Il Tempo e Le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte decima

Il seffúr al volante della Balilla, presa nella stazione ferroviaria di Vergato, condusse il Mago a un’impervia collina per togliere il malocchio dalle stalle di un contadino con incenso, sale grosso, briciole di pane raffermo, foglie d’olivo benedetto bruciato su della carbonella ardente, quindi si fece accompagnare alla casa di Emma. Per Bruna i giorni erano passati senza cambiamenti o accadimenti particolari ovvero secondo il consueto trantran da Cenerentola.  E pensava, e chiedeva a Emma: «Chissà se lo stariån mi porterà quella roba?» «È un uomo di parola: quello che dice fa.» Riccardo rivolse il pensiero a Bruna assai sovente nelle quattro settimane trascorse. La ragazza diventò un chiodo fisso in testa. A qualsiasi amico nella stessa condizione avrebbe consigliato di prendere una strada più consona alla sua età, di abbandonare, di fuggire. Eppure non era solo un anziano uomo senza futuro, vedovo, senza figli, sfiduciato, che desiderava la linfa vitale della giovinezza di Bruna, non era attratto solo dalla sua bellezza, non stava vivendo un improvviso innamoramento, non si trattava solo di un capriccio carnale; percepiva piuttosto un legame inesprimibile ma concreto a cui sentiva di non potersi sottrarre. Il Mago aveva con sé, nella cartella di pelle, dodici cartine per arrecare fortuna a Bruna e a sua madre Caterina ricoverata nel sanatorio Pizzardi. La metà di esse, in carta velina, racchiudevano dei granelli di cocciniglia, le altre, in carta quadrettata, una miscela di licopodio, sandalo rosso con una punta di sottile polvere ferrosa. Prima di dormire, i grani di cocciniglia dovevano essere versati in mezza bottiglia d’acqua e lasciarli per il tempo di una notte. Alla mattina successiva, filtrata l’acqua carminia, sarebbe occorso versare in essa la strana polvere di una delle altre sei cartine ottenendo uno strano liquido, simile alla lavatura dei pennelli da acquerelli, un intruglio rossastro e grigio che emanava un lieve odore dolciastro. Il Mago aveva aggiunto delle benefiche proprietà immateriali pronunciando una filastrocca in rima, mentre sfiorava le cartine ferrose su di una calamita che, in realtà, era un esorcismo per ottenere il favore degli Spiriti a lui fedeli; la finissima grigia polvere del metallo, mischiata alle altre inerti sostanze vegetali, sembrava quasi prendere vita con il movimento cartina, disponendosi a raggiera, secondo le linee di forza del campo magnetico generato dal magnete. E così Riccardo conobbe la parentela della ragazza intorno a una tavola apparecchiata come se fosse la festa del paese. Secondo la promessa di un mese prima Bruna, quale remunerazione per i servigi del Mago, Bruna preparò un pranzo con tortelloni di ricotta, galletto alla cacciatora e pinza montanara. Bruna era venuta al mondo il 10 luglio dell’anno 1933 con capelli ricci, scuri, lucidi e crebbe bella come il sole, allegra dimentica delle angustie. Sul volto della ragazza Riccardo non ritrovò alcuna somiglianza né col padre Aristide né con la madre che Caterina, essendo in sanatorio, poté vedere solo in fotografia, né somigliava ai fratelli Maria e Anselmo, così come non possedeva alcuna delle fisionomie diffuse in quelle zone dell’Appennino bolognese. Aristide, scavato in faccia, biondiccio, sembrava un tedesco; forte di braccio ma debole nel temperamento, taciturno, portato alla tristezza, si inalberava con scatti nervosi inaspettati per cose inutili. Caterina aveva lineamenti duri da montanara, intagliati nel legno, modi scorbutici, ruvidi, avara di gesti affettuosi, criticava e umiliava il marito innanzi a chiunque per cose inutili. Ed ebbero altri due figli, Anselmo e Maria, questi entrambi somiglianti solo al padre. Nella famiglia di Bruna vivevano anche i genitori paterni, Augusto, sempre in giro a chiedere l’elemosina da spendere in osteria, e Margherita, taciturna figlia di nessuno – figlia di enneenne si diceva – abbandonata sulla soglia di una chiesa quando aveva pochi giorni. Crebbe in un lontano orfanotrofio tenuto da suore, affacciato sul scintillante mare della Bassitalia. Dicevano tutti che fosse figlia indesiderata di un notabile. Margherita pregava incessantemente muovendo solo le labbra anche quando lavorava nei campi e per questo tutti profondamente la rispettavano, come se fosse una santa donna. Per salvare i doni della terra dai temporali gravidi di grandine recitava una preghiera rivolgendo il piccolo crocefisso del rosario contro il cielo nero; s’apriva allora un piccolo spiraglio di cielo azzurro dopodiché un vento fresco portava via le nubi dannose. I suoi occhi vedevano sagome ed ombre, vestite di veli grigiastri, persone dal volto cancellato. Nella sua mente, l’anziana donna pregava incessantemente per dare requie a esse. Era un segreto racchiuso nel suo cuore. Ogni notte vegliava nel letto con il rosario in mano, attendendo la visita di un uomo alto in redingote. Aveva un rubino luccicante al dito. L’alta figura si sedeva con dignità, sfogliando qualche pagina di un grande libro rilegato in pergamena su una sedia impagliata, che Margherita disponeva per lui, ogni sera, in un angolo della stanza vicino alla porta; l’uomo fatto di nulla e di sogni fissava Margherita in silenzio, le lacrime gli rigavano il volto austero. Lentamente si alzava dalla sedia uscendo sazio di preghiere e della misericordia della donna.

(Continua)

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