non c’è nulla di male non avere le mani ma, almeno, non faccia il violinista».

Decisi di abbandonare baracca e burattini.

Diedi addio al canto e alle scantarellate.

Per sempre.

E senza rimpianti.

Tre millantatori all’Opera – Lezioni di canto (Parte terza)

Cantai delle scale discendenti, giù giù, fino a che m’era possibile intonare le note. Avevo una discreta facilità nel registro medio e grave.

Mantovani aggrottò le sopracciglia, si grattò vicino al bordo del parrucchino. Sembrava aver acquisito l’ultimo elemento necessario per esprimere il suo giudizio.

Si riempì d’aria, scosse la testa risolutamente. Doveva affrontare un discorso difficile.

«In sincerità, non me la sento di pestar ancora acqua nel mortaio. Abbiamo fatto diverse lezioni ma i miglioramenti sono stati pochi. Io vorrei che tu provasti a cantare come barittono».

Suonò un mi e un fa al pianoforte:

«Queste note, per te, dovranno essere degli acuti, non note di passaggio. Il suono sarà giusto, più gradevole, anticipando il passaggio di registro come fanno i barittoni smetterai di strozzarti. Tu sei un barittono, insomma».

E proseguì con la sua ‘pillolina’:

«Per il tenore, invece, il fa è il principio di una scalinata che porta ai piani alti fino al solaio. Un tenore non può faticare su di un fa. Tu ora su queste note fai un trasloco! Sta attento: Mi-aaaaa… Mi-aaaaa…Mi-aaaaa… Senti com’è tutto semplice per me? È dolce come se cantassi una frase di romanza. Ora prova tu, canta, canta mo’ da tenore».

Ripetei il vocalizzo.

«Avverti qualche differenza tra me e te?»

Una domanda retorica. C’era tanta differenza! Il vocalizzo eseguito da me era indubbiamente faticoso, con suono aperto, non ben controllato.

Era un trasloco, appunto.

«Queste note sono così spapellate…perchè te non sei micca un tenore».

E il maestro di canto rimpolpò ulteriormente le sue argomentazioni per straconvincermi:

«Su queste note un vero tenore deve cantare romanze su romanze con facilità. Il barittono qui, tra il fa e il sol, invece, è quasi arrivato al capolinea, ci fa solo degli effetti. Prende gli applausi e si cucca i soldi».

Suonò le ultime note di Celeste Aida:

«Questo per me è un acuto…un trono vicino al soooool, un trono vicino sooooooooooool» e smorzò il si bemolle, tenendolo fino a che diventò rubizzo.

«Oddioddio me…che capogiro!»

Sembrò stramazzare per terra. Fece un po’ il guitto. A Mantovani piaceva condire i propri gesti come se fosse su di un palcoscenico.

Si riprese e continuò:

«Se dovessi cantare sempre in questa zona sarebbe per me…come inghiottire della ghiaia senza berci dietro almeno un bicchier d’acqua! Rendo l’idea? Ahaha»

«È un metafora assai efficace», risi anch’io.

«Metafia? Che cos’è? Me lo spiega lei, signor letterato?», fece con sguardo furbetto, bonariamente sfottitorio.

«Una specie di paragone», risposi, nuovamente ridendo, tagliando corto.

E gli chiesi a mia volta:

«La mia voce non è per caso troppo chiara per essere un baritono? A me disturbano certi cantanti troppo corti per essere tenori e troppo chiari per essere baritoni!»

I Francesi designano in maniera curiosa, ma precisa ed efficace, queste voci che hanno caratteristiche di entrambe le corde vicine, cioè che non sono né carne né pesce rispetto al colore vocale e all’estensione: usano il cognome del cantante ritenuto capostipite di quel tipo vocale o che ha dato ad esso un’adeguata notorietà.

