Tre millantatori all’Opera – Lezioni di canto (Parte terza)

Cantai delle scale discendenti, giù giù, fino a che m’era possibile intonare le note. Avevo una discreta facilità nel registro medio e grave.

Mantovani aggrottò le sopracciglia, si grattò vicino al bordo del parrucchino. Sembrava aver acquisito l’ultimo elemento necessario per esprimere il suo giudizio.

Si riempì d’aria, scosse la testa risolutamente. Doveva affrontare un discorso difficile.

«In sincerità, non me la sento di pestar ancora acqua nel mortaio. Abbiamo fatto diverse lezioni ma i miglioramenti sono stati pochi. Io vorrei che tu provasti a cantare come barittono».

Suonò un mi e un fa al pianoforte:

«Queste note, per te, dovranno essere degli acuti, non note di passaggio. Il suono sarà giusto, più gradevole, anticipando il passaggio di registro come fanno i barittoni smetterai di strozzarti. Tu sei un barittono, insomma».

E proseguì con la sua ‘pillolina’:

«Per il tenore, invece, il fa è il principio di una scalinata che porta ai piani alti fino al solaio. Un tenore non può faticare su di un fa. Tu ora su queste note fai un trasloco! Sta attento: Mi-aaaaa… Mi-aaaaa…Mi-aaaaa… Senti com’è tutto semplice per me? È dolce come se cantassi una frase di romanza. Ora prova tu, canta, canta mo’ da tenore».

Ripetei il vocalizzo.

«Avverti qualche differenza tra me e te?»

Una domanda retorica. C’era tanta differenza! Il vocalizzo eseguito da me era indubbiamente faticoso, con suono aperto, non ben controllato.

Era un trasloco, appunto.

«Queste note sono così spapellate…perchè te non sei micca un tenore».

E il maestro di canto rimpolpò ulteriormente le sue argomentazioni per straconvincermi:

«Su queste note un vero tenore deve cantare romanze su romanze con facilità. Il barittono qui, tra il fa e il sol, invece, è quasi arrivato al capolinea, ci fa solo degli effetti. Prende gli applausi e si cucca i soldi».

Suonò le ultime note di Celeste Aida:

«Questo per me è un acuto…un trono vicino al soooool, un trono vicino sooooooooooool» e smorzò il si bemolle, tenendolo fino a che diventò rubizzo.

«Oddioddio me…che capogiro!»

Sembrò stramazzare per terra. Fece un po’ il guitto. A Mantovani piaceva condire i propri gesti come se fosse su di un palcoscenico.

Si riprese e continuò:

«Se dovessi cantare sempre in questa zona sarebbe per me…come inghiottire della ghiaia senza berci dietro almeno un bicchier d’acqua! Rendo l’idea? Ahaha»

«È un metafora assai efficace», risi anch’io.

«Metafia? Che cos’è? Me lo spiega lei, signor letterato?», fece con sguardo furbetto, bonariamente sfottitorio.

«Una specie di paragone», risposi, nuovamente ridendo, tagliando corto.

E gli chiesi a mia volta:

«La mia voce non è per caso troppo chiara per essere un baritono? A me disturbano certi cantanti troppo corti per essere tenori e troppo chiari per essere baritoni!»

I Francesi designano in maniera curiosa, ma precisa ed efficace, queste voci che hanno caratteristiche di entrambe le corde vicine, cioè che non sono né carne né pesce rispetto al colore vocale e all’estensione: usano il cognome del cantante ritenuto capostipite di quel tipo vocale o che ha dato ad esso un’adeguata notorietà.

I mezzosoprani dalla voce lunga, potente e squillante vengono così denominati ‘falcon’, in onore di Cornélie Falcon, creatrice dei più bei ruoli del Grand Opéra. I falcon potrebbero però essere anche dei soprani dalla voce bronzea nei centri, ideale per le parti verdiane.

