Una visita

Le mattine del martedì e del venerdì sono dedicate alla mamma. Prendo l’automobile e, con un po’ di ansia confusa con il desiderio di vederla, mi reco a Rastignano per farle visita. L’ansia, invero, incomincia sotto traccia già la sera prima mentre il desiderio di vederla e di stare con lei non mi lascia mai.
Fino a un anno fa, la possibilità della casa di riposo non l’avevo mai messa veramente in conto.
Quando la mamma fantasticava tristemente sul suo futuro da anziana, io le dicevo sempre:
«Mamma, tu uscirai da questa casa solamente se sarò preso per il collo».
Il destino mi ha preso per il collo. Una prova dura che mi ha indotto a una che tuttora non ho ancora accettato. Non ho mantenuto una promessa?
E poi con l’epidemia è ancora più difficile ingoiare questo boccone amaro. Le visite devono essere brevi, una o due volte alla settimana, e per ora solo attraverso la vetrata che s’affaccia sul giardino. Siamo l’uno di fronte all’altra comunicando con i cellulari. Per ora non è possibile tanto di più, non è possibile accarezzarla, non è possibile tenerle le mani, non è possibile coccolarla,non è possibile distrarla, non è possibile consolarla, non è possibile imboccarla. Non è possibile starle accanto anche senza parole, giusto per farle sentire la mia presenza. Il mio affetto.
Alla mamma sono rimaste solo poche parole che ripete in ogni occasione: Io, Con, Te, Cantare, Casa, Ecco, Basta. Con esse, però, è possibile costruire una frase, dal senso compiuto, che mi addolora:
«Io con te casa. Ecco». E piange oppure mi guarda con i begli occhi che ancora manifestano piena coscienza.
Le ripeto:
«Mamma, ora non si può…devi rimetterti…sei stata molto ammalata…hai bisogno delle cure in ospedale…»
È facile immaginare il mio stato d’animo.
Questa mattina la mamma ha tentato di dare vita con la mano sinistra al braccio plegico. Se lo alzava e questo cadeva inerte sulle ginocchia.
E poi, seduta sulla carrozzina a rotelle basculante, ha sollevato entrambe le gambe ormai scarne guardandomi negli occhi. Il lucido sguardo di una dolcissima e ingenua bambina sembrava volermi dire:
«Vedi? Sto meglio…posso venire via con te!».
Povera mamma.
Spero che non si senta tradita.

L’ombra della Rocchetta (6)

