L’ombra della Rocchetta (5)

Anche la Mâta cambiò, come succede a tutte le persone di questo mondo, ma secondo un’evoluzione decisamente peggiorativa.
Principiò a urlare le proprie farneticanti pretese e accuse con tono minaccioso, ci derideva storpiando i nostri nomi ma senza reali offese o alcuna parola sconcia.
Seguirono assidue telefonate di un vecchio dalla voce gracchiante e marcato accento palermitano. Questi si presentò per nome, Salvatore, e si qualificò amico della Mâta, improponibile mediatore. Questo tizio, oltre alla solfa delle fotografie, richiedeva che la mamma procurasse un lavoro alla Mâta. Questa donna dunque riuscì a trovare un proselita! Come poteva avvenire che qualcuno le potesse dare credito? Le chiamate provenivano da un luogo chiuso poiché sentivamo intorno ai due solo silenzio. Con chi abitava dopo la fuga da via Frassinago? La Mâta conviveva con questo palermitano?
Salvatore si dileguò dopo qualche mese ma, perché i pazzi non risultassimo noi, in previsione di una denunzia, ne avevo registrato le telefonate, così come facevo con quelle della Mâta. Le farneticazioni riempirono una ventina di musicassette.
La Mâta si limitò a questo? No.
Era dotata di una certa creatività. La Mâta sembrava ricevere suggerimenti direttamente da un diavolo poiché trovava sempre nuove strade per infastidirci e nuocerci.
E una notte verso le due il campanello di casa suonò una, due, tre volte… L’insistenza faceva pensare a qualcosa di molto grave, urgente, e ci trovammo costretti ad aprire il portone della strada, non possedendo il citofono. Si presentarono alla porta un medico e due infermieri con una barella. La mamma ed io ci trovammo nella scomoda situazione di dichiarare che la chiamata al 118 non era stata assolutamente effettuata da noi e che il centralino avrebbe potuto trovare riscontro di questo. Forse uno scherzo a scapito nostro. Assicurammo infine che in casa stavamo tutti bene.
E un’altra notte, arrivarono i pompieri per una fuga di gas. E poi i carabinieri per un furto in casa.
Queste manfrine si ripeterono più volte, infastidendo anche un’anziana vicina di casa. La Mata fu la mandante di quegli ambaradan notturni? Fu lei a fare le varie telefonate? Ne avevamo la certezza ma non potevamo dimostrarlo. Davanti ad un giudice non servono delle plausibili congetture. Scrisse Pasolini nel 1974, riferendosi a tutt’altro contesto: Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
E prese a infastidire mia zia a Vergato.
E telefonò alla scuola media dove insegnavo, sempre a Vergato, spifferando le farneticazioni sul mio conto e della mamma.
E finalmente giunse il gran momento.
Durante una domenica del 1987 la Mata ed io ci incontrammo a quattr’occhi.
Mi trovavo in casa da solo. La mamma, essendo andata a trovate la nonna, quella sera non sarebbe ritornata da Vergato.
Verso le diciotto sentii una scampanellata inaspettata. Non attendevo alcuna persona e quindi non aprii il portone d’entrata.
Seguirono tante altre lunghe, insistenti scampanellate.
Una persona sola poteva essere l’autore di quel copione.
Un presentimento mi spinse verso la porta d’entrata che per metà aveva un vetro traslucido. C’era una persona.
Guardando attraverso lo spioncino vidi, per la prima volta, la Mâta!
Fui preso contemporaneamente da agitazione e sovreccitazione. Dovevo fare qualcosa.
Mi balenò in testa l’idea di recarmi in cucina per colmare d’acqua una pentola smaltata molto grande da rovesciare sulla Mâta. Abitando all’ultimo piano, una ripida rampa di scale si troncava contro alla porta di casa mia: avrei quindi avuto la Mâta all’altezza giusta per un magnifico, perfetto gavettone. Aprii la porta all’improvviso versandole in faccia una ventina di litri d’acqua fredda. La Mâta non riuscì a scansarsi nemmeno di un millimetro. Se la prese tutta.
In fretta serrai la porta.