I mezzosoprani dalla voce lunga, potente e squillante vengono così denominati ‘falcon’, in onore di Cornélie Falcon, creatrice dei più bei ruoli del Grand Opéra. I falcon potrebbero però essere anche dei soprani dalla voce bronzea nei centri, ideale per le parti verdiane.

Per i cugini d’Oltralpe ci sono anche i soprani ‘dugazon’. Nel diciottesimo secolo, Madame Dugazon fu il nome d’arte con cui si fregiò un’artista tuttofare, un po’ cantante un po’ ballerina e un po’ attrice, presunta antesignana delle soubrette corte, dotate di un registro centrale vagamente mezzosopranile e con scarsa polpa vocale.

Jean-Blaise Martin fu, invece, un baritono che cantò a cavallo del ‘700 del ‘800. La Francia è terra di baritoni ‘martin’ che si distinguono per un timbro quasi tenorile e, se dotati di buona tecnica e da buone stelle, per la facilità nell’emissione degli acuti.

Io sarei stato forse un baritono ‘martin’?

Orrore!

Mantovani rispose prontamente ai miei dubbi sull’identità vocale:

«La voce funziona come una coperta che non riesce a coprire le spalle e i piedi al contempo. Se la tiri in alto si scoprono i piedi, se la tiri verso il basso si scoprono le spalle. Dai e dai, tira e tira la coperta verso l’alto, la tua voce si è schiarita. Hai voluto fare il tenore perché ti piace, per divertimento. Ma, volendo studiare seriamente, devi sapere che la tua voce appartiene a un’altra razza. Se lasceremo perdere gli acuti, se lasceremo fare alla natura, pian piano la coperta si sposterà da sola e uscirà il colore giusto da barittono, verrà fuori la tua vera voce».

Chiuse il pianoforte.

Questo gesto parve significare:

«Basta coi sogni!»

Un sordo tonfo dello sportello fu il commiato alle mie aspettative tenorili.

«Allora, per oggi abbiamo finito. Signor letterato, ora sta a te. Sammi dire quello che intendi fare, se vuoi continuare a studiare da barittono».

Stavano davanti a me due strade: o salutare le lezioni di canto, ostinandomi a fare il tenore, oppure indossare i ‘vili panni’ del baritono.

Il saggio maestro di canto, a mano a mano che parlava, sempre più mi convinceva. Avevo fiducia di quell’uomo.

La decisione mi parve scontata: non potevo che incamminarmi per la nuova strada.

Ritornai casa non pensando più al canto. Ed ero perfino allegro convinto di aver fatto una buona scelta.

Avendo una fame da lupo, mi misi a tavola di gran furia.

E driiiiinnn!

Il telefono suono più che mai sincronizzato con la mia cena.

Era Tullio. Per la mezz’ora di Radio Serva.

«Novitàaa?», mi chiese secondo il rodato copione.

Di novità ne avevo, quella sera. Eccome che ne avevo!

Dimenticando l’uggia famelica, raccontai per filo e per segno quanto era successo poco prima durante l’ora di canto con Mantovani.

Tullio ascoltò con grande interesse ma, al termine del racconto, mi fece girare le scatole con la sua insopportabile saccenteria:

«Certo! Ho sempre pensato che tu fossi baritono. E sei calante per questa ragione».

Usò un tono severo e cinico che, più eloquentemente delle parole dette, sembrava voler esprimere:

«Finalmente qualcuno te l’ha cantata per bene!»

Quella volta mi ferì più per il tono adoperato che per il significato delle sue parole.

L’avrei mandato a quel paese ma dovetti controllarmi per non mandare a monte una buona amicizia, seppur segnata da alcune insofferenze caratteriali, soprattutto da parte mia.

E gli risposi risentito:

«Perché hai lasciato passare tutti questi anni senza dirmi ciò che pensavi? Dovevi proprio attendere l’occasione delle lezioni con Mantovani?».

