Un altro amore per Turandot

La singolarità del negozio ”Dischi Salizzoni“ consisteva nell’avere due entrate opposte, essendo situato dove il Sottopassaggio si sdoppiava in percorsi paralleli. Per il resto era anonimo e poco attraente come tutti i negozi sotterranei.

Vendeva prevalentemente musica  leggera e rock ad una clientela di passaggio, senza troppe pretese. I cultori della musica classica non avrebbero mai trovato  opere rare o  edizioni succulente, quelle che facevano bella mostra alla Casa del disco o da Bongiovanni, negozio sormontato perfino dalle insegne del Toson d’oro e i blasoni dei reali spagnoli, al posto dell’Osteria dei Tre Re. Glorianna, la proprietaria, sopperiva allo scarso assortimento ordinando i dischi classici sistematicamente mancanti, che giungevano però senza fretta. Ai pochi giovani in cerca di musica classica, la negoziante faceva dei consistenti sconti perchè coltivassero più assiduamente la propria passione.

Piccolina e minuta, la Glorianna aveva degli occhi malinconici alla Edith Piaf. Esprimevano mitezza. Il suo animo, in effetti, si manifestava gentile e paziente con tutti, perfino con una mia compagna di classe, la Corinna Strocchi, in grado di fare perdere la pazienza anche a un santo. Io pensavo che la signora Salizzoni fosse tormentata dalla mia amica. Una vittima, insomma.

Sempre sorvegliata nello spendere il denaro e contando sugli extrasconti per gli studenti, la Corinna acquistava esclusivamente le opere nel sottopassaggio, ma ad ogni cavata di papa e, per questo, ogni compera diventava un avvenimento che subivamo tutti. I dischi dovevano essere assolutamente perfetti. Ma la perfezione non sembrava mai lambire i dischi venduti dalla signora Salizzoni alla Corinna: questa infatti, ogni volta lamentava che le opere producevano fruscii, crepitii, dei pic e dei pac. I rumori comparivano ovviamente a casa della Corinna, e scomparivano allorché la signora Glorianna ascoltava con il proprio giradischi per controllare i difetti. Era il fruscìo fantasma.

La Corinna scaricava, allora, la colpa sull’apparecchio della negoziante:

«Eeeeeh, ma lei c’ha un pick-up troppo pesante. Per forza che non sente i rumori!»

E la Salizzoni di rimando:

«Forse avrà lei una puntina vecchia. Da quanto tempo è che non la cambia? E pulisce i dischi con un panno elettrostatico?»

Con questa manfrina dei fruscii, la Corinna riuscì a farsi cambiare la Carmen diretta da von Karajan per ben tre volte senza essere mandata a ramengo.

La negoziante sudò freddo, rassegnandosi al peggio, allorchè la Corinna fu posseduta dalla passione wagneriana: con L’anello del Nibelungo la perfezione si sarebbe dovuta estendere a ben diciannove dischi! La venditrice esperta affidò la propria sorte alla nota qualità della gialla Deutsche Grammophon.

In una città di sinistra, a quei tempi ancora molto ideologizzata, la signora Glorianna si professava anticomunista. Aveva civile riserbo nell’esprimere le proprie idee controcorrente, essendo temprate dall’opportunismo del commerciante.

Capitava che facesse qualche battuta sulla giunta cittadina, ostaggio dei compagni: vedeva ovunque informatori mandati dal Palazzo Comunale e proprio tra i pensionati incontinenti del sottopassaggio, stanziati a pochi metri dalle latrine pubbliche, si annidavano le spie del signor sindaco.

La signora Glorianna mi prese a benvolere come una zia, dopotutto parevo un nipote perfetto per tutti i tipi di zie, con quella faccia da bravo ragazzo studioso che mi trovavo, sempre vestito in maniera elegante, e con la passione per la musica classica.