Mi sentivo vendicato e soprattutto sentivo di aver vendicato la mamma per le sofferenze patite fino a quel giorno. E subentrò in me l’euforia.
La Mâta, però, si attaccò al campanello della porta più ossessivamente di prima.
Che fare? Aprii d’impulso il frigorifero, presi una bottiglia di conserva di pomodoro e con essa arrossii la faccia, i capelli, gli abiti della Mâta.
E ancora suonò con rabbia.
E la inondai di vino.
E suonò ancor più rabbiosamente.
E le tirai tre uova che si ruppero spandendo il loro vischioso contenuto.
E l’ira sua aumentò.
E le versai un’intero pacchetto di farina addosso.
La Mâta non arretrò nemmeno di un millimetro come se fosse disposta a subire ogni mia schernia.
Richiusi la porta.
Dopo un breve silenzio, la Mâta prese un grosso vaso di terracotta sulle scale che scagliò rabbiosamente contro il vetro della porta fracassandolo.
Presi il coraggio di affacciarmi e subito svanì l’euforia. La Mâta sembrava fuggita, ma mi resi conto del disastro che avevo prodotto sulle scale, pazzo quanto lei. Acqua, pomodoro, vino, farina, uova, vetri rotti, tutto sparso sui gradini. Sarebbero occorse ore per pulire, in più c’era da riparare la porta d’ingresso danneggiata.
Scesi al pianerottolo sottostante.
La Mâta era ancora lì, immobile. La farina mescolata agli altri fluidi le aveva creato una maschera farcita ridicolmente con un guscio d’uovo attaccato ai capelli. Anche ripulita non sarebbe parsa, invero, di gran bellezza, occhi piccoli, suini, tracagnotta, jeans scampanati sul punto di esplodere e, poco sopra, rotoli di grasso sostenevano due grosse vesciche, tette pesanti ed oscene.
Non attendeva me, mia mamma voleva, l’assassina che aveva ucciso con un pendolo. E, soprattutto, reclamava le fotografie.
Fatto sta che nelle parole della Mâta c’era una verità: il pendolo ce l’avevamo veramente, una strana goccia cava di vetro piena di lucente mercurio, lunga poco più della falange di un pollice. Si teneva sospeso tenendo tra le dita un anellino d’osso annodato a un filo nero a sua volta annodato a un occhiello di vetro in cima al pendolo. Un oggetto che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca al migliore radioestesista poiché il mercurio donava all’oggetto grande sensibilità ai flussi energetici presenti nel cosmo e a quelli degli esseri viventi. Utilizzato prima da mio babbo e poi dalla mamma, serviva per individuare eventuali presenze di energie negative nelle persone. Fatture. Stregonerie. Malie. Malocchio.
Non era certamente un oggetto con cui potere nuocere, semmai serviva per perseguire buoni propositi; prezioso strumento rivelatore del male fatto da altri, contribuiva a raddrizzare un destino tortuoso o avverso. Con questo strumento, insomma, non sarebbe stato proprio possibile fare male ad alcuno, nemmeno tirandolo in testa con veemenza!
Su come la Mâta avesse saputo del nostro pendolo congetturammo che, nella sua cervellotica follia, avesse seguito un ragionamento logico, banale: dove si praticano le scienze occulte, la presenza di un oggetto simile appare scontata, magari non di mercurio.
Quando mi vide sul pianerottolo la Mâta prese a canzonarmi, conticino, professorino. Mi montò la rabbia, cosicché mi avvicinai dicendole sgarbatamente d’andarsene e le diedi uno spintone senza produrle alcun ondeggiamento. Rimase immobile. Ebbi l’impressione di aver spinto un pesante sacco di sabbia.
Infine prevalse la razionalità cosicché la piantai lì.
Ritornai velocemente in casa per chiamare i carabinieri. Telefonai pure a un amico che abitava non lontano da casa mia per avere un testimone.
Il mio amico arrivò con i carabinieri dopo aver incontrato la Mâta mentre vagava in lacrime avanti e indietro nella loggia d’entrata.
L’amico, essendo al corrente delle parole e delle azioni messe in opera contro mia mamma e me, mi aiutò a spiegare ai divertiti carabinieri il contorto motivo che aveva condotto a quel soqquadro. Fecero il verbale e se la portarono via.

