Il cenone di Natale

Non ho mai partecipato in vita mia a un cenone natalizio. Durante l’infanzia, e anche più in là, mi è sempre apparso usanza di origine prevalentemente centro-meridionale, così come per molti altri bolognesi o emiliani in genere.

Il giorno della vigilia di Natale lo si dedicava alla preparazione della festa. In quanto vigilia, almeno i grandi avrebbero dovuto mangiare meno rispetto agli altri giorni e soprattutto, sia a pranzo che a cena, non si sarebbe dovuto consumare alcun tipo di carne.

Il menù del 24 dicembre prevedeva quasi obbligatoriamente gli spaghetti conditi con il tonno sott’olio. Per me questa questa minestra è una delizia, ora considerata un mangiare veloce per chi non sa cucinare o per studenti fuori sede. Una ricetta di rifugio. Io direi, piuttosto, una ricetta semplice e, proprio perché semplice, deve essere fatta bene.

Si faceva imbiondire la cipolla tagliata finemente nell’olio con uno spicchio d’aglio, quindi si aggiungeva il tonno sbriciolato con qualche filetto di acciuga sott’olio, e ancor dopo la conserva, cioè la passata di pomodoro, possibilmente fatta in casa durante la tarda estate. Se questa mancava, la si sostituiva con il triplo concentrato di marca Mutti, una sapidissima malta quasi color viola in tubetto o in barattolo, buona anche spalmata sul pane. Si versava un poco d’acqua per permettere una cottura del pomodoro non veloce, a fuoco basso, fino a quando il sugo diventava arancione e denso. Questo dava il segnale che il sugo di tonno poteva essere versato sugli spaghetti cotti contemporaneamente. Null’altro, se non un po’ di prezzemolo tritato, ma a piacere. E a me, infatti, in questo caso, il prezzemolo non piace.

Altra prelibatezza era il baccalà. Si doveva necessariamente prenotarlo con un certo anticipo: sarebbe stata un’impresa impossibile trovare il baccalà dissalato fin da qualche giorno prima della vigilia.

Mia mamma lo preparava in maniera semplice, lessato, condito con olio, limone, aglio e prezzemolo. Tanto gustoso quanto semplice era il contorno, le patate bollite con olio e aceto.

Trovavano posto sul desco della vigilia anche i pesciolini birichini, piccole creaturine infarinate, poi fritte poi messe e marinare in una salamoia di olio e aceto. Si acquistavano in salumeria, venduti a peso, avvolti in carta oleata e poi ancora in una ruvida carta gialla per raccogliere le gocce di liquido. A me piacevano assai, nonostante il gusto assai deciso non sempre grato al palato dei bambini.

Si mangiava poc’altro, frutta secca – io ero avido di noccioline tostate – castagne secche, magari cotte in acqua con una foglia di alloro e servite a mo’ di minestra con il loro brodo rossastro.

E come si trascorreva la sera della vigilia? Non si usava fare regali, nemmeno ai bambini. I regali arrivavano solamente alla mattina della Befana.

Durante la vigilia di Natale non si allestiva nemmeno l’albero perché era già al suo posto fin dal giorno dell’Immacolata.

Che si faceva, allora?

Si preparava il pranzo di Natale che, a Bologna, doveva principiare con la regina delle minestre, i tortellini in brodo. Occorreva tempo ed anche fatica per fare un chilogrammo di tortellini! Innanzitutto il ripieno di carne a base di lonza di maiale, prosciutto crudo, mortadella, parmigiano, noce moscata e uovo. La mamma tirava la sfoglia a mano, con il matterello, sul tagliere. Questa era la fase più faticosa. E dopo giungeva la fase della pazienza. Tagliava i quadratini di pasta con una speronella d’ottone che suonava come un campanellino. Ovviamente la sfoglia all’uovo doveva rimanere elastica e umida, ma non troppo, per essere lavorata a forma di ombelico racchiudendo una punta del ricco ripieno di carne.

Venivano disposti in fila, coperti fino al giorno successivo da un burazzo in canapa.