Per i cugini d’Oltralpe ci sono anche i soprani ‘dugazon’. Nel diciottesimo secolo, Madame Dugazon fu il nome d’arte con cui si fregiò un’artista tuttofare, un po’ cantante un po’ ballerina e un po’ attrice, presunta antesignana delle soubrette corte, dotate di un registro centrale vagamente mezzosopranile e con scarsa polpa vocale.

Jean-Blaise Martin fu, invece, un baritono che cantò a cavallo del ‘700 del ‘800. La Francia è terra di baritoni ‘martin’ che si distinguono per un timbro quasi tenorile e, se dotati di buona tecnica e da buone stelle, per la facilità nell’emissione degli acuti.

Io sarei stato forse un baritono ‘martin’?

Orrore!

Mantovani rispose prontamente ai miei dubbi sull’identità vocale:

«La voce funziona come una coperta che non riesce a coprire le spalle e i piedi al contempo. Se la tiri in alto si scoprono i piedi, se la tiri verso il basso si scoprono le spalle. Dai e dai, tira e tira la coperta verso l’alto, la tua voce si è schiarita. Hai voluto fare il tenore perché ti piace, per divertimento. Ma, volendo studiare seriamente, devi sapere che la tua voce appartiene a un’altra razza. Se lasceremo perdere gli acuti, se lasceremo fare alla natura, pian piano la coperta si sposterà da sola e uscirà il colore giusto da barittono, verrà fuori la tua vera voce».

Chiuse il pianoforte.

Questo gesto parve significare:

«Basta coi sogni!»

Un sordo tonfo dello sportello fu il commiato alle mie aspettative tenorili.

«Allora, per oggi abbiamo finito. Signor letterato, ora sta a te. Sammi dire quello che intendi fare, se vuoi continuare a studiare da barittono».

Stavano davanti a me due strade: o salutare le lezioni di canto, ostinandomi a fare il tenore, oppure indossare i ‘vili panni’ del baritono.

Il saggio maestro di canto, a mano a mano che parlava, sempre più mi convinceva. Avevo fiducia di quell’uomo.

La decisione mi parve scontata: non potevo che incamminarmi per la nuova strada.

Ritornai casa non pensando più al canto. Ed ero perfino allegro convinto di aver fatto una buona scelta.

Avendo una fame da lupo, mi misi a tavola di gran furia.

E driiiiinnn!

Il telefono suono più che mai sincronizzato con la mia cena.

Era Tullio. Per la mezz’ora di Radio Serva.

«Novitàaa?», mi chiese secondo il rodato copione.

Di novità ne avevo, quella sera. Eccome che ne avevo!

Dimenticando l’uggia famelica, raccontai per filo e per segno quanto era successo poco prima durante l’ora di canto con Mantovani.

Tullio ascoltò con grande interesse ma, al termine del racconto, mi fece girare le scatole con la sua insopportabile saccenteria:

«Certo! Ho sempre pensato che tu fossi baritono. E sei calante per questa ragione».

Usò un tono severo e cinico che, più eloquentemente delle parole dette, sembrava voler esprimere:

«Finalmente qualcuno te l’ha cantata per bene!»

Quella volta mi ferì più per il tono adoperato che per il significato delle sue parole.

L’avrei mandato a quel paese ma dovetti controllarmi per non mandare a monte una buona amicizia, seppur segnata da alcune insofferenze caratteriali, soprattutto da parte mia.

E gli risposi risentito:

«Perché hai lasciato passare tutti questi anni senza dirmi ciò che pensavi? Dovevi proprio attendere l’occasione delle lezioni con Mantovani?».

Mi infastidisce chi non trova mai i toni giusti per raccontare la verità – la cosa più difficile da tradurre con giuste parole. Mi infastidiscono, del pari, certi ‘grilli parlanti’ che, al compimento dei fatti, confessano d’aver capito, fin dall’inizio, tutto quel c’era da capire. Quante scarpate tirerei a questi grilli! Inutili Cassandre del giorno dopo!

