Tre millantatori all’Opera – Il soprano bolognese (Parte terza)

Tullio cercò insieme ad Evelina il nécessaire per cantare l’aria successiva. Apparve con un vecchio borsello a tracolla da cui spuntava una fiaschetta. Prese il cofanetto dell’Elisir d’amore dalla libreria ed avviò il disco all’inizio di «Udite, o rustici», brano che ben assecondò l’attitudine di Tullio a dimenarsi e sbracciarsi, come spesso accade quando si esibiscono i guitti dilettanti.

L’altra confessò d’avere una propensione non solo per i ruoli drammatici, ma anche per quelli dove il soprano uccide, sottomette con le cattive o prende a sberle, qualche maschio. Questa inconsueta scelta di ruoli metteva, ovviamente, Tosca al primo posto nelle sue preferenze, poi seguiva il Don Pasquale, la Rita e La Serva padrona. Cantò «Vissi d’arte» con Maria Callas in sottofondo.

«Ed ora tocca a te», mi disse Tullio. Le parole mal dissimulavano una sottile sfida, visto il poco convincente entusiasmo che avevo manifestato dopo l’esecuzione della Serva Padrona, entusiasmo non ravvivato dai nuovi pezzi cantati.

Decisi di buttarmi.

«Non potrò essere tanto peggio di loro», pensai lucidamente.

Scelsi di cantare «Una furtiva lagrima», la romanza presa dall’opera per cui ero stato scritturato da Tullio, L’elisir d’amore.

Partì sul giradischi la stessa edizione che ascoltavo a casa mia con Luciano Pavarotti.

Durante l’introduzione, sui suoni dell’arpa e del fagotto, avvertii un’incontrollabile accelerazione del cuore in mezzo al petto. Sentivo il fiato corto. Cantavo per la prima volta davanti a un pubblico, essendo io un cantante da vasca da bagno senz’altra pretesa di gloria.

Emettevo la voce macchinalmente senza udirla. Ero nel pallone e, terminato di cantare, sicuramente non avrei ricordato nulla.

Vidi che Tullio strabuzzava gli occhi e con la mano mi faceva dei gesti.

«Che c’è?»

«Non puoi cantare più piano?»

«Ma io non ho cantato forte», risposi leggermente stizzito.

Ricominciai la mia esibizione dalla seconda strofa. «I palpiti i palpiti sentir»…Tullio prese a dimenarsi sul divano! Le contorsioni erano le reazioni al mio canto. Ogni volta che producevo una nota più acuta, Tullio si contorceva come se avesse un commercio carnale con Evelina oppure un attacco di crampi da colite spastica.

Venne il momento della cadenza finale. Sulle parole «di più non chiedo…si può morir…si può morir d’amor», anticipando gli acuti, Tullio alzò un piede e, con le mani, fece il gesto di ripararsi.

Ed io pensai:

«Fai pure il cretino, cocco, ma intanto tu e l’altra non c’avete voce nemmeno per chiedere aiuto! Ma che coraggio…»

Tullio dovette spendere qualche parola sul mio canto:

«Mamma mia! Non hai certamente una voce pallente,hihihi… Dovresti cantare I pagliacci», senza avere intenzione di esprimere alcun complimento. Un modo gentile per esprimere che ero come un elefante in una cristalleria.

Un’idea mi indubbiò:

«E se le mie orecchie  sentissero cose differenti dalle loro orecchie?», domanda che ogni cantante di carriera o dilettante si dovrebbe porre.

In quel momento non avevo tempo per rispondere e, per sopravvivere a quel momento, mi dissi:

«Io non sarò stato di loro gradimento, ma loro entrambi non sono piaciuti a me: due contro uno».

Venne da ultimo il duetto tra Nemorino e Dulcamara. Tante risate e battute scherzose, ma non andammo oltre la metà, perché troppo complesso da eseguire ad orecchio.

«Vorrei andare in scena sabato prossimo. Quando facciamo le prove della Serva Padrona?»

Tullio mi prese alla sprovvista.

Il mio impresario aveva capito che, se fossi arrivato a casa in balia di me stesso, i suoi piani – la stagione lirica nella classe della madre – sarebbero andati a catafascio.

Tanto controllato nel comportamento e come persona, mi sono sempre lasciato coinvolgere dalle passioni, invece, senza misura né freni. E la musica fu la prima passione, la più intensa. Pur coltivata da mio padre durante l’infanzia, esplose solamente in piena adolescenza.

Negli anni ’70, però, se un ragazzo tra i quindici e i vent’anni avesse voluto condividere con i coetanei questa passione senza frequentare il Conservatorio, non avrebbe avuto vita semplice. Poiché la musica ha un potere fortemente aggregante e identitario, l’amore per opere e sinfonie mi comportò, in questa fase della vita, un po’ di solitudine. Dall’età di quindici anni presi ad andare spesso a teatro. Quasi sempre da solo.

Avevo sì e no due amici con cui condividere le mie frenetiche scoperte musicali.

Il primo era un ex compagno delle scuole medie che ascoltava esclusivamente musica sinfonica. Frequentava l’istituto per geometri. Si ritirò presto dagli studi e andò a lavorare. Si sposò ed ebbe due figli. La vita dileguò in fretta ogni sua passione giovanile.

La seconda era una compagna di classe al Liceo a cui prestavo i dischi e le registrazioni che facevo dalla radio. Si interessava, però, solamente a una parte delle musiche che ascoltavo.