Verso le otto della sera iniziava la preparazione del brodo in cui cuocere i tortellini. Si tuffavano nell’acqua fredda gli odori, cioè carota, sedano, cipolla, una patata e un pomodoro e poi tanta carne di manzo, acquistata secondo i consigli del macellaio, qualche osso, una mezza gallina. Schiumato il futuro brodo più volte con la ramina, il pentolone sonnecchiava sul fuoco della cucina economica fino alla mezzanotte. Ma il prezioso liquido ma non era ancora pronto: occorreva togliere lo strato di grasso in superficie e gli straccetti di sangue misti a frammenti di carne e verdura. La pentola veniva riposta sul davanzale della finestra per cui la mattina di Natale sarebbe stato assai facile eliminare il grasso diventato solido e giallo. Dopo esser stato riscaldato, veniva filtrato attraverso una garza o un colino assai fitto. Guai se qualcosa avesse galleggiato perché non sarebbe stato un bel vedere. Solo così il brodo per i tortellini era pronto.

I lavori della vigilia terminavano approntando le carni da arrostire al forno. Si cospargeva il coniglio, il pollo e la faraona con un trito fine d’aglio, rosmarino, alloro e salvia a cui si aggiungeva una bella presa di sale grosso. Con uno spago sottile, gli animali venivano legati, deposti nelle teglie, le ruole. Unti di olio, si insaporivano durante notte.

Non si mangiavano dolci per Natale? Certamente, ma non si potevano preparare durante la sera della Vigilia. C’era troppo da fare, e poi i dolci tradizionali di queste parti possono o devono essere fatti tempo prima.

Il Certosino, dolce natalizio bolognese per eccellenza, doveva essere  preparato non meno di un mese prima. Dolce antico, austero e sontuoso. Bello a vedersi.

L’impasto – farina, pinoli, mandorle, miele, cedro candito, zucchero, cioccolato fondente, vino rosso aromatizzato spezie e buccia d’agrumi grattugiata – doveva riposare al fresco almeno per una settimana. Poi si facevano tante ciambelle con il buco in mezzo. Ogni certosino veniva ricoperto con un ricco mosaico di frutta candita tagliata a pezzi grandi e una generosa mano di mandorle intere pralinate. E quindi andavano in forno.

Una volta raffreddati, i certosini venivano lucidati con il miele diluito con qualche cucchiaiata di acqua e poi avvolti con carta oleata fino al giorno di Natale.

Io vado pazzo per il certosino.

Altro dolce ricorrente sulla mensa di Natale era la Pinza, una pasta frolla tenace distesa sul tagliere con il matterello, poi cosparsa generosamente con un composto di mostarda bolognese – una marmellata compatta che non bolle durante la cottura, nera, composta da pere, mele, mele  e pere cotogne, scorze di limone e arance – uva passa ammollata nel vino o nel vermut con le spezie, cioccolato fondente, pinoli e cubetti di cedro candito. Si avvolgeva il tutto su se stesso, dando alla pinza una forma ellittica assai allungata, un tozzo dirigibile. Una volta cotte, le pinze dovevano riposare per qualche giorno, per essere tagliate a larghe fette trasversali.

La pinza è uno dei miei dolci preferiti.

Si poteva cucinare anche la torta di tagliatelle. Un sottile strato di pasta frolla rivestiva lo stampo da forno rotondo, si versava una golosa poltiglia ben tritata di cedro candito, mandorle, amaretti, zucchero, cioccolato fondente e burro. Delle taglioline all’uovo sottili sottili spolverate con zucchero e mandorle ricopriva tutto quel ben di dio. Tolta dal forno la torta doveva essere spruzzata con il liquore Strega. Insomma, un capolavoro.

E poi si poteva fare la crostata con la mostarda bolognese, la ciambella tenera, magari marmorizzata, la ciambella dura, il fiordilatte…Dolci casalinghi, certezza di bontà.

Dopo i preparativi della vigilia chi voleva si recava alla Messa di Mezzanotte. Chi non riusciva a tenere gli occhi aperti si avviava a dormire nel letto riscaldato con il prete elettrico o con le braci.

Una volta le stanze da letto erano sempre al freddo perché, la notte, le stufe dovevano stare spente.

Una volta? Pardon, volevo dire «quand’ero bambino».

Buon Natale.

