La mamma aveva una passione per le piante non solo per quelle classiche da balcone, ma anche per i bonsai con piante rustiche o del bosco e traeva particolare soddisfazione nel farli da sé non solo carpendoli dal loro luogo naturale, e trapiantarli in vaso, perlopiù aceri e melograni, ma anche creando il bonsai dal seme; così raccolse dei semi gingko accanto al Teatro Comunale e dopo settimane, chiusi i barattoli pieni d’acqua, avevano germinato poi, collocati in vaso, crebbero piccole vigorose piante molto resistenti; e così fece anche con delle ghiande per ottenere delle querce.
Durante la malattia della mamma il mio pensiero aveva associato la sua nuova condizione, grave e penosa, non transitoria, a quella dei bonsai da lei creati, come se essi avessero qualcosa che alle altre piante mancava, come se in essi la mamma avesse trasfuso qualcosa di sé e, in virtù di questa corrispondenza, mi sembrava, almeno un poco, che la mamma fosse rimasta dove avrebbe dovuto essere per il mio cuore, cioè nella sua casa a curare le proprie piante e non lontano, imprigionata in una casa di riposo, prigioniera dei suoi mali. Non nego che, quanto maggiore era il benessere delle piante, più mi rassicuravo sul tempo a disposizione. Non era solo una specie di divinazione sulla salute della mamma che effettuavo con le piante, per cui essendo i bonsai quasi un’estensione di lei, da essi avrei capito come sarebbe andata a finire, ma erano qualcosa di più cioè un disperato tentativo di ritardare, attraverso i bonsai da lei creati, l’exitus estremo che i medici mi avevano prospettato potere avvenire in qualsiasi momento, in termini di giorni vicini o, tuttalpiù, mediamente lontani. Mi sentivo come un mago che, così, poteva influire sul destino della mamma. In momenti di grande difficoltà ci si aggrappa, e aiutano, anche a questi pensieri.
Avevo una grande attenzione per una quercia nata, appunto, seminando una ghianda; parlavo mentalmente alla pianta come se essa condividesse la stessa parte vitale della mamma e su questa la quercia potesse a sua volta operare: «La mamma è come questa quercia» mi suggeriva la voce interna. E questa voce, rivolgendosi alla pianticella: «Tu pertanto non farmi dei brutti scherzi, se tu stai bene anche la mamma non se ne andrà». E così, illudendomi, subentrava una calma succedanea.
La quercia è tuttora in buona salute, così le piante di gingko, come quelle di melograno. E anche una pianta di tasso.
Nonostante la mia solerzia, nonostante le annaffiature regolari, diverse altre piante hanno incominciato a soffrire. Una sofferenza forse per l’assenza della mamma, forse perché non hanno più avvertito le sue attenzioni, o perché non ho il suo pollice verde, o perché anche loro hanno semplicemente seguito il proprio destino? Il destino non è un privilegio solo umano e governa anche i vegetali? Il primo a essiccarsi è stato un bel bonsai di ginepro nella maggior parte della pianticella, rimanendo verde solo un rametto che partiva dalla parte più bassa; esso è sopravvissuto per un anno e mezzo, poi anche quel piccolo lacerto verde è morto. Ed è venuta la volta di diverse rose, di un bonsai di ulivo e di diverse piante grasse.
Dopo l’exitus della mamma, se le sue cose in casa la richiamano continuamente, i bonsai hanno per me continuato a rappresentarla come se fossero una metafora del suo essere in vita, della sua presenza.
È immaginabile quale sia stato il mio dispiacere quando ho visto che un bel bonsai d’acero, con un bel tronco e tanti rami, nel mese di marzo appena passato non ha messo alcuna foglia. Anch’esso dunque si è essiccato, assumendo il colore inerte degli arbusti da ardere. Ma non ho avuto il coraggio di metterlo tra i rifiuti organici visto che per me non è una pianta come tutte le altre, giacché la mamma assai teneva a esso. E l’ho lasciato sul balcone accanto alle altre piante.
Nel mese di maggio ci sono state le forti piogge che, come si sa, hanno causato purtroppo vittime e disastri in Romagna e anche a Bologna, seppure qua in misura minore.