Tullio, invero, le sue ‘cosine’ sulla mia voce le aveva grossolanamente manifestate dacché mi ascoltò per la prima volta. Le sue ragioni – la verità, insomma – però, infastidendomi, essendo malamente espresse, rimbalzavano su di me.

Era una questione di scarsa sensibilità per la mia sensibilità.

Dopo la mia risposta seguì un istante di silenzio imbarazzato e, poi, Tullio fece orecchie da mercante fingendo falsa disinvoltura:

«Altre novitàaa?»

Non avevo certamente intenzione di continuare a fare Radio Serva, tanto meno di discorrere su me stesso. Liquidai in fretta Tullio, quella sera più che mai irritante.

Dopo la cena presi fuori dalla libreria il cofanetto de I Puritani e posi il primo disco dell’opera sul giradischi. Anziché cantare sugli acuti siderali, tenorilissimi, di A te o cara, cantai l’entrata di Riccardo Forth. Tanto bella quanto lagnosa.

E tanto baritonale.

Ha!, per sempre io ti perdei

Fior d’amore, o mía speranza

Ah! La Vita che m’avanza

Sara piena di dolor!

Quando errai per anni ed anni

In poter della ventura

Io sfidai sciagura e affanni

Nella speme del tuo amor

Mi pareva di passare da una generosa fetta di cassata siciliana, un piacere per il palato e per gli occhi, ad una mesta cucchiaiata di tiramisù dell’amico Celestino – fatto con i pavesini male imbevuti, conditi di una crema al mascarpone assolutamente insapore e inodore.

Dopo questa romanza, per provare il piacere di quando si addenta una bella porzione di pinza montanara ripiena di sapida mostarda bolognese, presi fuori i Pagliacci per cantare il Prologo, manifesto del verismo in musica:

E voi, piuttosto

che le nostre povere gabbane d’istrioni,

le nostr’anime considerate,

poiché siam uomini

di carne e d’ossa,

e che di quest’orfano mondo

al pari di voi spiriamo l’aere!

Il concetto vi dissi…

Or ascoltate com’egli è svolto.

Andiam. Incominciate!

E’ facile immaginare quanto meno faticassi cantando gli acuti del Prologo – il la bemolle di ‘al pari di voi’ e ancor meno con il sol di ‘andiam, incominciate’ – rispetto alle impervie scalate sul pentagramma tenorile di Arturo nei Puritani o di Arnoldo nel Guglielmo Tell.

Tutto appariva senz’altro più comodo.

Ma l’umbratile colore baritonale non c’era.

Telefonai a Rufo.

Con il passare delle settimane avevamo preso a vederci e a sentirci senza la mediazione di Tullio. Il Deus ex machina si trovò messo un poco in disparte. E questo parve un boccone duro da digerire per colui che ci aveva presentato. Ben presto nacque tra noi una divertente complicità.

« cosa vuol che le dica scior Rufo, è così, insomma…Non invecchi mica sa?», esordii con un tormentone, il verso a Donna Fernanda.

«Non puoi immaginare cosa è successo a lezione con Mantovani!»

Pensavo di fare il botto, di stupire il mio interlocutore…e invece Rufo sapeva già tutto! Mantovani l’aveva chiamato subito dopo che ero uscito.

Che Rufo fosse stato l’oscuro artefice del mio passaggio da tenore a baritono?

Che avesse convinto Mantovani e questi avesse convinto me?

Gli sciorinai ugualmente il resoconto della giornata però con maggiori dettagli. E con i miei dubbi.

«Insomma, seguendo i consigli di Mantovani vedrai che andrà tutto per il verso giusto. Per ora sei ‘tenoritono’ ma diventerai baritono», mi fece Rufo con tono sicuro e rassicurante. E continuò in maniera leggera:

«Ma che bello! Potremo cantare insieme i tre duetti della Forza del destino!»

«Se è per questo, ci sono i due dei Vespri Siciliani» dissi io.