Il Pane bolognese se lo grami il fornaio

Adès a s la grâma ló è un bel modo di dire bolognese che, riferendosi ad una situazione faticosa da risolvere, può essere tradotta come «ora se la deve sbrigare da solo». Chiosa liberatoria di chi ha dato inutilmente buoni consigli a quello che decide di fare secondo la propria testa. Si può tradurre anche con «ora sono c… suoi».

Gramare sta per «fare fatica». Il modo di dire bolognese rimanda alla fatica necessaria per ottenere il pane bolognese. Fare il pane diventa, così, una metafora su un aspetto della vita.

La grama o gramola è uno strumento di legno per lavorare la pasta: una base di legno su quattro gambe a cui è attaccata una spessa asta mobile di legno che termina con un’impugnatura.

La grama © Tutti i diritti sono riservati all’autore

Poiché l’impasto crudo del pane che si mangia a Bologna è molto duro occorre questa macchina rudimentale per lavorarlo convenientemente. Posto sulla base della grama, viene battuto tante volte, compattato, con l’asta azionata a mano fino a che diventa liscio ed omogeneo.

Dopo la gramatura, l’impasto d’acqua e farina diventa piacevole al tatto, vellutato. Il fornaio forma allora tanti panetti circolari, li spiana con il matterello e poi fa dei rotolini. Avendo acquisito malleabilità, è possibile dare alla pasta delle belle forme. Si può modellare come se fosse creta. Una volta cotto, la crosta sottile friabile lievemente, biscottata ma non dura, ha il colore della pelle ambrata. La mollica, arrotolata su se stessa, è candida e soffice.

Il pane bolognese è anche bello e decora la tavola apparecchiata. Piccole statue da mangiare. Nomi evocativi ne esprimono la varietà: i barilini, i montasù, i carciofi, le crocette, i mustafà, i caserecci, le spighe, le rondini, i ragnini. Le diverse forme donano allo stesso impasto vari sapori e fragranze.

Guai mai tagliarlo con il coltello! Quello bolognese è un pane gentile – pure un bambino con i dentini da latte può gustarlo a piccoli morsi – dal sapore salato ma con un fondo dolciastro, gustoso anche con un bicchiere di acqua come companatico.

Tolto dal forno, il pane ha una lunga vita.

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Montasù, mustafà e carciofo © Tutti i diritti sono riservati all’autore

Quando si esce dal negozio del panettiere, non si resiste alla tentazione di mangiare immediatamente gli angoli croccanti, i grugnolini. A casa,  accompagna egregiamente le pietanze e raccoglie i sughi senza troppo assorbirli.

Indurisce lentamente e mai fa la corda. A colazione e cena, diventa allora una delizia per la zuppa con il caffellatte.

Quel che rimane, essiccato per qualche settimana, si grattugia e si otteniene una polvere che diventa sapido ingrediente per polpette, polpettoni e cotolette.

Un tempo, il fornaio chiedeva sempre se si desiderava il pane comune o quello condito. La differenza consiste, oltre al costo, che in quello condito si aggiunge olio d’oliva e strutto. Questi ingredienti conferiscono non solo maggior sapore e croccantezza, ma la capacità di mantenersi morbido per più giorni, senza rovinare graffiare palato e gengive.

I fornai, aumentando la dose di grassi e cuocendo per bene l’impasto, creano i ragnini, friabilissimi e croccanti. Una delizia a merenda con una tavoletta di cioccolato al latte.

Le code di rondine © Tutti i diritti sono riservati all’autore

Purtroppo, con l’industrializzazione, anche la qualità del pane ha subito un peggioramento non da poco. Quando ero bambino, ogni fornaio produceva il pane che vendeva, ogni negozio aveva un proprio profumo che si spandeva sotto i portici e un proprio sapore. Il pane che attualmente si trova non nasce più dall’incontro tra un’amalgama di buoni ingredienti e una grande arte faticosa. Ora pochi fornai sono panificatori e il naso non prova più alcun piacere entrando nei negozi. Si mangia ovunque un pane con lo stesso sapore omologato, per qualità, al ribasso.

Il pane è la metafora dei tempi che stiamo vivendo.

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