Il bonsai d’acero ha ricevuto una bella quantità di acqua piovana come tutte le altre piante. Ed è avvenuta una strana cosa: trascorsa una decina di giorni dalla cessazione delle piogge, ho visto, accanto al tronco dell’acero, fare capolino una specie di piccola erbaccia; il giorno dopo è apparsa visibilmente cresciuta con un gran desiderio di vivere, senza poter capire che pianta fosse per via delle foglie piccole e chiuse, ancora stropicciate in se stesse, chiuse come un ombrello asciutto. E allora ho ripreso a annaffiare quotidianamente il vaso con l’albero secco e, accanto a esso, la giovane pianta ha sempre più perso i connotati di un’erbaccia portata dal vento: con piacere e un poco di meraviglia ho riconosciuto chiaramente che le foglioline sono quelle di un acero e, quindi, capisco che la giovane pianticella è un pollone cresciuto dalla parte della pianta nascosta sotto la terra, probabilmente da gemme sotterranee vicine alle radici che la pioggia ha risvegliato.
Confesso che ho fatto qualche pensiero particolare, nuovamente su un collegamento tra la rinascita dell’acero e la mamma, che questa germinazione contenga un messaggio consolatorio dall’aldilà: «Io ci sono ancora». Molte persone mi hanno raccontato di avere avuto simili pensieri allorché sul davanzale si è posato un uccellino che fissava negli occhi senza fuggire dopo la scomparsa della propria madre, che al cimitero una farfalla o uno scoiattolo ha accompagnato il cammino fino innanzi alla tomba della persona amata. Ma io sono, purtroppo, una persona con i piedi per terra. Mi costruisco illusioni che distruggo. Dobbiamo però essere grati a questi pensieri ingenui, fugaci, che spesso si raccontano agli amici più intimi solo dopo aver vinto il pudore di tacerli per timore di essere derisi. Questi pensieri non devono essere ritenuti sciocchi, non sono debolezze, ma semmai sono importanti, frequenti, proiezioni della nostra coscienza appartenenti al percorso più o meno lungo, semplice o tortuoso, dell’elaborazione del lutto, dell’accettazione del distacco, e perché esso ci appaia più dolce.
Ma ho fatto un altro pensiero, più generale: possiamo parlare solo del visibile ed escludiamo quanto sta sotto alla superficie perché i nostri occhi non sanno vederlo. In questa maniera se ciò che in superficie appare privo di vita, essa potrebbe, la vita, continuare nascosta, sotto una superficie che ci impedisce di vederla, proprio come la distanza ci impedisce di appurare se su Marte esiste la vita, quand’anche fossimo in grado di riconoscerla in quel luogo sconosciuto: io ho pensato che l’acero fosse secco, e avrei potuto buttarlo perché lo ritenevo ormai inutile, invece nell’oscurità, nell’opacità della terra, il bonsai covava una piccola gemma vitale da cui è spuntata una nuova pianticella. I nostri occhi, il nostro cervello non sono fatti per vedere il microscopico oppure in profondità, sotto la superficie oppure oltre, né sanno scrutare nello spazio senza luce, non ci dicono che il nulla non esiste e che se non vediamo nel buio è per mancanza di luce, non perché esso è vuoto. I matematici e i fisici sanno bene che l’universo non si limita a ciò che possiamo vedere e che il nostro cervello non sa, o non può, vedere più di quanto esso già vede, cioè solamente il nostro mondo familiarmente tridimensionale nello sviluppo della quarta dimensione temporale…ma le dimensioni dell’universo, affermano quegli uomini di scienza, potrebbero essere almeno nove! Andando ancora più in là con i miei futili pensieri, mi sono chiesto se dopo l’exitus (cioè la superficie, la morte, che separa l’essere dal non essere) in realtà non celi, dopo di sé, una forma differente di essere che non sappiamo riconoscere o percepire.
Per concludere, per tornare con i piedi per terra, a parte i miei pensieri, abbandonando queste mie cosiddette seghe mentali, spero ora che il piccolo acero continui a svilupparsi accanto all’alberino essiccato senza trarre alcuna spiegazione metafisica (per ora almeno non saprei pensare alcunché di nuovo).
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I segreti sposi
La mia mamma mi ha detto per decenni, con tono apodittico e un nulla di orgoglio:
«Tu sei romano», oppure «Sei stato concepito a Roma». Era il fascino della Città Eterna, capitale della Cristianità. L’Urbe. Roma caput mundi… Ma né il luogo né il momento del concepimento sono dati rilevanti per alcunché, ammesso che essi siano determinabili con precisione; non servono nemmeno alle speculazioni astrologiche.