«E non vogliamo fare quello del Don Carlos, dell’Otello, della Lucia, della Gioconda? Mi sa che ci divertiremo più di prima! Non ci sono molti duetti per due tenori, », concluse Rufo.

L’amico tentava di rendermi più attraente la corda baritonale: si allontanavano da me le romanze più belle perché i musicisti sembravano aver riservato per i tenori la migliore ispirazione. Addio agli amorosi, agli eroi, ai cavalieri, ai poeti.

Ai baritoni rimanevano nobili azzimati, padri, amanti cornuti, qualche cattivo e i buffi. Una folla di personaggi meno affascinante per sognare.

Iniziò una nuova routine di studio. L’invito del maestro fu, innanzitutto, di non cantare più romanze tenorili. Mantovani avrebbe pure voluto, per un po’ di tempo, che mi fossi astenuto dal cantare le romanze baritonali fino a quando non fossi stato «pronto».

Ma facevo di testa mia.

Dovevo controllare se le cose cambiavano rispetto al passato.

Aveva ragione Mantovani. La voce si riappropriò della sua natura, come un torrente che, passata la piena per un temporale, riprende in poco tempo il proprio corso scavat.

Esercitandomi da baritono, non riuscii più a cantare come tenore. Steccavo tutti, ma proprio tutti, gli acuti di cui, fino a poco tempo prima, io solamente ero tanto orgoglioso!

Temendo che la mia nuova voce di baritono smarrisse i minuscoli progressi, Mantovani non accennava a che provassi cantare delle romanze intere. Solo qualche frase, e nemmeno troppo impegnativa.

In un certo pomeriggio, però, sentii la necessità di un cambiamento prima della fine di quel giorno stesso.

Dovevo imparare a fare questo benedetto passaggio di registro.

Dovevo arrotondare la voce perché risuonasse come sotto ad una cupola di una chiesa.

Dovevo abbottonare il suono per ottenere un timbro baritonale come una vecchia marsina di mezza stagione.

Dovevo tirare fuori una voce scura, a costo di rimanere afono, una volta per tutte.

Presi allora i dischi del Boris Godunov e cantai la scena dell’Incoronazione con il libretto sotto gli occhi, per leggere il russo traslitterato.

Skorbit dusha! È triste l’anima… Cantai e ricantai di tigna.

E un colore di voce scuro alla fine uscì. Avevo imparato ad aprire la gola come si comanda facendo risuonare la voce nel petto, la più grande cassa armonica che l’ uomo possiede.

Provai una, due, tre volte. Il suono usciva sempre uguale. Bello? Brutto? Che importava? Imitando un basso sembravo un baritono vero, non un inutile baritono ‘martin’.

Avevo trovato la strada? Mi pareva perfino riuscir a ‘girare’ il suono nella maniera giusta!

Avevo forse capito come fare il passaggio di registro?

E Rufo, a cui feci ascoltare i miei tentativi in anteprima, seduto al pianoforte, approvò con un entusiasmo… controllato. Rimaneva in attesa dell’approvazione di Mantovani:

«Mi sembra che il ‘giro’ sia giusto. La voce è senz’altro più scura».

Capii che ero migliorato, ma meglio non voleva dire bene.

Mantovani sembrò più stupito di Rufo per la metamorfosi:

«Non so micca… Oggi hai un’altra voce. Ma cos’hai fatto? Sei stato miracolato? Va molto meglio, è più nella linea»

Non gli narrai delle alchimie casalinghe come basso, sperimentate qualche giorno prima, né le avrei mai raccontate a nessun altro.

Un segreto di cui sarei stato l’unico depositario.

Tre millantatori all’Opera – Gnocco fritto e vecchi merletti

«Dov’è andato mai a rifinire? E pure era qui…non so, non so micca. Quando si cerca, la roba non salta mai fuori!»

Mantovani borbottava stizzito mentre scartabellava con affanno in una pila di spartiti messa sul pianoforte.