Nonostante che il mio cuore battesse politicamente a sinistra, non essendo un indiano metropolitano, né sostenevo gli espropri proletari con sampietrini per svuotare i negozi, la signora Glorianna aveva una considerazione molto indulgente sulle mie idee, pensando che fossi solo influenzato da professori filocomunisti.

Una volta le uscì dalla bocca qualche parola in più:

«Scommetto che lei ha un professore comunista…», disse ammiccando

«Credo di sì. Quello di filosofia penso che sia comunista. Iscritto al PCI», risposi.

«Vede? Ho ragione io allora!» e continuò:

«Passerà, passerà…Certe idee passeranno come passano morbillo e varicella quando i bambini vanno all’asilo o alle elementari. Al liceo, invece, gli adolescenti sono contagiati dalla propaganda dei professori di sinistra»

«Il suo è l’entusiasmo giovanile dello studente che legge tante cose…quando sarà più grande, e penserà con la propria testa, cambierà idea. Vedrà, vedrà!»

Giocai allora una briscoletta nascosta:

«Ah! Dimenticavo… Abbiamo un altro professore comunista… quello di religione»

La Glorianna sgranò gli occhi. E continuai:

«Deve essere addirittura un extraparlamentare. Viene a scuola con eskimo, chitarra e saccoccia».

«Quanti anni ha?», chiese lei.

«Non so. E’ giovane, si è laureato da poco in lettere. Tutte le ragazze sono innamorate di lui, dicono che è anche bello»

«E cosa ci fa con la chitarra?»

«Fa cantare pezzi religiosi arrangiati come nella messa beat, e poi Guccini, De Andrè, Dylan. Cantano soprattutto le femmine, anche la Corinna»

«E quando non cantate?»

«Ci parla di Dio, di Gesù, di Marx, di capitalismo, sfruttamento, lavoro, terzo mondo, mai di partiti politici»

E allora la Glorianna:

«Mo’ sorbole!  Sta a vedere…che dietro a questo professore prenderei una barca anch’io. La prossima volta che passa, farò il terzo grado a Corinna…», chiudendo la questione dei comunisti con divertita furbizia.

Se nei bar è possibile incontrare degli avventori che per ore stanno a far chiacchiere o guardare la gente senza bere nemmeno un caffè o un crodino, così la signora Glorianna ospitava alcune persone, sempre le stesse, con diversi gradi di stranezze, dei perditempo che non compravano mai nulla, nemmeno un quarantacinque giri di Gianni Morandi.

Tra queste c’era senz’altro la Corinna che, considerando la giovane età, dimostrava grande talento naturale per le stranezze. Ma almeno lei qualche disco, seppur saltuariamente, lo acquistava.

Conobbi uno strano – o meglio, imparai a riconoscerlo più che a conoscerlo – signore benestante sulla sessantina. Entrava dalla Glorianna, si appoggiava ad una scansia e lì rimaneva con lo sguardo fisso. Una statua grezzamente intagliata nel legno con gli occhi uguali ai bottoni del paltò. Si chiamava Amedeo Masetti, così disse la Glorianna. Un uomo assai laconico, trisillabico. Poiché nessuno ci presentò, i nostri discorsi andavano a mala pena oltre i saluti, esaurendo in fretta la sua disponibilità quotidiana di sillabe. Per questa educata maleducazione mi sentivo spesso imbarazzato e, allora, per mettere in pace la coscienza, pronunciavo un impersonale Salve rivolto a tutti e a nessuno. La grande stranezza di Amedeo Masetti era che collezionava esclusivamente i dischi del Rigoletto. Nient’altro. E’ facile immaginare che la sua raccolta si fosse completata in breve tempo.

La signora Glorianna alzava gli occhi al cielo quando, ogni giorno, entrava un appiccicoso pugliese conosciuto solo per nome, Pino. Raccontò una sola cosa della sua vita privata: possedeva un disco della Traviata con Maria Malibran! Un solo racconto e, per giunta, una balla. Scelse male il soprano. Maria Felicia Malibran, infatti, se ne andò poco prima che Verdi iniziasse a comporre opere, quasi vent’anni prima della Traviata e assai prima dell’invenzione del grammofono.