Mi infastidisce chi non trova mai i toni giusti per raccontare la verità – la cosa più difficile da tradurre con giuste parole. Mi infastidiscono, del pari, certi ‘grilli parlanti’ che, al compimento dei fatti, confessano d’aver capito, fin dall’inizio, tutto quel c’era da capire. Quante scarpate tirerei a questi grilli! Inutili Cassandre del giorno dopo!

Tullio, invero, le sue ‘cosine’ sulla mia voce le aveva grossolanamente manifestate dacché mi ascoltò per la prima volta. Le sue ragioni – la verità, insomma – però, infastidendomi, essendo malamente espresse, rimbalzavano su di me.

Era una questione di scarsa sensibilità per la mia sensibilità.

Dopo la mia risposta seguì un istante di silenzio imbarazzato e, poi, Tullio fece orecchie da mercante fingendo falsa disinvoltura:

«Altre novitàaa?»

Non avevo certamente intenzione di continuare a fare Radio Serva, tanto meno di discorrere su me stesso. Liquidai in fretta Tullio, quella sera più che mai irritante.

Dopo la cena presi fuori dalla libreria il cofanetto de I Puritani e posi il primo disco dell’opera sul giradischi. Anziché cantare sugli acuti siderali, tenorilissimi, di A te o cara, cantai l’entrata di Riccardo Forth. Tanto bella quanto lagnosa.

E tanto baritonale.

Ha!, per sempre io ti perdei

Fior d’amore, o mía speranza

Ah! La Vita che m’avanza

Sara piena di dolor!

Quando errai per anni ed anni

In poter della ventura

Io sfidai sciagura e affanni

Nella speme del tuo amor

Mi pareva di passare da una generosa fetta di cassata siciliana, un piacere per il palato e per gli occhi, ad una mesta cucchiaiata di tiramisù dell’amico Celestino – fatto con i pavesini male imbevuti, conditi di una crema al mascarpone assolutamente insapore e inodore.

Dopo questa romanza, per provare il piacere di quando si addenta una bella porzione di pinza montanara ripiena di sapida mostarda bolognese, presi fuori i Pagliacci per cantare il Prologo, manifesto del verismo in musica:

E voi, piuttosto

che le nostre povere gabbane d’istrioni,

le nostr’anime considerate,

poiché siam uomini

di carne e d’ossa,

e che di quest’orfano mondo

al pari di voi spiriamo l’aere!

Il concetto vi dissi…

Or ascoltate com’egli è svolto.

Andiam. Incominciate!

E’ facile immaginare quanto meno faticassi cantando gli acuti del Prologo – il la bemolle di ‘al pari di voi’ e ancor meno con il sol di ‘andiam, incominciate’ – rispetto alle impervie scalate sul pentagramma tenorile di Arturo nei Puritani o di Arnoldo nel Guglielmo Tell.

Tutto appariva senz’altro più comodo.

Ma l’umbratile colore baritonale non c’era.

Telefonai a Rufo.

Con il passare delle settimane avevamo preso a vederci e a sentirci senza la mediazione di Tullio. Il Deus ex machina si trovò messo un poco in disparte. E questo parve un boccone duro da digerire per colui che ci aveva presentato. Ben presto nacque tra noi una divertente complicità.

« cosa vuol che le dica scior Rufo, è così, insomma…Non invecchi mica sa?», esordii con un tormentone, il verso a Donna Fernanda.

«Non puoi immaginare cosa è successo a lezione con Mantovani!»

Pensavo di fare il botto, di stupire il mio interlocutore…e invece Rufo sapeva già tutto! Mantovani l’aveva chiamato subito dopo che ero uscito.

Che Rufo fosse stato l’oscuro artefice del mio passaggio da tenore a baritono?

Che avesse convinto Mantovani e questi avesse convinto me?

Gli sciorinai ugualmente il resoconto della giornata però con maggiori dettagli. E con i miei dubbi.