Rimestando le arie da opera, ribaltava le bamboline come se fossero birilli e, a mano a mano, rimetteva in piedi le sue ‘bambine’ nella loro immutabile posizione come i pezzi sulla scacchiera, con affettuosa acribia maniacale.

Trovato il foglio di musica in mezzo ad un altro, potei infine cantare La Fleur que tu m’avais jetée dalla Carmen di Georges Bizet, una delle più belle romanze per tenore. Scelsi quest’aria senza un motivo particolare, non perché avessi pensato di figurare meglio. Forse per l’amore sconfinato che ho per quest’opera. La metterei tra i sei capolavori da salvare in previsione del Diluvio Universale.

Non essendo pianista, Mantovani con l’indice destro faceva il tastino, cioè suonava la melodia che stavo cantando per controllare l’intonazione, mentre con l’indice sinistro mi dirigeva, dandomi gli attacchi, il legato e l’espressione.

Tutto questo inutilmente.

Seguivo me stesso.

Terminai la romanza e Mantovani si rivolse a Rufo:

«Sì…C’è da lavorare un po’, ma il materiale vocale non manca…» confermò, sembrando riferirsi a un discorso iniziato con Rufo prima del mio arrivo. E quindi mi guardò in faccia:

«Mi raccomando, quando canti fa’ attenzione…ci vogliono le ‘erre’. Specialmente all’inizio ed alla fine delle delle parole devono suonare per bene. Quarantamila ‘erre’…la ‘erre’ mette avanti il suono».

Intendeva che nel canto la ‘erre’ deve uscire sempre ben arrotata essendo una consonante che induce ad emettere la voce correttamente. Arrotando la ‘erre’, il suono apparirà più presente e meglio proiettato verso chi ascolta, sarà particolarmente grato all’orecchio e, talora, anche più espressivo. Nelle parole tronche la ‘erre’ deve prolungare il suono come un’eco mentre le ‘erre’ poste all’inizio anticipano il suono cantato sulla vocale. Tutti i grandi cantanti seguono questa regola.

Le mie ‘erre’, invece, stanno ben rintanate in un mondo astruso, fantastico, insieme all’ippogrifo, la manticora e il liocorno: insomma, non riesco a pronunciare questa consonante nemmeno se qualcuno mi pagasse profumatamente. Sono completamente bleso. La mia povera lingua non riesce a vibrare contro i denti, rimanendo ferma, inerte, rigida come un insipido pezzo di bollito senza salsa verde. Sostituisco questa bellissima consonante con una sorta di masticazione del vuoto. Il risultato? Un suono liquido, sfuggente. Sordo.

Quali difficoltà incontro nel pronunciare, per esempio, ‘carro armato’!

Nè il francese giova ai blesi totali come me.

E nei versi della Romanza del fiore appena cantati, messi in bocca a Don José da Henri Meilhac e Ludovic Halévy, le ‘erre’ abbondano!

A ben pensare, ora mi rendo conto quale retrogusto da profetico sillogismo avessero le parole di Mantovani. Esprimevano che avrei dovuto raggiungere una meta per me irraggiungibile, possedendo un difetto di pronunzia senza cura. Non sarei mai potuto diventare, insomma, un buon cantante.

A parte le ‘erre’, eseguii dunque l’Aria del fiore senza troppi traballoni. Voglio dire: né meglio né peggio del solito. Tullio avrebbe senz’altro espresso, con tono fermo, ben altro parere, cioè che ero stato inascoltabile.

Mantovani non delineò, invece, alcuna catastrofe. Se, da un lato, non mostrò entusiasmo per l’esecuzione della romanza, dall’altro, nemmeno la disapprovò apertamente. La mia voce forse non lo aveva colpito, forse non gli aveva suscitato tante sorprese essendo stata preceduta dall’accurata presentazione e dalle premurose raccomandazioni di Rufo affinché Mantovani mi prendesse a lezione. Mi aveva considerato suo allievo di canto prima di ascoltarmi, prima che suonassi alla porta? Fu un’audizione pro forma?