Tre fotografie in effetti ritraggono i miei genitori a Roma nel 1955 davanti alla Basilica di San Pietro; le parole della mamma mi hanno sempre fatto immaginare di essere presente con loro, in quel momento prima della nascita, come minuscolo aggregato di cellule nel ventre della mamma. Essere presente quando ancora non c’ero: un bel pensiero.
E chiesi alla mamma se quello fosse stato il loro viaggio di nozze:
«No, perché ci siamo sposati in agosto; facemmo un viaggio a Roma perché il babbo doveva fare un lavoro per una cliente».
«Che lavoro era?».
«E chi se lo ricorda? So solo che dovevamo andare da una contessa ma poi non se ne fece nulla». Capitolo chiuso.
La mamma più volte mi aveva descritto succintamente il matrimonio, celebrato il 9 agosto 1955 presso il Santuario della Beata Vergine di San Luca:
«Sai? Con noi c’erano solo i testimoni e il prete…al termine del matrimonio siamo andati a prendere un caffellatte al bar perché eravamo senza soldi». Mi mostrò quindi l’abito di nozze; essendo incinta, non era bianco ma di un chiaro color beige.
«Guarda un po’ il vitino che avevo allora…».
«Ma non eri incinta?».
«Sì, però da giovane ero molto magra…», orgogliosamente.
Non c’era nemmeno una fotografia delle nozze. Un matrimonio all’osso. Questo per diverso tempo fu lo stato dell’arte sull’argomento.
Un giorno, nel 2015, mi venne l’estro di scannerizzare tutte le fotografie che possiedo.
Dei nonni paterni, c’è una sola fotografia ambientata tra le colonne dell’ospizio di Villa Romita, attualmente Villa Ranuzzi, dove io, bambino di pochi mesi, vengo tenuto in braccio dalla mamma. Senza queste fotografie non avrei contezza dei volti di nonno Quirico e di nonna Esteria; probabilmente nacquero intorno agli anni della Breccia di Porta Pia, regnante Vittorio Emanuele II con Pio IX che sputava bile perché gli rimaneva solo la Cattedra di Pietro. Ho invece diverse fotografie dei nonni materni, Aristide e Caterina, da me ben conosciuti, tutte scattate a Vergato.
Da tanto non avevo più ripreso in mano quelle vecchie immagini quindi le osservai per bene. Con il computer potevo anche ingrandirle e ridare loro vita restaurandole.
E giunse il turno delle fotografie scattate in Piazza San Pietro, a Roma.
Quant’era bella la mia mamma nel 1955! Non me n’ero mai veramente accorto prima perché le mamme non sono né belle né brutte per i figli: sono mamme. Il babbo avrà generato stupore nel fotografo comunicandogli, con orgoglio, che quella ragazza con cui s’accompagnava non era la figlia ma la sua fidanzata. Al babbo piaceva stupire, provocare… Tra i due intercorreva un vero salto generazionale: mio padre nacque nel 1898 qualche giorno dopo la sanguinosa repressione di Bava Beccaris, a Milano, dei moti popolari per il pane, mentre pochi giorni dopo la nascita della mamma, nel 1933, la Germania era diventata, ahimè, una crudele dittatura.
Il babbo annotò dietro a una fotografia del viaggio romano con la sua pesante calligrafia che sembra incidere la carta:
Ricordi di Roma
Riccardo e Bruna
21-2-55.
Subito mostrai la scritta alla mamma: cadevano nel nulla le mie origini romane perché, se così fosse stato, sarei nato dopo undici mesi di gestazione… Sarebbe stato un caso da registrarsi nella letteratura medica.
La mamma non fece una piega, si limitò ad alzare le spalle. E alla fine a me dispiacque di non essere stato fecondato nella Capitale di Tutto, dopo averlo creduto per quasi una vita.
E la mamma, in là con gli anni, da qualche tempo, aveva cominciato a farmi spontaneamente interessanti racconti della sua vita, prima e dopo la mia nascita. Diversi di questi mi fecero sobbalzare oppure strabuzzare gli occhi. Altri invece mi addolorarono e, subito dopo, molto arrabbiare.
Ritornò, ovviamente, anche sul matrimonio. Bruna e Riccardo si sposarono all’insaputa di tutti, soprattutto all’insaputa della famiglia materna; il giorno stesso delle nozze si presentarono a Vergato come marito e moglie, lasciando basito tutto il parentado.