L’uomo aveva sempre al seguito un figlio nullafacente, mellifluo quanto lui, sui diciotto anni. Non sembrava un fulmine di intelligenza, forse renitente alla scuola, e forse era venuto al mondo per partenogenesi dal momento che né l’uno né l’altro parlava mai della rispettiva moglie o madre.

Anche la professione del pugliese era avvolta dal mistero. Decidemmo con la Glorianna che fosse cameriere di ristorante, indossando sempre pantaloni e mocassini neri con una camicia bianca.

Pino si manifestò furbo e intrigante con un piano preciso a favore del figlio. Tessette una tela tra cui la signora Glorianna rimase intrappolata.

Il negozio Salizzoni era condotto normalmente dalla proprietaria e, all’occorrenza, arrivava il rinforzo della sorella. Con il passare dei mesi, Pino e il figlio, senza che la Glorianna avesse mai chiesto nulla, iniziarono a servire la clientela come veri commessi. La mite negoziante non ebbe mai il coraggio di dire nulla. Per qualche tempo mancai di passare nel negozio del sottopassaggio e mi sorpresi assai vedendo che la signora Glorianna aveva assunto stabilmente il figlio di Pino come commesso. Pensavo che le fossero antipatici come a me. Forse mi sbagliai. Così preferii non approfondire.

Diedi il nomignolo di Teschietto ad un tizio senza nome con cui facevo conversazione. Il suo volto, ovviamente, era smunto, scavato e molto segnato, con gli occhi fuori dalle orbite e una sfavillante dentiera prominente che spuntava dalle labbra violacee. Il colore della pelle ricordava quello dell’epatite virale acuta. Parlava generalmente, con una voce che proveniva dal sottoscala,  di cantanti scomparsi. Tra tutti prediligeva Apollo Granforte, la cui valentìa vocale, secondo Teschietto, era commisurata e dovuta, non solo metaforicamente, alle gonadi del cantante particolarmente sviluppate. Vox populi, vox Dei.

Passava dal negozio un soprano del Teatro Comunale ormai prossimo alla pensione, anche due volte al giorno, a seconda delle prove. Si chiamava Clelia Vannini. Aveva il fisico da boiler dell’arzadoura bolognese, essendo alta sul metro e cinquanta con un seno prosperoso su un fisico senza fianchi. La piccola testa ovale era sormontata da dei capelli appena ingrigiti, acconciati con una crocchia tenuta insieme da pettini. I grandi occhi spiovevano a lato e il naso aquilino anelava congiungersi con le labbra che atteggiava con un’espressione severa o schifata. Viveva con la mamma non troppo lontano da casa mia. Diceva di essere un soprano drammatico e d’avere come cavallo di battaglia nientemeno che In questa reggia dalla Turandot di Puccini e l’aria d’entrata della Lady Macbeth di Verdi.

Aveva un carattere esuberante e gioviale. Simpatica. Bastava darle un po’ di corda e conversava su tutto, con chiunque.

La signora Vannini raccontò senza troppe pruderie un episodio che altre donne avrebbero tenuto nascosto.

Mi fece:

«Non ho mai voluto tanti uomini attaccati alla stanella. Sa?».

La cosa non mi stupì. Pensai che nemmeno quand’era giovane potesse vantare una particolare bellezza.

Cantò a mezza voce, a proposito del suo essere zitella,

«Nessun m’avrà», dalla romanza in cui eccelleva.

Spiegò che prese la decisione di tagliare i ponti con gli uomini dopo essersi innamorata di un cantante lirico, omosessuale noto a tutti, tranne che a lei. La storia della principessa di gelo scongelata non ebbe un lieto finale e, quindi, la piccola Turandot si rinchiuse in una ghiacciaia sentimentale  da cui mai più uscì. Così almeno disse l’interessata.

«Pericle Livraghi…L’avrà senz’altro sentito cantare al Comunale».