(Continua)

L’ombra della Rocchetta (4)

Sì, Carla Fiocchetti era sorella della Mâta. E Iolanda Fiocchetti, l’altra sorella, era effettivamente morta per un violento incidente stradale cinque anni prima.
Stupore e sincero dispiacere per la brutta fine di Iolanda precedettero la vera ragione della telefonata.
Carla dapprima negò la veridicità del nostro racconto:
«Ma come!…».
«Angela sa bene che è stata una disgrazia!…».
«Tu che c’entri?…».
«Che fotografie dovresti avere?…».
«E cosa c’entrano le fotografie?…».
«È impossibile!…».
«Mia sorella è timida! Non ha il coraggio…».
«Guarda sempre in basso con le braccia conserte!…».
«Abita con mia madre e raramente esce di casa!…».
«Ma non le tiri mai fuori una parola!…».
E la mamma chiosò con secca sicumera:
«Eppure è così!»
La conversazione virò quindi verso momenti tesi poiché mia mamma diede fuoco ai toni e l’altra non fu da meno, rischiando che Carla non collaborasse alla risoluzione della nostra situazione.
La mamma mi porse la cornetta del telefono e, forse per i miei toni mediatori, ovvero più ipocritamente controllati, a Carla venne il dubbio che i nostri racconti potessero avere un fondo di verità. Perché, trascorsi anni senza vederla, avremmo dovuto disturbarla raccontando quelle fandonie proprio sulla sorella Angela? Inoltre, pochi minuti prima, con quella telefonata stessa, avevamo trovato finalmente una traccia, un collegamento tra il resto del mondo e quella persona apparsa dal nulla. Rifletté. Sapeva che stava parlando con persone serie. E cambiò tono.
Carla era sposata, abitava lontano dalla casa materna di Via Frassinago; ammise, quindi, che non poteva controllare i comportamenti della sorella Angela. Apprendemmo inoltre che la Mâta e la gemella Fioretta – questa, separata dal marito, stava per conto suo – erano le più giovani di una folta schiera di fratelli, tre uomini e quattro donne. La Mâta conviveva con la madre sorda ed un fratello. Ci chiese del tempo.
E, intanto, la Mâta ogni giorno perseverava nel disturbarci, cessando solo verso le diciannove d’ogni sera e poi per l’intero fine settimana, evidentemente impossibilitata ad esprimere la propria follia da presenze indesiderate.
Preoccupato per la prostrazione di mia mamma, non avendo prospettive di soluzione, una sera, verso le diciotto, indossai il cappotto e mi recai fin davanti alla casa della Mâta come dare materia a questa ossessione. Speravo di vedere la Mata? No, speravo d’imbattermi, per parlargli, in quel qualcuno che la ostacolava. Il fratello?
L’edificio di Via Frassinago, nonostante avesse due piani con poche finestre sulla strada, era abitato da tante famiglie. Accanto al portone d’accesso stavano ben cinque numeri civici; l’edificio si sviluppava pertanto in lunghezza, con diverse rampe di scale e diversi cortili interni. Questo classico palazzo popolare bolognese costruito tra il ‘500 e il ‘600 arrivava a lambire il giardino intorno all’ospedale psichiatrico, detto in città il Novanta perché l’entrata principale stava in Via Sant’Isaia 90.
Guardai la cospicua bottoniera di campanelli, poi mi inoltrai nell’androne malamente illuminato. Salii la scala B fino al primo piano e sostai sul pianerottolo davanti all’alloggio della Mâta. Accanto all’entrata, c’era una finestra con inferriate. Una tenda impediva di scorgere l’interno della casa. Si spense la luce delle scale, questo mi permise di vedere che non filtrava alcun chiarore, nemmeno lontano. Sembrava disabitata. Se fosse arrivato qualcuno mi sarei trovato nelle grane, così speditamente me ne andai sentendomi sciocco e impotente.
Passò una quindicina di giorni che ricevemmo la telefonata promessa dalla Carla. E con un gran colpo di scena.
La donna innanzitutto si scusò per non aver dato immediatamente credito al nostro racconto. Andando a fare visita alla madre, la Carla interrogò la sorella e questa confermò il nostro racconto per filo e per segno. Le fotografie, il pendolo, l’omicidio della Iolanda. Non disposta ad andare per il sottile, la Carla causò un bel patatrac: prese per i capelli, a sberle, a calci, la Mâta cosicché questa scappò di casa! Da giorni nessuno aveva avuto più sue notizie, nemmeno la gemella Fioretta.
La Carla giurò e spergiurò che non sapeva né come né dove rintracciarla. Verità o bugia per coprire la sorella? Perché non denunciarne la scomparsa? Io pensai che la famiglia avesse perfino tirato un sospiro di sollievo per la sparizione della Mâta, così sarebbero state tante grane in meno. La Carla aggiunse che entrambe le gemelle avevano manifestato delle stranezze per cui fu necessario qualche medico. I gemelli agiscono in coppia. Quasi una giustificazione. La Fioretta, una volta separata dal marito, si era chiusa in casa con i suoi psicofarmaci, ed anche l’altra, la Mâta, aveva manifestato dei comportamenti che per un po’ furono seguiti da un neurologo. Entrambe vivevano solo con un po’ di denaro allungato loro dalla madre.
Le azioni dell’Angela erano penalmente rilevanti, osservai.
«Pagherà di tasca propria. Peggio per lei. Io devo stare dietro alla mia famiglia».
Alla fine dei conti, l’unica cosa utile di quella conversazione fu che apprendemmo il vero nome della Mata, non Angela ma Angiolina. Decisamente poco.
La mamma ed io eravamo dunque al punto di partenza, nuovamente soli contro Angiolina Fiocchetti.

(Continua)

You cannot copy content of this page