C’era dell’altro. Rimasta incinta, il babbo lasciò alla mamma la decisione di sposarlo: mi avrebbe riconosciuto come figlio dandomi il cognome ma avrebbero potuto convivere e, visto lo stato precario del suo cuore, il matrimonio sarebbe stato rischiosamente celebrato in extremis. Occorre rammentare che mio padre era rimasto vedovo, che la mia bella mamma era maggiorenne da poco più di un anno e se aggiungiamo che tra i miei genitori correvano tre decenni e mezzo abbondanti, dalla volontà di mia mamma si sarebbe potuta inverare una situazione di difficile governo: erano i tempi in cui facevano scandalo le vicende di Fausto Coppi con la Dama Bianca…
Ma tra i miei venne il matrimonio.
«E i nonni erano favorevoli alle nozze?».
La nonna paterna Esteria disse: «Signorina, ricordatevi che mio figlio ha trentacinque in più di lei…».
Specularmente, il nonno materno Aristide, che aveva otto anni in meno del mio babbo: «Ricordatevi di portare rispetto a mia figlia…».
«Ma i nonni di Vergato, alla fine, erano d’accordo perché vi foste sposati?».
«Sì; li avevo pure messi al corrente che ero rimasta incinta… Il nonno Aristide, qualora non si fossero concluse le nozze, ci avrebbe accolto, io e te, nella casa di Vergato».
Non oppressi più la mamma con altre domande perché intesi rispettare il suo passato.
Non nego che solo la quadratura generale di queste circostanze mi era apparsa soddisfacente appieno, come se fosse un mosaico di cui percepissi il disegno generale ma ritenessi incerta la collocazione di qualche tessera.
Nel 2020 la mamma si ammalò gravemente e fui costretto a inserirla in una casa residenza per anziani. Le era rimasta, oltre altri disturbi neurologici, una severa forma di afasia accompagnata da disartria, per cui la mamma comunica con sole tre parole, io con te, pronunciate in maniera assai sfuggente. E probabilmente si erano aggiunti delle limitazioni nella memoria e, parzialmente, di comprensione. In tal maniera i segreti della mamma sono perduti.
Quando accadono certe cose infauste è inevitabile cercare conforto nell’ambito dei parenti più stretti e che si parli di svariate cose famigliari. Chiesi ai fratelli della mamma, entrambi presenti a Vergato in quel particolare 9 agosto 1955, delle nozze.
La zia Maria ricorda solamente la bellezza della mamma in abito da sposa, dicendomi che era non solo all’oscuro delle nozze ma anche del fatto che era gravida. Lo zio Anselmo a sua volta mi ha confermato tutto questo.
Alla domanda se i nonni avevano avuto delle perplessità per il matrimonio, la zia mi ha risposto che non ne sapeva nulla che, anzi, stravedevano per mio padre; secondo lo zio delle perplessità, invece, ce ne furono.
La mamma a tal proposito mi raccontò che quello a mettere becco fu proprio lo zio Anselmo, giustamente zittito dal capofamiglia, il nonno Aristide.
Non molti giorni fa, assecondando non so quale istinto, ho richiesto una copia dell’Atto di Matrimonio dei miei genitori, presso il Santuario della Beata Vergine di San Luca, ed esso ha contribuito a fare chiarezza.
Come prima cosa saltano agli occhi due correzioni. La prima riguarda il nome del babbo, che viene scritto Ubaldo, cancellato e riscritto Ubaldo e aggiunto tra parentesi, che civilmente era Riccardo. Io so per certo di avere avuto uno zio, fratello del babbo, il cui nome era Ubaldo, morto assai prima del matrimonio. Inoltre il compilatore dell’atto dapprima scrisse che il babbo era celibe, quindi corresse scrivendo vedovo; già, mio padre era rimasto vedovo nel 1952. Errori di compilazione…e poi il babbo all’anagrafe era Ricardo e non Riccardo, secondo la parlata bolognese che omette certi raddoppi consonantici.
Non mi risulta che la mamma abbia mai lavorato da pellicciaia, come scritto in atto. Probabilmente la mamma dichiarò la prima cosa passata per la mente.
Il cognome del testimone del babbo, da me conosciuto, fu riportato come Pesci mentre io sapevo che era Pesce.
La testimone della mamma, il cui nome era Marcella, aveva appena ventuno anni…la mamma ne aveva ventidue. Non ho mai conosciuto questa Marcella, né gli zii sanno chi fosse.