«Stia bene attento, perché quello cerca i ragazzi come lei».

Livraghi e la Azzaroni si conobbero da un maestro di canto e, dopo qualche tempo, presero a vedersi anche fuori dall’ambito lirico.

Non rimanevano mai soli perché Livraghi sempre portava con sé un terzo incomodo, un professore di lettere.

«Gentile, una cara persona, molto colto…ma sempre tra i piedi. Pericle mi invitava fuori all’opera, al cinema, alla prosa. Ad ogni appuntamento si presentava con questo. Alla fine diventai, per forza, amica anche con lui».

Andavano in giro a far gite tutti e tre insieme allegramente. Arrivarono perfino a Parigi.

«Che bel viaggio e che nostalgia per quei tempi spensierati, che risate! E poi eravamo giovani…»

A Versailles il professore si storse un piede e dovette sedersi.

«Non può immaginare la scenata di Pericle al professore perché non riusciva a reggersi in piedi! Voleva vedere il Trianon a tutti costi. Si mise a fare i capricci. Battè i piedi per terra. Così andammo a visitarlo io e lui…mano nella mano»

«E poi?» chiesi divertito.

«Trovammo un angolino con poca luce e…mi diede un bacino sulla guancia. Ma non pensi che…non andammo oltre. La cosa finì lì, insomma»

Mi prese da una parte e sussurrò coprendosi la bocca:

«Era un busone»

«Ma ha capito chi è?»

Intervenì, allora, la signora Glorianna:

«Clelia, ma che cosa sta raccontando, che dice? E poi la smetta di annoiare questo povero ragazzo con la solita gnola»

La signora Vannini continuò invece sottovoce.

«Mi prese in giro, io ero la sua copertura».

Chiesi:

«Come fece a capire che…»

«Aaah, se fosse stato per me non l’avrei mai capito. Quant’ero ingenua, una gnocca…però quanto ci divertivamo! Come stavamo bene! Un bel giorno mia mamma trovò nella buchetta una lettera anonima a lei indirizzata. La frase più gentile fu: Tua flglia fa pena quando regge il moccolo a quei due busoni. Capisce anche lei che dovetti allontanarmi, mia madre si sentiva lo zimbello della gente. Dei vigliacchi. Invidiavano la mia felicità».

E sospirò.

«Dopo questo episodio, ho dato un taglio agli uomini», facendo un eloquente gesto con le mani.

«Pericle era un bell’omarino, gli piaceva vestire elegantemente. Si atteggiava a fare l’artista, l’esteta con la testa tra le nuvole…»

E aggiunse con tono pieno d’orgoglio «Sa che ebbe anche una relazione con Danny Kaye?», come se la relazione con Kaye l’avesse avuta lei o se fosse una referenza di particolare rilievo.

Ed io:

«L’attore di Hollywood? E come fece a conoscerlo?»

Poi chiesi stupito:

«Livraghi ha cantato in America?»

«No, niente America. Lo conobbe in via D’Azeglio, Pericle cantava a Palazzo Rusconi per una sfilata di moda. C’era a quel tempo, in quel palazzo, la famosa sartoria di Maria Venturi…abiti da sera bellissimi. Fu invitato a cantare delle romanze da salotto mentre passavano le mannequin… Musica Proibita, Ideale, Sogno. La sartoria aveva invitato non so quale marchesa e questa si presentò raggiante al braccio di Danny Kaye, che passava per Bologna»

E chiesi:

«Andò anche lei alla sfilata?»

«Macché, chi c’aveva i soldi per un abito elegante da stare in mezzo alla crème della società? C’erano le prime signore di Bologna! Così durante il rinfresco scoccò la scintilla tra i due».

«Il professore fece una tragedia greca. Un litigio che tremavano i muri»

«E come finì?», feci io incuriosito.

