Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventinovesima

Stavo crescendo in simbiosi con gli spiriti; nell’aria che respiravo c’erano anche loro. Non sapevo con esattezza se fossero un chi o un cosa; avevo ben compreso che erano presenze per me benefiche come lo sono gli angeli per gli altri bambini.
«Toc, toc, toc…», i rumori talvolta mi svegliavano. Io, piccolo figlio del Mago, sbirciavo allora per poco e poi chiudevo gli occhi più per paura del buio che per quei rumori uditi da sempre. Tiravo le coperte più in alto che potevo e, al riparo come una bestiola nella tana, riprendevo il sonno in brevi istanti noncurante d’essere stato svegliato dalla voce degli spiriti. Nondimeno, talvolta non ero immune dal provare paura.
Una grande provetta rovesciata dall’alto in basso, di vetro spesso, utilizzata dai vinificatori, con un bulbo sferico e l’ imboccatura saldamente fissata con una pesante colata di cemento a pronta presa entro un vaso cilindrico in rame per immobilizzarla in piedi e sigillarne il contenuto, posta sul comò della stanza, mi causava paure serali e notturne; essa era colmata di una sostanza ricavata da pietre raccolte ai piedi del colle di Paderno che il babbo aveva ridotto in polvere e a lungo calcinato su carbone ardente ottenendo la polvere luciferina, ovvero il solfuro di bario. Durante il giorno questa giallognola sostanza assorbiva non solo l’energia dalla luce restituendola nell’oscurità come luminescenza propria, ma il Mago l’aveva addomesticata con gli spiriti perché si nutrisse anche di quella negativa, umana, dispersa dalle sue mani durante le segnature nella stanza. L’energia liberata dalla cattiveria umana eccitava la polvere luciferina più del sole cosicché, nell’oscurità notturna, per qualche ora, la bottiglia si stagliava emanando un irreale lucore, appena tremolante, dal colore verdognolo che rischiarava le cose tutt’intorno; a poco a poco si indeboliva e la bottiglia veniva inghiottita dal buio della stanza. Provavo una tal paura di quella bottiglia da evitare d’avvicinarmi al mobile senza la presenza di qualcuno nella stanza e, perfino, di rivolgere ad esso lo sguardo.
E, «Toc, toc, toc, toc, TÒC», fui risvegliato da un colpo deciso non proveniente dalla sedia ma dal comò. Tentato da una paurosa curiosità, spalancai le palpebre.
La bottiglia non pareva più contenere materia solida, ma mi parve che la polvere luciferina, emettendo una luce particolarmente intensa, si fosse liquefatta e che in essa nuotassero come piccoli creature viventi come pesciolini. A quel punto non ce la feci più e chiamai la mamma.
«Mamma…mamma…Ho paura! Posso venire a dormire accanto a te?»
Senza attendere la risposta, scesi dal letto evitando di guardare la bottiglia, e mi infilai sotto le coperte, appiccicandomi alla mamma.
«Su, su dormi, non c’è nulla da avere paura». Mi strinse a sé baciandomi sulla fronte.
Quella sera i colloqui del babbo con gli spiriti terminarono anzitempo.
Certo è che la notte in casa mia entrava in una dimensione che un bambino difficilmente poteva interiorizzare con levità. Così, se ero solo, avendo paura del buio, la mamma mi stava accanto fino a che non avessi preso sonno, lasciando la stanza illuminata da una flebile luce azzurrata.
E avevo nove anni quando i miei sogni presero una piega particolare, tormentati da un incubo ricorrente: una visione incantevole, serena, diventava, repentinamente, causa di grande paura.
Mi vedevo carponi in un bel giardino di un’antica casa romana, circondato da un elegante peristilio con colonne snelle e vividamente dipinte. Rose fiorite dai colori di smalti preziosi, cipressi, pini ed erbe officinali profumavano l’aria tiepida ed immota di un mite mese di giugno. All’orizzonte, dalla bocca di un vulcano colava lenta della lava dalla luce rossastra con un pennacchio di fumo che formava un’alta nube nel cielo al tramonto. Seduto sui gradini rotondi che conducevano ad un pozzo centrale con decori in ferro battuto, giocavo ai cinque sassolini contro me stesso. Tutto appariva lento e tranquillo.
All’improvviso, le sequenze del sogno acceleravano. La terra tremava squarciandosi e, come una bocca predatrice, mi inghiottiva in un batter di ciglio. Mi trovavo seduto sul gelido pavimento di una cavità cubica marmorea perfettamente levigata malamente illuminata. Dapprima solide e gravi, le pareti presero a fuggire come foglie portate via dal vento che precede un temporale. Fuggivano non si sa dove. Volavano verso l’infinito.
Io e il mio doppio onirico sentimmo la mente smarrirsi, confondersi, poi sopravvenne la vertigine di quando ci si affaccia da uno strapiombo senza fine.
Improvvisamente mi ritrovai confinato in un’ angusta cella, le cui pareti erano di misteriosa penombra, immobilizzato da lacci invisibili eppure pesanti come grosse catene di ferro, attorniato da palle di sterpi lorde di polvere. Dietro alle spalle stava un essere per metà uomo e per metà capra, dal volto mostruoso, ghignante, le cui mani deformi si aprivano per ghermirlo con ricurvi artigli affilati.
Dapprima mugugnai e, gettando in aria le coperte, mi liberai dall’incubo con urla disperate; corsi via dal letto per trovare riparo tra le braccia della mamma, rassicurato dalla voce suadente, consolato dalle carezze, dai suoi baci.
«Che t’ha impaurito? Raccontalo alla mamma…».
«Mi sono sentito legato…ho avuto tanta paura…», solo poche parole seppi dire.
Come avrei potuto descrivere la paura dell’infinito?

