Dayner Tafur-Díaz: promessa che è gia realtà

Dayner Tafur-Díaz è un direttore peruviano piccolo d’età, appena ventiquattro anni, come minuto nel corpo, che sul podio diventa un magnetico gigante, un napoleone della bacchetta.
Il concerto di ieri sera 28 aprile all’Auditorium Manzoni eseguito dall’orchestra del Teatro Comunale di Bologna così si componeva: Decisamente allegro, ouverture da concerto di Nicola Campogrande, il Primo Concerto in fa diesis minore per pianoforte e orchestra di Sergei Rachmaninov e la Seconda Sinfonia in re maggiore di Jean Sibelius.
Commissionato da Riccardo Chailly, di cui è stato anche il primo interprete a Milano nel 2022 in Piazza del Duomo, il brano di Campogrande è musica assai piacevole consapevolmente composta in un rassicurante ambito tonale, dalla bella orchestrazione, lontana da pretese di qualsiasi sperimentazione, di pseudo avanguardismo o da stancante intellettualismo. Evviva! È musica assoluta per grande orchestra il cui titolo ne esprime sia il programma che l’agogica, da cui fanno capolino le colonne sonore di grandi film, destinata ad avere un favorevole impatto sul pubblico, come è avvenuto ieri sera.
Il concerto di Rachmaninov del 1890-91 è opera di un musicista diciannovenne, fu rivisto dal compositore nel 1917. Risulta manifesto il pensiero al concerto per pianoforte e orchestra di Grieg pur non avendo di questo la felicità melodica; ben orchestrato, la parte solistica necessita di un virtuoso ma non ha le peculiarità delle opere pianistiche successive del compositore russo.
Grande musica è quella di Sibelius, nonostante che compositore non goda alle nostre latitudini di grande popolarità e nemmeno di grande favore presso una certa critica che in essa non trova le inquietudini anticipatrici della dodecafonia e dell’avanguardismo. È musica assolutamente originale svincolata dalla necessità di avere un programma che la ispiri, svincolata da modelli precedenti, denotata da una bellezza melodica di ampio respiro.
Il pianista Nikolay Khozyainov, pur rimanendo nell’ambito di una generale adeguatezza, non mi ha particolarmente colpito né come interprete né per capacità tecniche. Il suono non mi è parso di gran fascino e l’esecuzione, con qualche inciampo, è risultata un poco grigia non solo nel concerto di Rachmaninov ma anche nei bis. Il pubblico ha comunque gradito l’esibizione del pianista russo.
Il direttore Dayner Tafur-Díaz, invece, capta su di sé l’attenzione dell’ascoltatore fin dal primo attacco dell’orchestra. Non ha solo un gesto della mano destra magnifico grande, elegante, armonioso, con cui non cessa nemmeno per un momento di dare il tempo,  dirige con tutto il corpo ma con compostezza, senza istrionico protagonismo, senza fare l’attore. Sembra rappresentare con il suo sé la musica che sta interpretando. Gli strumentisti hanno così suonato splendidamente con ampie architetture di legato, grandi sonorità controllate e bellissimi impasti; i fiati, in particolare gli ottoni, non hanno avuto alcun momento di incertezza. Insomma un giovane direttore che pare possedere il crisma della grandezza. Spero per lui una luminosa carriera.
Al termine della sinfonia lunghi sonori applausi e ovazioni convinte, anche da parte mia.

Dalle tenebre alla luce. Un concerto sinfonico all’Auditorium Manzoni

Mi era sfuggito il senso del programma dietro al concerto sinfonico di ieri sera 7 aprile, eseguito dall’ottima Orchestra del Teatro Comunale diretta da Oksana Lyniv, all’Auditorium Manzoni; esso è stato esplicitato dal multiforme Luca Baccolini, giornalista che scrive di calcio e di musica, scrittore tout court sulla città di Bologna, prima del concerto – con la sua consueta cordialità e il suo vincente appeal, con osservazioni non da musicologo ma precise, talvolta non interamente condivisibili come, d’altra parte, per tutte le cose – che il concerto non scontato rappresentava una sorta di cammino che partiva dalle tenebre, dalla morte, alla luce della Resurrezione. Già era Venerdì Santo, e questo giustificava la Suite dal Parsifal nell’arrangiamento di Claudio Abbado, qui ovviamente stava la Luce, la Redenzione; le tenebre era rappresentate, fin nel titolo, dal Concerto Funebre di Karl Amadeus Hartmann per violino e orchestra; come ponte tra le due musiche si situava il Concerto n. 3 per violino e orchestra di Jevhen Fedororovyč Stankovyč. Se Baccolini si è assai dilungato sul Concerto Funebre descrivendone la particolare cupezza e la tragicità, non ha speso quasi una parola del Concerto di Stankovyč per giustificarne l’inserimento nell’arco del programma. Ai fatti dell’ascolto, queste due opere misconosciute non mi sono parse interamente conformi alla presentazione, in particolare più per la musica di Stankovyč che per quella di Hartmann. Il concerto di Stankovyč del 1982 è ben orchestrato con il violino solista che canta in maniera contorta senza particolari sobbalzi virtuosistici; non mi pare una musica di spiccata originalità perché si sentivano a turno echi di Prokofiev, Shostakovich e Bartok. Non è parso giustificato il senso dell’inserimento di questo concerto nel cammino programmatico dalle tenebre alla luce se non dal nazionalismo che può unire il violinista e la direttrice, entrambi ucraini al compositore anch’egli ucraino, ravvivate dalle attuali contingenze di guerra. Ciononostante questo concerto ha avuto un successo di pubblico, e il violinista alla terza chiamata anziché fare un bis ha brandito sulla testa la partitura orchestrale del concerto come Mosè fece con le Tavole della Legge. Forse il pubblico applaudiva per sentire un pezzo di una Partita di Bach o un Capriccio di Paganini. Il Concerto Funebre di Hartmann composto nel 1939 risultava assai più moderno, in linea con il modernismo del tempo, inviso ai nazisti. Non avendo paragoni, l’esecuzione di entrambe le musiche mi è parsa molto buona sia da parte del violinista Valeriy Sokolov che della direttrice Oksana Lyniv.

Per quanto riguarda la Suite del Parsifal, per questa i termini di paragone ci sono, l’esecuzione della Lyniv mi è sembrata abbastanza buona, senza generare sia in me che nel resto del pubblico particolari entusiasmi come si converrebbe a Bologna, città wagneriana da sempre. Il preludio all’atto primo mi è apparso troppo veloce, un lento incedere dovrebbe caratterizzare il rituale misticismo di quest’opera definita da Wagner come Azione scenica sacrale. Inoltre, se Pierre Boulez diceva che nel Parsifal il fortissimo non doveva essere improvviso ma doveva arrivare come un legno che cade in una colla densa, viceversa nella direzione della Lyniv ho udito i consueti clangori d’effetto. Insomma, esecuzione non particolarmente fascinosa. Con suono potente e di bell’impasto ha cantato il coro del Teatro Comunale diretto da Gea Ansini Garatti.

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