Il giorno successivo, la mamma rimase basita. Pianse, s’adirò, bestemmiò. E si calmò quando le dissi che, dopo aver riordinato il macello sulle scale, mi sarei recato alla Caserma dei Carabinieri di Porta Lame per sporgere una denuncia-querela contro la Mâta.
Prima di quella serata balzana avevamo solamente presunto un collegamento tra i tormenti e la Mâta; c’erano anche tanti testimoni che potevano dare atto del notevole disturbo telefonico causato, ma nessuno di essi sapeva chi fosse quella donna, nessuno ne avrebbe potuto collegare il volto alla voce. Inoltre, se da un lato la sorella Carla aveva confermato l’identità di quell’incubo, dall’altro lato mai avrebbe mosso un dito contro l’Angiolina. E poi la Mâta era fuggita di casa, irreperibile.
Finalmente i nuovi fatti constatati dai carabinieri si collegavano ad una persona in carne ed ossa, ben identificata, per giunta in presenza di un testimone oculare.
Depositata la denuncia-querela seguirono solo pochi giorni di tregua ma poi la Mâta riprese a molestarci, e così continuò per diverso tempo perché, avendo depositato la denuncia senza l’ausilio di un avvocato, l’iter giudiziario avanzava con lentezza.
Sbagliai a non rivolgermi prima ad un legale ma in quel periodo avevo troppe cose da pagare: la ristrutturazione della nostra casa a cui si aggiunsero le spese legali per una insussistente richiesta di danni da parte di un vicino, il nuovo arredamento e la causa legale per alcune tristi questioni famigliari. Fiumi di denaro.
Alla fine fui obbligato a rivolgermi ad un avvocato perché quella donna diabolica non arretrò nella pazzia e, soprattutto, perché ogni sua azione causava alla mamma pianto, ansia e prostrazione. La Mâta era diventata per la mamma un’ossessione, sentiva di difendersi dalle accuse di assassinio perché le prendeva sul serio, dimenticando che erano invenzione di una folle. La carnefice stava trascinando con sé la vittima. Povera mamma!
Occorreva quindi spezzare in fretta questa pericolosa concatenazione.
Ci rivolgemmo ad un energico penalista pieno di tic ma con idee molto chiare: il risarcimento di denaro e la prospettiva della galera raddrizzavano pure i matti.
L’avvocato rintracciò dunque la mia denuncia-querela il cui corso era stato fermato dall’amnistia del 1990 che estingueva, in generale, una serie di reati commessi prima del 24 ottobre 1989. Ovviamente tutte le vicende accadute in quella maledetta serata del 1987 sulle scale di casa mia, per effetto dell’amnistia, sarebbero passate in cavalleria se la Mâta non avesse continuato ad infastidire con le sue pazzie non solamente me e mia madre, ma anche i nostri vicini e i nostri parenti, aggravando la propria posizione. In tal modo l’avvocato presentò una nuova denuncia-querela, vanificando l’estinzione dei precedenti reati; riprese quindi vita e vigore quella da me depositata poiché le amnistie in generale non operano in presenza di azioni recidive aggravate o reiterate.
Il legale scrisse due nuove denunce, da parte della mamma e mia, che richiamarono quella precedente, aggiungendo a supporto le registrazioni telefoniche della Mâta e del palermitano Salvatore. Designò i testimoni fra cui il prezioso amico venuto in aiuto dopo le bravate del 1987, l’unico in grado di stabilire il nesso tra la voce e la persona della Mâta.
Le ricerche dell’avvocato portarono alla luce una cosa singolare. I carabinieri caricarono la Mâta in automobile. Molto probabilmente, dopo essere stata condotta in caserma, fu presto rilasciata. Forse consigliata dai carabinieri, oppure seguendo il proprio demone, si recò all’Ospedale Maggiore e il medico del Pronto Soccorso certificò che la Mâta aveva delle lesioni all’addome per le percosse da me subite. Ma quali percosse? L’unico contatto diretto fu lo spintone nel pianerottolo sottostante. Nulla di più. Nulla in grado di causare alcuna lesione, tanto meno all’addome. Mi sarebbe parso più verosimile se il medico avesse dichiarato un raffreddamento causato dall’acqua fredda, oppure una congiuntivite per la farina e il vino finiti negli occhi!
Cos’era avvenuto, escludendo l’ipotesi che il medico avesse dichiarato e certificato il falso in un atto pubblico? Chi le aveva procurato quelle lesioni? Questo rimase un mistero.
La Mâta quindi sporse contro di me una denuncia-querela attraverso l’ospedale, d’ufficio, per percosse e lesioni, reato di non irrilevante gravità, più grave delle sue molestie. L’amnistia però agì anche nei miei confronti, estinguendo totalmente il reato contestato poiché, a differenza della Mâta, non avevo commesso recidive o reiterazioni. Ma sta di fatto che non l’avevo assolutamente percossa: mi sarei dovuto paradossalmente difendere da accuse per un reato non commesso!
Dopo che l’avvocato depositò le denunce, poiché il tempo della giustizia non si misura in giorni, la Mâta potè ancora sguazzare comodamente nei suoi intenti con nuove forme di disturbo.
Ricevemmo la telefonata di un impiegato dell’anagrafe del Comune di Grizzana. Intendeva avere dei chiarimenti su di una strana ed assurda richiesta per ottenere l’estratto di nascita della mamma, visto che sarebbe servito per il calcolo dell’ascendente. Così era scritto. Incredula, la mamma rispose all’impiegato di non rilasciare alcun certificato e di mandare una fotocopia della richiesta. Questa era stata scritta e firmata di pugno della Mâta su presunta delega della mamma.
E cominciarono a pervenire anche tante lettere non firmate recanti folli farneticazioni astrologiche che prospettavano a mia mamma un cupo futuro di sfortuna, sofferenza e morte. I fogli, le buste, erano scritti con una biro ultra nera: la calligrafia, i segni e i disegni, tutto veramente inquietante, dimostravano lo stato mentale alterato del mittente apparentemente sconosciuto. L’ anonima autrice, in ogni lettera, sempre sottolineava che la destinataria, mia mamma, era l’assassina responsabile della morte di Iolanda Fiocchetti.
Non solo la follia caratterizzava le azioni disturbatrici della Mâta ma anche ingenuità a mala pena infantili.
Passò un po’ di tempo che il disturbo postale subì un cambiamento. Anziché lettere vere e proprie, inviava a mia mamma della pubblicità in busta che modificava ritagliando il destinatario e scrivendo il nome della mamma con l’indirizzo. Sempre sulla busta scriveva le sue mortifere farneticazioni astrologiche e tracciava inquietanti scarabocchi menagramo. E spediva il suo orribile manufatto senza provvedere all’affrancatura, così ci toccava pure di pagare per ricevere quelle lettere.
Nel frattempo la ristrutturazione della nuova casa finalmente era terminata ed avevamo lasciato la vecchia casa. Là erano rimasti solamente tre coinquilini. L’anziana vicina che disgraziatamente s’affacciò dalla porta richiamata dalla confusione sulle scale, durante la serata in cui chiamai i Carabinieri, diventò una nuova vittima della Mâta, e gli altri due subivano le conseguenze delle sue pazzie. I nostri incolpevoli ex vicini di casa continuarono a subire le visite notturne dei pompieri chiamati dalla Mâta per fughe di gas, oppure le visite di ambulanze per telefonate al 118.
Le nuove malefiche cartacce, che ben presto gonfiarono una bella cartella, con le nuove azioni disturbatrici costituirono il valido motivo per presentare una terza denuncia-querela.
Tutto sarebbe finito sulla cattedra di un giudice.

(Continua)

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