«Pericle disse che sarebbe andato fino in fondo, che avrebbe seguito il proprio destino e il proprio amore. Il professore  rispose che, se avesse continuato nel suo intento, si sarebbe buttato al piano di sotto. L’altro iniziò a ridere in maniera beffarda alla Paola Borboni. Il professore, allora, aprì la porta prese la ricorsa…e si fermò sul pavimento del pian terreno. Quattro costole incrinate, la spalla lussata e un femore rotto…»

Non riuscii a trattenere il riso.

«Se avesse aspettato una settimana non sarebbe finito al Rizzoli perché Danny Kaye prese l’aereo…senza nemmeno dire addio a Pericle dal finestrino». Il soprano del Comunale sembrò avere finito.

La signora Glorianna intercettò il mio sguardo facendosi il segno della croce.

Fui io, invece, a continuare il discorso.

«Il professore di chimica si chiamava forse Apolli?»

La signora Clelia sembrò vivificata da una scossa elettrica:

«Sì. Rolando Apolli…Lo conosce? E mi fa sgolare per un’ora?»

«Ma come fa a conoscerlo?»

«Non mi dica che pure lei…», aggiunse ridendo.

Risposi ridendo:

«Guardi che non gliel’ho mica chiesto io di raccontarmi ‘sta storia. Il professor Apolli insegnava nel mio Liceo. La Corinna è perfino andata a casa sua per delle ripetizioni di latino».

Nominata la Corinna, Turandot si calmò e fece un’espressione delusa. Sperava in  qualche cosa di sostanzioso, di qualche maldicenza piccante.

«Il professore organizzò un gruppo di studio sull’Otello. Fu lì che io e la Corinna lo conoscemmo. Non insegnava nella nostra classe. Apolli raccontò alla mia amica, andando a lezione, che conosceva tanti cantanti, in modo particolare Pericle Livraghi, un suo amico intimo»

Riprese sottovoce ma con grande concitazione:

«Macché amico intimo! Erano finocchi, se lo davano nel c…»

A quel punto la signora Glorianna, avendo sentito tutto, sbottò:

«Basta Clelia, la smetta di pronunciare queste parole! Pensa forse di vendicarsi facendo questi racconti? E’ passata tant’acqua sotto i ponti».

La Vannini sarebbe andata avanti ancora chissà per quanto.

Tagliai corto e dissi, salutando entrambe:

«Il suo racconto, signora Clelia, ha fatto quadrare un cerchio che mi portavo dai tempi del liceo».

Tornai a casa convinto che la signora Vannini avesse veramente amato Pericle Livraghi.

E l’impossibile amore della piccola Turandot era  in ghiacciaia, con lei.  Mai  svanito.

Tre millantatori all’Opera – Il soprano bolognese (Parte quarta)

Il venerdì successivo, sul tardi, ci saremmo dovuti incontrare per le prove.

Successe, però, che a metà del pomeriggio si levò un potente vento sibilante e gelido a cui seguì una nevicata memorabile come  mai avevo visto. Nel giro di poco tempo tutta la città si trovò bloccata da quaranta centimetri di neve. La mia casa per diverse ore fu rischiarata dalle luci tremola, La neve proseguì per tutta la notte e il giorno successivo.

Telefonai con comodo a Tullio, a metà del mattino, tanto la vita in città era ghiacciata. Tirai un fiato di sollievo: avremmo fatto la rappresentazione dopo ben due settimane.

«Con un po’ di fortuna» pensai «il diavolo infilerà le corna un’altra volta».

Invece le forze del male non mi aiutarono e andammo in scena nella scuola di periferia secondo le previsioni.

Durante i quindici giorni che succedettero la nevicata ci vedemmo alcune volte. Tullio decise di sfrondare la Serva Padrona di molti bongiorno-bonasera, cioè dei recitativi. Pensando di possedere una grande vis comica, e perché lo spettacolo non durasse troppo poco, compensò i tagli con l’entrata di Don Magnifico dalla Cenerentola rossiniana. Il Barone di Montefiascone non si sarebbe rivolto a Clorinda e Tisbe, ma a me ed Evelina, fratellastro e sorellastra di Cenerentola, Tullio allora aggiustò i versi di Jacopo Ferretti in «Miei rampolli mascolini e femminini, vi ripudio; mi vergogno».