Gli domandai quale fosse il suo compenso. Cinquemila lire a lezione. Una richiesta modesta, ragionevole. Adeguata all’aleatorietà che caratterizza la buona riuscita nell’apprendimento del canto. Pur ancora studente, era una spesa che potevo permettermi. Mantovani, allora, prese l’agenda e concordammo il giorno della prima lezione.

Dalla cucina s’udì un’agitata voce femminile, dal timbro altisonante di una semidivinità della tragedia greca. Esibiva un forte accento modenese e questo ne ridimensionava il carattere di personaggio tragico:

«Florianooo, dove vai? Mi fai la puntura prima d’andare a cena?»

Mantovani si imbarazzò per questa intrusione indesiderata e rispose per traverso, sbuffando:

«Mamma, sono le sei e quaranta, dove vuoi che vadi?». Quando gli capitava di parlar forte, Mantovani impostava la voce come se dovesse cantare.

Si rivolse a noi con lieve imbarazzo spiegando quello che già avevamo capito:

«È Donna Fernanda, la mammetta. Devo farci un’iniezione…aspettate un momento».

E continuò pacatamente:

«Mamma, vieni qua che ti presento il mio nuovo allievo»

«C’hai un nuovo pirolino a lezione, Floriano? Non me lo avevi micca detto», osservò la mammetta invisibile, al di là della porta.

E lui, con poca pazienza:

«Ma che ragionate fai, mamma! Come potevo dirtelo se Rufo me lo ha presentato solo poco fa!»

«Aaaaah…Floriano, l’ha portato il scior Rufo?»

«Sì mamma, vieni che te lo presento…è un letterato!», alzando gli occhi al cielo.

Alla fine di questo dialogo a distanza, ci venne incontro Donna Fernanda ciabattando lentamente. Teneva una mano sulla schiena e l’altra contro il muro per non sbandare poiché soffriva di vertigini. Salvo il colore e l’acconciatura delle parrucche, madre e figlio sembravano due pere raccolte dallo stesso albero, solo che una era più matura dell’altra.

Il volto di Donna Fernanda luccicava per la Leocrema, liscio come quello di un bambolotto in celluloide. Non aveva una ruga. Le sopracciglia venivano suggerite da una linea sbiadita di matita marrone, mentre gli occhi erano fissi, capaci di due sole espressioni: spalancati o chiusi. Vegliare o dormire.

«Aaaaah? Ma Floriano, hai fatto gli onori di casa? Ci hai offerto un bicchiere di qualcosa a questi tuoi pirolini

«No grazie, signora Fernanda, è tardi, ora dobbiamo andare», rispose Rufo anche per me, mal frenando il riso.

«Floriano di’ bene che non faccino mica dei complimenti…avete sete, gradite un bicchier d’acqua, un vermutino, un cinzanino? Sa, sior Rufo, che l’acqua da sola a me mi fa male? Mi si blocca nello stomaco. Vero Floriano? Per digerirla devo sporcarla con un mezzo dito di vino rosso!».

Donna Fernanda e il figliolo cantante avevano strani stomaci e strane consuetudini alimentari. Seguivano un regime pernicioso per la maggior parte degli esseri umani. Si vantavano di preparare, ad esempio, un eccellente gnocco fritto, come dicevano essendo modenesi. Anzi il gnocchino.

Una pasta simile a quella del pane, fritta, che accompagna delle belle fette, sottili per esaltarne il profumo, di prosciutto, mortadella, salame, coppa, pancetta, formaggi molli e stagionati. Si mangia tutto con le mani. In allegria. Guai mai le posate!

Il nome bolognese di questa deliziosa pietanza è, invece, ‘crescentine fritte’.

Intorno alla declinazione dello gnocco fritto strologata da Mantovani e dalla sua mammetta si sarebbe potuto perfino girare un film dal titolo ‘Gnocco fritto e vecchi merletti’. Quasi una pozione velenosa, era una roba da mangiare degna di Mitridate, esiziale per i dispeptici e soggetti fegatosi, soprattutto perché, secondo l’uso in casa Mantovani, costituiva il nucleo della cena.