Mi salta agli occhi che il matrimonio fu celebrato con dispensa dalle pubblicazioni canoniche; questa viene concessa dall’Officiante su richiesta degli sposi per giusta causa dopo averne accertato l’assenza di impedimenti e vincoli. La volontà di mantenere riservato il matrimonio per particolari esigenze dei nubendi potrebbe, in generale, costituire la giusta causa. Nel caso dei miei genitori c’erano diversi motivi per delle nozze in forma privata: la grande differenza di età, in aggiunta al fatto che il babbo era vedovo, avrebbero potuto essere causa di chiacchiericci, maldicenze, se non di ilarità, specialmente in un paese come Vergato; la giusta causa avrebbe potuto anche essere il non voler rendere noto lo stato interessante della mamma; infine, non escluderei una possibile opposizione nella cerchia più ristretta nell’ambito delle rispettive famiglie.
Salta, quindi, ancor più agli occhi che l’officiante fu proprio il Parroco di Vergato, territorio potenzialmente ostile; io mi sarei piuttosto aspettato o il Parroco di Santa Maria Maggiore in via Galliera, la Parrocchia del babbo, dove sono stato battezzato, oppure un frate cappuccino suo amico. Fu bravo il parroco vergatese ad assicurare il comprensibile bisogno di riservatezza richiesto dai miei genitori; non so però come convinsero il parroco a celebrare il matrimonio, visto che nella famiglia della mamma nessuno, compresa la mamma, andava in chiesa, i nonni erano dichiaratamente comunisti, e che mio babbo viveva ben lontano da quel paese. Però tutto ha un prezzo…
Furono nozze ammantate da anomalie, troppe per essere un matrimonio normale, poche per scrivere trentotto capitoli come nei Promessi Sposi! Ce n’era comunque a sufficienza per richiamare l’attenzione di un figlio indagatore.
Un figlio che non potrà più conoscere ulteriori dettagli.
Questa ricerca mi è, però, stata utile anche per un’altra ragione: pensavo di non avere alcuna immagine di quel 9 agosto 1955; e invece non è così. Una fotografia in bianco e nero non perfettamente a fuoco ritrae mia mamma con un mazzo di fiori in mano a braccetto di una bella ragazza. Entrambe sono vestite in chiaro. Dietro alle due c’è un edificio che ricorda una baita, alla loro destra un gruppo di persone con un religioso, accanto a questi un’importante balaustra che delimita uno spiazzo verso un ampio panorama indistinguibile per la canicola estiva. Ho sempre pensato che fosse una gita perché ho tante fotografie della mamma in viaggi di gruppo effettuati prima delle nozze.
E, prima della scannerizzazione, chiesi alla mamma quale fosse il luogo della fotografia e chi fosse quella bella ragazza. Mi pare che una volta mi abbia risposto:
«È la tua santola che ha voluto battezzarti come Marco Floriano». Ohibò, meno male che per l’anagrafe sono semplicemente Marco! Preciso che da queste parti santola sta per madrina. Questa ragazza io non l’ho mai conosciuta, mentre il padrino sì, essendo stato mio zio Anselmo. La mamma non si ricordò quale fosse la circostanza che la fotografia ritraeva.
Durante la scannerizzazione delle fotografie, nel 2015, la mamma disse che quella ragazza, invece, non fu la mia madrina, e me ne rivelò il nome, Marcella, senza altro aggiungere. Continuai a pensare sbrigativamente che fossero in gita da qualche parte…
La lettura del nome Marcella sull’Atto di Matrimonio mi ha attivato, non troppi giorni fa, qualcosa nella mente…sono corso immediatamente a rivedere la fotografia e tutto mi è apparso chiaro.
Il luogo era il piazzale, delimitato dalla balaustra, ai piedi del santuario della Beata Vergine di San Luca, davanti alla scalea di accesso dalla strada.
L’edificio dietro alla sposa e alla testimone era la stazione della funivia che univa il Colle della Guardia a Bologna, dove andarono a festeggiare le nozze con il caffellatte. La stazione esiste ancora ma, dal punto della fotografia, è occultata da alberi che in sessantasette anni sono diventati alti e rigogliosi. E finalmente ho anche capito il significato dei fiori che la mamma stringeva tra le braccia… Quella era dunque l’unica immagine del matrimonio dei miei genitori. È una fotografia che vale più di ogni racconto, di ogni testimonianza verbale, perché ho visto il giorno in cui, grazie al coraggio di mia mamma, iniziò il mio destino. Con emozione, gratitudine e tanto affetto.