«Insomma, seguendo i consigli di Mantovani vedrai che andrà tutto per il verso giusto. Per ora sei ‘tenoritono’ ma diventerai baritono», mi fece Rufo con tono sicuro e rassicurante. E continuò in maniera leggera:

«Ma che bello! Potremo cantare insieme i tre duetti della Forza del destino!»

«Se è per questo, ci sono i due dei Vespri Siciliani» dissi io.

«E non vogliamo fare quello del Don Carlos, dell’Otello, della Lucia, della Gioconda? Mi sa che ci divertiremo più di prima! Non ci sono molti duetti per due tenori, », concluse Rufo.

L’amico tentava di rendermi più attraente la corda baritonale: si allontanavano da me le romanze più belle perché i musicisti sembravano aver riservato per i tenori la migliore ispirazione. Addio agli amorosi, agli eroi, ai cavalieri, ai poeti.

Ai baritoni rimanevano nobili azzimati, padri, amanti cornuti, qualche cattivo e i buffi. Una folla di personaggi meno affascinante per sognare.

Iniziò una nuova routine di studio. L’invito del maestro fu, innanzitutto, di non cantare più romanze tenorili. Mantovani avrebbe pure voluto, per un po’ di tempo, che mi fossi astenuto dal cantare le romanze baritonali fino a quando non fossi stato «pronto».

Ma facevo di testa mia.

Dovevo controllare se le cose cambiavano rispetto al passato.

Aveva ragione Mantovani. La voce si riappropriò della sua natura, come un torrente che, passata la piena per un temporale, riprende in poco tempo il proprio corso scavat.

Esercitandomi da baritono, non riuscii più a cantare come tenore. Steccavo tutti, ma proprio tutti, gli acuti di cui, fino a poco tempo prima, io solamente ero tanto orgoglioso!

Temendo che la mia nuova voce di baritono smarrisse i minuscoli progressi, Mantovani non accennava a che provassi cantare delle romanze intere. Solo qualche frase, e nemmeno troppo impegnativa.

In un certo pomeriggio, però, sentii la necessità di un cambiamento prima della fine di quel giorno stesso.

Dovevo imparare a fare questo benedetto passaggio di registro.

Dovevo arrotondare la voce perché risuonasse come sotto ad una cupola di una chiesa.

Dovevo abbottonare il suono per ottenere un timbro baritonale come una vecchia marsina di mezza stagione.

Dovevo tirare fuori una voce scura, a costo di rimanere afono, una volta per tutte.

Presi allora i dischi del Boris Godunov e cantai la scena dell’Incoronazione con il libretto sotto gli occhi, per leggere il russo traslitterato.

Skorbit dusha! È triste l’anima… Cantai e ricantai di tigna.

E un colore di voce scuro alla fine uscì. Avevo imparato ad aprire la gola come si comanda facendo risuonare la voce nel petto, la più grande cassa armonica che l’ uomo possiede.

Provai una, due, tre volte. Il suono usciva sempre uguale. Bello? Brutto? Che importava? Imitando un basso sembravo un baritono vero, non un inutile baritono ‘martin’.

Avevo trovato la strada? Mi pareva perfino riuscir a ‘girare’ il suono nella maniera giusta!

Avevo forse capito come fare il passaggio di registro?

E Rufo, a cui feci ascoltare i miei tentativi in anteprima, seduto al pianoforte, approvò con un entusiasmo… controllato. Rimaneva in attesa dell’approvazione di Mantovani:

«Mi sembra che il ‘giro’ sia giusto. La voce è senz’altro più scura».

Capii che ero migliorato, ma meglio non voleva dire bene.

Mantovani sembrò più stupito di Rufo per la metamorfosi:

«Non so micca… Oggi hai un’altra voce. Ma cos’hai fatto? Sei stato miracolato? Va molto meglio, è più nella linea»

Non gli narrai delle alchimie casalinghe come basso, sperimentate qualche giorno prima, né le avrei mai raccontate a nessun altro.

Un segreto di cui sarei stato l’unico depositario.

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