Sentita la richiesta di Tullio, mi guizzarono in mente i pomeriggi autunnali passati in casa ad ascoltare dischi da solo e allora risposi senza riflettere troppo:

«Potremmo vederci venerdì pomeriggio»

Tullio ed Evelina avrebbero più che raddoppiato il mio sparuto giro di amici appassionati per la musica lirica! E, forse, ne sarebbero arrivati degli altri.

La sera Tullio mi telefonò, per fare qualche chiacchiera sul pomeriggio trascorso insieme. A un certo punto gli domandai:

«Evelina riesce a cantare più forte?»

E lui:

«Non so. Io l’ho sempre sentita così».

Tre millantatori all’Opera – Il soprano bolognese (Parte seconda)

Prima di recarmi da Tullio e, soprattutto, dopo l’ascolto della registrazione dell’aria verdiana – ardua prova per ogni cantatrice – sentii una discreta agitazione. Avrei conosciuto un soprano in carne e ossa condannata a fare una carriera nei grandi teatri!  Temevo che se la sarebbe tirata, di trovarmi davanti una femme fatale, e che l’emozione m’avrebbe fatto un brutto scherzo tanto da sentirmi in imbarazzo sino a diventare inopportuno.

All’occorrenza, pensai, mi sarei tolto da ogni impaccio facendole dei complimenti sperticati.

Le mie ansie anticipate ebbero requie fin dai primi istanti. Più che un fascinoso soprano con le camelie della Valery tra le mani, Evelina pareva perfetta per montare cucine componibili con cacciavite, trapano e seghetto elettrico.

L’imbarazzo temuto mi sopravvenne imprevedibilmente non per il divismo sopranile di Evelina.

Dal loro atteggiamento pareva chiaro che i due avessero una relazione sentimentale o, per lo meno, carnale. Tullio si sedette sul divano ed Evelina gli salì sulle ginocchia. Lui prontamente la avvolse con i suoi tentacoli e prese a toccarla lascivamente. Mentre Tullio le accarezzava certe parti del corpo, il giovane soprano lasciava fare. Mi mise a disagio l’eccessiva esibizione di sensuale intimità – odio le coppiette che amoreggiano per strada, figuriamoci se questo capita proprio davanti ai miei occhi!

Come se niente fosse, mentre l’altro toccava, Evelina giunse a parlare di Edmondo, quello con cui condivideva gli insegnamenti in parrocchia, colui che sarebbe stato il proprio ragazzo, insomma. Con grande naturalezza, Evelina si aprì dicendo di amare il catechista ma quello  ancora non decideva di fare il primo passo. La ragazza sacrificava i propri pomeriggi stando a guardare Edmondo chino sui libri universitari senza che le rivolgesse almeno uno sguardo. Putain amoureuse ou femme désappointée?

Non sapevo se prendere sul serio le mie orecchie o i miei occhi.

Tullio non era molto cambiato rispetto a due anni prima: occhi chiari dallo sguardo penetrante, naso importante, alto con le gambe a X, fisicamente non trascurabile, portava i capelli castani all’indietro, un poco mossi e sbiaditi. Aveva modi leziosi, effeminati, in contrasto con la sfacciata inverecondia che ora dimostrava con l’amica cantante. Questo suo aspetto era nuovo perché, al liceo, mi sembrava tutt’al più un tipo da Azione Cattolica.

E giunse il momento di cantare.

Tullio mise sul giradischi La serva padrona.

Et voilà, l’orchestra partì, insieme al tedio che questa musica mi procurava.

Zìn-zin-zin Zinzin zin Zinzin zi-in, principiarono a saltellare gli archi e il basso continuo.

La voce di Tullio sembrava provenire dalla gola di un vecchio: non brutta di timbro ma opaca, gutturale, ingolata, senza alcuna luce, un poco catarrosa. Esattamente l’opposto delle voci esuberanti e squillanti che piacciono a me.

Arrivò il momento dell’Aria di Serpina. Finalmente avrei ascoltato la Diva!

Dalla gola di Evelina non uscì la voce radiosa della registrazione ma un suono esiguo e privo di ogni smalto, come se avesse una forte afonia oppure se quello fosse il giorno successivo ad intervento chirurgico sulle corde vocali.

«Starà male» pensai «Eppure, per parlare la voce ce l’ha. Anzi starnazza per bene»

Non dissi nulla, i due continuarono a cantare e a dimenarsi con l’unica interruzione per girare il disco, ma la voce del soprano non veniva fuori.

Sui «Tippitì…tippitì…tippitì» del finale fece una bella stecca, allorché disse senza scomporsi:

«Toh, mi è venuto un raspino. Lo rifaccio!», con serio tono professionale.

Capii che quanto aveva cantato fino a quel momento l’aveva soddisfatta.

Tullio tornò indietro con il disco e lei riprovò. Nulla.

«C..zzo, c’ho proprio un catarrino lì che non si muove neanche a morire!», schiarendosi la voce.

Riprovò e qualcosa uscì:

«Teppetòoo…teppetòoo…teppetòoo…»

Evelina sorrise con soddisfazione:

«Ora sì, è venuto»

Nel finale d’opera ci fu un ritorno all’antefatto già visto poc’anzi: Il conte Ubaldo si mise su una sedia e la segaligna Vespina si sedette sulle sue ginocchia. E lui riprese a toccare.

Tullio, allora, mi chiese:

«Che ti sembra?»

Al termine di qualsiasi esibizione il pubblico manifesta il proprio gradimento. Ma io che avrei dovuto rispondere? Non sapevo cosa avessi ascoltato, se una cantante ammalata o chi altro.

Riuscii solo a dire:

«Beh, siete stati divertenti. No?»

(Continua)

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