Provai la parte muta di Vespone con una passione proporzionale alle note che avevo da cantare. Conoscevo molto poco La Serva Padrona, avendola ascoltata dalla radio solo per quel tanto da essere pervaso di noia e cambiare il canale. Non intesi colmare le mia conoscenza dell’operina per avere dei riferimenti musicali conosciuti, così imparai l’azione e i movimenti di Vespone-Capitan Tempesta a pappagallo.

Venne finalmente il giorno della rappresentazione in una scuola al Fossolo, un sabato dopo l’Immacolata Concezione.

Ci attendevano in classe venticinque bambini educati e silenziosi, seduti compostamente davanti ai loro banchi, con indosso dei grembiulini lindi, stirati di fresco, bianchi e azzurri. Dagli sguardi curiosi e più attenti di quelli del pubblico in teatro, si percepiva che erano stati ben preparati all’ascolto dalla loro maestra, la mamma di Tullio.

Quest’attenzione mi emozionò. Si sarebbero meritati ben altro che la nostra orchestra, un registratore a musicassette appoggiato su di una sedia, e le nostre ingenue esibizioni mimiche e vocali.

L’aria di Rossini scorse via senza intoppi. All’attacco di «mie rampolli mascolini e femminini» Tullio fece il cenno di avvicinarci e ci spinse con forza a sedere per terra. E li rimanemmo. Cantò con delle belle castagne in gola, sottolineando i versi con gesti esagerati, come se avesse innanzi un pubblico di sordi.

Evelina, trovandosi a cantare in una stanza assai ampia e piena di gente, pareva più afona del solito. Nell’Intermezzo di Pergolesi entrambi si dimenarono, come sempre, con molta disinvoltura.

Fui io, invece, colui che creò l’intoppo nell’esibizione: come qualche settimana prima, andai nel pallone, dimenticando ogni cosa di quanto avevamo concordato durante le prove. Mi arrangiai ridendo come un deficiente con delle facce alla Jerry Lewis.

Non so se avvenne il consueto miracolo della Prima o se fu la fortuna che soccorre gli audaci, ma facemmo un gran successo. Al termine, i bambini accorsero tutt’intorno in festa offrendoci le delizie preparate dalle mamme, imbandite sulla cattedra della maestra prima che arrivassimo.

Mentre ci rimpinzavamo di torte di mele e al cioccolato, di pinza e ciambella pensai che non sarei mai salito su un palcoscenico con i finimenti di scena indosso. A proposito delle attitudini personali, mi venne in mente il mio professore di analisi I, al termine di un esame, quando espresse a uno studente di astronomia, con un’ efficace metafora musicale, un pensiero che lo riguardava:

«Lei mi ricorda un violinista a cui mancano le mani…Ora, non c’è nulla di male non avere le mani ma, almeno, non faccia il violinista»! Insomma,la matematica non gli si addiceva. Così detto, gli restituì il libretto senza il voto.

Il professore ebbe l’occhio fino poiché lo studente non si laureò e, dopo qualche tempo, prese a piatire per le strade del centro, a mani conserte, supplichevoli, con testa per traverso.

“La preeego, mi aiuuuti, ho faaameee, sono sfortunaaato, sono molto poooverooo”, faceva con voce che proveniva da naso.

«Anch’io sono un violinista senza mani» mi dissi mangiando gli ottimi dolci «il palcoscenico non è roba per me». Ma per questo non mi misi a mendicare.

Dopo le feste natalizie riprese il tran-tran dell’università. Mi trovai assai oberato di impegni e cose da fare perché dovevo seguire sia le lezioni universitarie che studiare per gli esami. Inoltre, devolvevo ancora qualche spicciolo di tempo libero per una moderata attività politica nell’ambito della Sezione Universitaria Comunista, la SUC, in quei giorni mobilitata per le conseguenze dell’orribile rapimento di Aldo Moro. Gli altri due, al primo anno di università, erano un po’ più liberi di me, non avendo ancora in programma alcun esame.

