Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventiseiesima

Il babbo teneva in bella vista sulla scrivania degli arnesi da fabbro e falegname: una morsa da banco per lavorare in grande i metalli, qualche morsetto per lavorarli di fino, una sonora incudine arancione, uno smeriglio rotante e, inframmezzati, chiodi, viti, bulloni, compassi, lime, seghe, pialle, tenaglie, saldatori, pinze, martelli, punzoni, cacciaviti. Un trapano a colonna sovrastava questi oggetti assai inconsueti da trovare in un’abitazione, ancor più su di una scrivania.
Potrebbe esserci bambino non attratto da un simile armamentario? Se qualcuno sia mai esistito, io non fui certamente uno di questi. Con questi aggeggi unti e polverosi avevo un gran daffare: piallavo, tagliavo, affilavo, avvitavo, limavo, segavo, svitavo, smartellavo, foravo, saldavo, smontavo, rimontavo… E mi piaceva martoriare un specie di torta di piombo spessa due dita. E mi piaceva giocare accostando una bella calamita alle limature e oggetti ferro. E quanto mi divertivo generare decine di goccioline di mercurio, contenuto in un flaconcino scuro per poi riottenere la goccia originaria! Lasciavo sempre sul pavimento limatura, segatura e il tavolo in confusione! La mamma, riordinando, spazzando il pavimento, si arrabbiava con il babbo che orgogliosamente giustificava tutto questo perché giocavo a fare l’uomo.
Con gli stessi attrezzi il Mago invece esercitava un’arte senza pari. Come Michelangelo traeva dal grezzo marmo magnifiche forme utilizzando umili mazze e scalpelli, così il Mago creava con metalli, pergamene, chine colorate, e particolari sostanze dei talismani che arrecavano salute, ricchezza e amore.
Terminati i calcoli astrologici, c’erano tante cose da approntare: ricavare una cornicetta da aste di alluminio, tagliare rettangoli da lastre di vetro, lamine metalliche di rame, ferro, piombo, argento e, infine, da fogli di pergamena vergine; quindi i simboli e i nomi sacri dovevano essere incise sui metalli con bulini, punzoni, oppure con la tecnica dell’acquaforte; sulla pergamena, invece, simboli e i nomi sacri erano da tracciare con compasso, cannetta e pennino metallico intinti in chine multicolori. Le varie parti, messe insieme con arte, formavano il talismano che appariva come un semplice quadretto a due facce, il cui spessore era riempito di speciali sostanze magnetiche. Seguivano, infine, ventuno giorni di esorcismi perché gli spiriti si insediassero per dare forza e vita, al talismano.
E mentre il Mago lavorava io, seduto accanto, ammiravo ciò che faceva. Come avrei voluto aiutarlo! Ma erano attività poco consone a un bambino. Qualche volta il babbo, arrugginito nelle tabelline e nelle divisioni, mi affidava il controllo dei calcoli astrali. Questo però non mi soddisfaceva.
Ma in un limpido pomeriggio di Luna Nuova, durante l’ora di Mercurio, propizia per le fatture dei talismani, chiesi:
«Babbone, posso aiutarti?»
E il Mago acconsentì di buongrado; pensò che avrei potuto ricalcare i segni abbozzati a matita su un rettangolo di pergamena, utilizzando righello, squadra, compasso e cannetta, con l’inchiostro di china nera, un lavoro adeguato a un bambino:
«Fai solo attenzione a non fare macchie, sennò dobbiamo raschiare via l’inchiostro con la lametta da barba e grattare con la carta smeriglio!»
Il babbo s’era impinguito dopo le sofferenze dell’infarto, la malattia aveva accresciuto la severità della fisionomia, importante fin dagli anni della giovinezza. La testa ora pareva ampliata dalla stempiatura e dalla pappagorgia; il volto era dominato da un triangolo ben visibile tra le sopracciglia, fortemente disegnate, la cui base era costituita da una profonda ruga orizzontale in cima al grande naso deciso. Gli occhi cerulei penetravano nelle persone come lance; lo sguardo volitivo non perdeva intensità nemmeno sorridendo, acquisiva semmai ambiguità mefistofelica; i passi, attutiti da pantofole di feltro, passeggiando per casa serio, concentrato in profondi pensieri, erano impercettibili come quelli di uno spirito, rivelati solamente dal cigolio delle assi del pavimento. Il babbo spesso raddolciva la parlata troppo secca, autoritaria di natura, modulando anche il deciso timbro basso e, al contempo, metallico della voce da attore drammatico. Non sopportava la costrizione di una cintura per cui in casa indossava sempre le bretelle tenendo il primo bottone dei pantaloni slacciato per infilare più comodamente il pullover di lana. Quando usciva per il centro della Città invece gradiva l’eleganza del doppio petto in principe di Galles con un borsalino a larga tesa, un poco all’americana, di un cappotto a mezza gamba con largo bavero, di una sciarpa di seta al collo; e sfoggiava, a braccetto, con orgoglio, la mamma come risplendente gioiello.

(Continua)

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