Il gnocchino ovvero le crescentine, dischi di pasta di pane setosa, grandi come un piattino da dessert e distese con il matterello, erano fatte con poco, acqua, farina, un po’ di latte e olio, lievito, un nulla di sale. I due irrobustivano vivacemente l’impasto con qualche cucchiata di strutto. La cottura, fritte in altro abbondante strutto, avveniva in una padella di ferro pulita solamente con la carta gialla. Pareva un oggetto pervenuto da generazioni remote, forse appartenuta a qualche alchimista modenese, tant’ era annerita.

Cotte le crescentine, dorate, apparentemente alleggerite da bolle e rigonfiamenti, i Mantovani passavano a preparare un esiziale e indigeribile companatico. L’ampia varietà di salumi e formaggi delle terre emiliane non soddisfacevano per intero i rustici gusti dei due.

Occorrevano delle uova strapazzate nello strutto avanzato dalla frittura degli gnocchini.

Ma anche questo non pareva sufficiente per placare l’appetito dei due moloch modenesi.

Nella padella di ferro veniva rosolato, con un mezzo dito di strutto, del lardo a striscette sottili. Con questo lordo liquido grasso, vischioso, abbrunato, finale trasmutazione di nobili elementi, veniva condita una terrina di radicchi verdi. Inoffensivi doni della natura, diventavano indigeribili macchine da guerra contro i succhi gastrici.

Affrontare una cena a base di gnocco fritto in casa dei Mantovani, innaffiata abbondantemente con lambrusco, costituiva una vera sfida all’apparato digerente e al buon sonno notturno. Chi arrivava vittorioso alla mattina successiva senza ausilio di canarini e turbe notturne, dava prova di incontestabile efficienza fisica.

Avvenne però che, molti anni prima dei fatti qui narrati, quando né la mammetta né Floriano ancora si abbellivano con parrucche e toupet, entrambi ebbero una severa infiammazione alle mucose della bocca. La lingua si era talmente gonfiata e coperta di tagli e afte che riuscivano a parlare malamente.

Non ci volle una grande anamnesi per trovare il bandolo del mistero: i due confessarono al medico incredulo d’aver cenato per un mese intero, ogni sera, con il gnocchino fritto nella loro mitridatica versione!

Come il volto della signora Fernanda durante il giorno era immutabile anche la voce non pareva da meno: il tono grave, monocorde e olimpico trovava nelle pause tra una frase e l’altra le uniche variazioni d’espressione. Alla fine dava l’impressione di rivolgersi ad un robot parlante con la parrucca bionda.

Donna Fernanda diede un saggio consiglio mentre il solerte tenore l’accompagnava in cucina a braccetto:

«Eeeeeh, sior Rufo sentisse quanti cric crac mi fanno le ossa…Non diventi micca mai vecchio. Sa?».

Come dare torto a Donna Fernanda ?

Io e Rufo avevamo le lacrime agli occhi. Stavamo reprimendo troppe risate.

E Mantovani, ritornato dalla cucina, si rivolse a me:

«Secondo te, quanti anni c’ha la mia mammetta

Solo gli sprovveduti fanno domande sull’età, partendo sempre dalla convinzione che gli anni siano portati egregiamente.

In questi casi, prudentemente, è sempre meglio esprimerne un numero assai minore rispetto a quanto par di vedere.

«Mah…penso che ne abbia un’ottantina!», risposi pensando di stare scarso.

E Mantovani fece un’espressione compiaciuta:

«Ne ha ottantuno! Li porta bene! Vero?», rispose lui con gli occhi pieni d’amore.

«Sì, sì, molto bene», annuimmo io e Rufo all’unisono.

In preda alle convulsioni, scendemmo le scale di corsa per ridere liberamente in strada, senza essere visti dal nostro maestro.

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