Di rappresentare L’Elisir d’amore in classe non se ne parlò più o forse fingemmo di dimenticarcene. Oppure perché ci sentivamo appagati dei nostri pomeriggi lirici.

Prima di conoscere Tullio ed Evelina non avevo mai pensato che la musica potesse diventare un gioco.

Il divertimento principiava con una telefonata

«Ti va una scantarellata»?

oppure

«Ci facciamo quattro strilli»?

Prendemmo gusto a duettare opere disparate, assecondando ì gusti personali di uno o dell’altro: cantammo Tosca, I Puritani, La Traviata, Rigoletto, Cavalleria Rusticana, La Boheme, La Gioconda, Otello, Il Trovatore, Il Barbiere di Siviglia, Norma, Nozze di Figaro… All’occorrenza io passavo con molta spavalderia dalla corda tenorile a quella baritonale.

Cantavamo in allegria, per divertirci, tra stonature, stecche e raspini.

Pure Evelina cantava senza remore né timori e, soprattutto, senza la bella voce della registrazione, né si sentì mai alcun suono che la ricordasse alla lontana.

Un giorno che mancò il soprano privo di voce ritornai nuovamente sulla questione della registrazione.

«Chi ti ha dato il nastro cantato da Evelina?», chiesi al mecenate di Evelina.

«Edmondo. Lo ha registrato lui».

Dall’espressione capii che la domanda non fu gradita. Una domanda inutile. Pensai che Tullio, trovandosi coinvolto in un amorazzo con Evelina, non si trovasse nella migliore condizione di ascoltare con obiettività.

Qualcuno mentiva. O Evelina, o Edmondo. E Tullio, sostenendo caparbiamente questa storia, dava il vigore della verità alla menzogna altrui.

Allorché conobbi Edmondo, lo pseudo ragazzo di Evelina – che pure era amico di Tullio – il loro triangolo alla Jules et Jim mi parve non solo una cosa fuori dalla norma rispetto ai tre soggetti, ma perfino una incomprensibile cosa, illogica.

Pensai:

«Questa ragazza è scema».

Oltre a non corrispondere in alcun modo alla corte della ragazza, si aggiungeva che Edmondo aveva veramente poco da spendere quanto a bellezza. Non che Tullio fosse un adone, ma Edmondo era proprio inavvicinabile. Come poteva pendere dalle sue labbra, contemplarlo e dirsi innamorata di lui? Aveva capelli radi, crespi, rossicci e sopracciglia unite, barba arancione a chiazze sempre di tre giorni, denti piccoli e giallastri. Non molto alto, stava in piedi con una postura ingobbita che gli faceva sparire il sedere e rientrare il petto. Sceglieva degli abiti dimessi dai colori sbiaditi, fra cui un eskimo salmastro, abiti che avrebbero intristito anche Alain Delon. Parlava con toni saccenti, una specie di grillo parlante con la erre mouillé.

Tullio riconosceva ad Edmondo una grande autorevolezza per ogni cosa. Ogni qual volta parlava del rivale-amico catechista, alzava le sopracciglia atteggiando la bocca a culo di gallina «Edmondo dice che…», «Edmondo ha fatto…», «Edmondo pensa che…». Edmondo di qua, Edmondo di là. Le registrazioni fatte da Edmondo erano le migliori. Aveva gusti musicali esemplari: Tullio odiava Wagner ma, poiché piaceva ad Edmondo, diventava il più grande musicista di tutte le epoche del mondo. Ci mancava solo che, riportando i discorsi dell’amico, concludesse con un grave «ipse dixit».

Era palese che non avrei scoperto tanto facilmente l’identità del soprano registrato e quindi, per quieto vivere, desistetti nel ricercare la verità.

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