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventottesima

Nella casa di via Galliera dormivo su una turca con zampe di leone, a poca distanza da una poltroncina traballante posta ai piedi del letto dei miei genitori che non serviva per sedersi o per appoggiare gli abiti ma per dare voce concreta agli Spiriti, a cui il Mago, nel buio della notte, sottovoce o con il pensiero rivolgeva dal proprio letto domande sul passato e il presente nascosti, sul futuro delle persone, e anche richiedeva ai suoi famulus invisibili di servirlo a loro favore.
Frequentemente la gente gli esponeva il proprio malessere o dei famigliari; il Mago allora interrogava Papo, medico astrale, dottore di tutto l’Universo:
«Dimmi, Papo quale malattia affligge il signor X? Mi riferisce che tossisce sempre.»
Passavano diversi secondi, durante i quali lo spirito raggiungeva la persona, ne esplorava ogni parte del corpo per individuare la causa del male.
Prima dei cigolii del legno, poi la sedia prendeva a parlare muovendosi: lo Spirito devoto e servente rispose alle domande facendo oscillare la poltrona zoppa sulle assi del pavimento con diciotto “toc” che stavano per la “T” poi diciannove per la “U”.
«Papo, intendi dire tumore?» intuì il Mago, « Il signor X ha un tumore? Se è sì, conferma due colpi forti.»
La sedia confermò:
«TOTÒC»
«Al polmone? Se è sì, conferma due colpi forti»
«TOTÒC»
«A destra, o Papo, oppure a sinistra?»
Seguirono «toc, toc, toc, toc».
«A destra? Al polmone destro?»
«TOTÒC»
«Il signor X si rivolge un buon medico o deve cambiare?»
«Toc, toc, toc»
«Confermi che deve cambiae? Se confermi, dammi due colpi!»
«TOTÒC».
«Seguilo, illuminalo, te lo comando!»
«TOTÒC »
Ma le richieste di servigi rispondevano anche a questioni meno gravi:
«Iodelle, fai che la figlia di Y superi brillantemente l’esame all’università» oppure «Mileh fai che il marito di Z trovi lavoro» oppure «Fai che l’affare del signor K vada a buon fine», ordinava il Mago.
«Dimmi, lo farai? Se accetti, dammi due colpi». E lo spirito, per compiacere il potente padrone, rispondeva e sottoscriveva con due toc.
E al Mago si presentarono dei coniugi che non riuscivano a generare nuova vita. Il Mago comandò a Papo di volare sulla donna e sull’uomo per creare intorno a loro una sottile atmosfera di principi vitali. La pelle dei corpi, dai piedi fino al capo, assorbì gli elementi che mancavano per rimanere gravida o per rinvigorire il seme maschile, quindi raggiunsero il cuore e questo li spinse con il sangue a essere perfondere nelle gonadi inerti. Nulla apparentemente cambiava per qualche settimana, ma tutto era predisposto perché in una notte di luna crescente uno spermatozoo obbediente a un piano arcano fecondasse un ovulo. E trascorsa qualche settimana, dopo aver decretato l’impossibilità di avere figli, l’ostetrica annunciava alla coppia lo stato interessante con un tono che quasi sembrava attribuire il merito a se stessa.
Quando il sonno rendeva gli uomini più vulnerabili e malleabili ai suoi magheggi, il Mago ne modificava la volontà o certo aspetti della psiche ordinando allo Spirito Servente di sdoppiarne le anime: passavano brevi istanti e il Mago aveva dinanzi a sé la copia dell’intima essenza vitale di un uomo o di una donna. Agendo sul doppio dell’anima, modificava i pensieri e correggeva la volontà mentre il corpo a cui essa era legata si trovava in un profondo stato d’assenza della coscienza senza che il soggetto patisse alcuna sofferenza o alcuna sensazione di morte. Agendo sul suo doppio, a capo chino davanti al Mago, umile, deferente, agiva sull’anima e la interrogava per procura, con l’interposizione del ben più energico Spirito Servente poiché il doppio non aveva la forza per muovere la sedia. In pochi istanti, la persona s’appalesava. L’anima confermava o smentiva sospetti, confessava colpe, descriveva l’interiorità dell’uomo dormiente. Se questi avesse avuto in veglia comportamenti detestabili, pericolosi, il Mago ammoniva l’ anima, intimandole di prendere un’altra strada e di rigar dritto; qualora essa non si fosse piegata al volere del Mago, la disobbedienza avrebbe comportato malesseri interiori e fisici. In tal maniera, il Mago correggeva maneschi, ubriaconi, giocatori, violenti, infedeli, fannulloni, viziosi. Per questo ogni notte il Mago vegliava fino al conseguimento dello scopo. La gente non sapeva come il babbo ottenesse il bene sperato, che traevano i benefici attraverso colpi e cigolii di una sedia in movimento nella notte. Solo mia mamma Bruna sapeva ma non doveva diffondere il segreto.
E pure io da allora so.

(Continua)

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